Per una lira è il titolo di una canzone di Lucio Battisti che comincia così: Per una lira io vendo tutti i sogni miei. E poi la voce a strisce di Battisti racconta la storia di qualcuno che a malincuore si distacca da una parte di sé. Ascoltandola, ho sempre pensato a chi scrive. In particolare agli esordienti. Chi, per la prima volta (e spesso per una lira) consegna il proprio destino al mondo. Nell’incertezza e nell’imprecisione, un esordio insegna a scrivere più di un capolavoro (anche quando le due cose coincidono: David Foster Wallace, La scopa del sistema, 1987). Per una lira è uno spazio dove leggendo le nuove voci della narrativa, italiana e straniera, metteremo in luce alcuni aspetti di un romanzo legati al gesto dello scrivere per la prima volta, ovvero alla scoperta della propria voce.
Alessandra Minervini, scrittrice, editor e writing coach. Il suo primo romanzo si intitola Overlove, LiberAria 2016. Il suo sito è alessandraminervini.info. Qui gli articoli pubblicati su exlibris20.
Una storia tutta per sé si rivolge a chi ama raccontare (e raccontarsi), offre una guida a chi si appresta a muovere i primi passi nel mondo della scrittura, in particolare autobiografica.
Attraverso una scrittura chiara e semplice, arricchita da esercizi narrativi ed esempio di svolgimento, il volume guida il lettore nella ricerca della sua storia, per permettergli di dar forma al desiderio di scrivere. Il libro raccoglie quesiti, sussurra consigli, propone soluzioni: è il frutto dei percorsi intrapresi durante gli otto anni di vita del laboratorio autobiografico “Una storia tutta per sé”, oltre che della lunga esperienza di Alessandra Minervini nel campo dell’editing e dell’insegnamento della scrittura. Ad accompagnare il percorso di scrittura e di lettura, ci sono le “Verità eterne”, tramandate da alcune fra le principali voci della scrittura del sé (Gabrielle Sidonie Colette, Annie Ernaux e Cesare Pavese) e i preziosi “Rifornimenti” di tre scrittrici italiane: Giulia Carcasi, Claudia Durastanti e Elena Varvello che ci accompagnano nel backstage dell’universo della narrazione.
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Lezione n. 39
Quando cominciare a (non) scrivere
Si scrive quando si ha qualcosa da raccontare. Si ha qualcosa da raccontare quando si osserva. Io vivo osservando continuamente, non tutto ma selezionando in modo naturale e scegliendo solo quello che mi interessa in base alla storia che devo scrivere. Osservo anche molto me stessa, non davanti allo specchio. Ma nelle cose che faccio e che mi accadono. Per quanto riguarda l’organizzazione entro in ramadan e infatti scrivo di rado. La maggior parte del tempo io scrivo non scrivendo. Penso tanto alla storia, ai personaggi alla loro voce e quando queste voci le vedo mi metto a scrivere. Ma ci metto tanto. Nel senso che non trascorro i giorni davanti al pc per scrivere, lo faccio solo quando ho qualcosa da dire. Mi è capitato di ragionare spesso su questo aspetto della mia immaginazione narrativa. E credo proprio che non scrivere sia il segreto per scrivere. Allenarsi sempre, certo. Tenere attive tutte le percezioni. Ma scrivere solo quando c’è da dire. Che significa scrivere poco ma scrivere in modo esatto, seguendo la propria immaginazione. L’immaginazione non è altro che un tipo particolare di attenzione. Ci sono un sacco di cose che ci passano davanti agli occhi e dentro le orecchie ogni giorno. L’importante è notare la cosa giusta, e riconoscerla come spunto per scrivere. La cosa giusta è la storia che non abbiamo ancora sentito. L’immaginazione forse non è altro che un tipo particolare di attenzione, o se volete di memoria. L’immaginazione appartiene al desiderio, quindi viene dal conflitto, perché tra il desiderio di scrivere e l’atto della scrittura c’è la realtà. Con cui si entra spesso in conflitto. Scrivere di sé nasce da un rifiuto (non necessariamente ideologico o patologico; magari soltanto passeggero, magari del tutto sconclusionato) delle cose così come stanno. Le riordina, le sistema in un altro modo oppure le smonta, le scompone, le priva di senso, le sfigura e le fa diventare altro. È una proprietà dello spirito. Ma la scrittura non è un’attività fine a se stessa, tecnica della visione e basta. Non funziona se non viene da un atteggiamento affettivo verso le cose, dal desiderio appunto. E il movente affettivo dell’immaginazione ha questo di particolare: produce fantasie sospendendo il pensiero critico. Come dire: quando l’immaginazione è al lavoro, si smette di essere intelligenti e si comincia a desiderare. Cioè, ad osservare. A sentire. A volere. Si scende nel basso di uno stato d’animo per vederne le immagini potenziali. Immagini che altro non sono che proiezioni affettive della mente che vive il disagio del rapporto con le cose reali. Ovvio che un’attività del genere ti rende intelligente, ma dopo. Nel senso che fa chiarezza sull’affetto da cui tutto è partito e che attraverso l’immaginazione stabilisce un rapporto con la coscienza. Si diventa più intelligenti, ma per via affettiva. Un invito a smettere di asservire la realtà alla comprensione, alla nostra superiore intelligenza che tutto pretende di spiegare e conoscere. Per scrivere possiamo limitarci a guardare. Sentire. Amare. Recuperare l’incomprensibilità dei fatti, delle persone e delle cose. Guardarle, per così dire, con ignoranza. Nella loro diversità, nella loro imprendibile bellezza. Nella loro perfetta irregolarità. Quando scriviamo, noi stiamo nell’angolo, questa è la posizione di rilievo dello scrittore. Chi scrive di sé, osserva. Non vive. Ha una capacità di alterazione della dimensione quotidiana, non mette in scena una proiezione di sé.
Le migliori idee vengono osservando con ferma delicatezza. Se non accogliamo questa condizione rischiamo di scrivere come urgenza. Invece non c’è nessuna urgenza quando si racconta. I segreti della scrittura sono pazienza, costanza, fiducia.
Una storia tutta per sé lavora sulla storia e non sulla trama. Che differenza c’è? La storia è il terreno intorno in cui vaga la nostra voce (il nostro sentimento, il nostro desiderio, il nostro ingombro); la trama invece porta da A a B. È importante certo, non è la prima cosa su cui concentrarsi se crediamo che la nostra vita ci offra la principale ispirazione narrativa. Se c’è solo trama, non potrai conoscere lo stile, il cioè tuo modo di vedere. Cos’ è lo stile? Lo stile è il ritmo delle storie, è in esso che si manifesta il senso della scrittura che non è tanto determinato dalla storia o dalla trama ma dalla scelta delle parole. Per funzionare il ritmo deve essere subito riconoscibile e l’ideale sarebbe inventare una metafora che regga una nuova lingua.
Se non hai da dire, non scrivere niente. Avrai scritto la tua storia più grande.
Ascolta questo silenzio necessario, prenditi un nuovo tempo e poi comincia a urlare.
Un urlo contiene un sacco di cose molto meno eleganti, piacevoli e gioiose. Contiene la rabbia e l’orgoglio. Ad esempio, le ferite. Ad esempio, l’ingombro. Ad esempio, i silenzi.
Desiderio, osservazione, sentimento, pensiero. Questi sono gli elementi primari, dentro la voce urlata di una storia. Altrimenti è tutto “già stato scritto” perché tutto è già stato visto, desiderato, pensato, provato. Invece, è così bello scoprire che possiamo innamorarci di nuovo in qualsiasi momento.
Quando si scrive si cede la cosa più preziosa che non torna più, dobbiamo essere disposti a perderla e ritrovarla in forme diverse. Scrivere è una forma di innamoramento, anzi è innamorarsi. Mentre raccontare è più simile alla creazione di una relazione. Il mio desiderio più grande è far in modo che l’amore che si prova corrisponda anche a un legame profondo e visibile e, in quanto tale, condiviso. Molto di frequente.
Esercizio per cedere la cosa più preziosa
Non porre limiti al tuo desiderio di raccontarti. Pensa alla cosa più preziosa che ti è successa, l’evento che hai vissuto e dopo hai percepito come una epifania inconsapevole. Urlala dentro una storia, una scena, un racconto, un breve capitolo. Raccontala con la forza e la grandezza di un urlo, non importa chi sia ad urlare nel racconto, l’importante è che il primo o la prima a farlo sia tu. Che stai scrivendo.
L’urlo di Tardelli
11 luglio 1982.
È un pomeriggio caldissimo. La luce del sole inonda la mia casa in via Monti n.13: arriva da due lati, dall’atrio interno dove gioco con gli altri bambini del vicinato e dalla strada, da poco asfaltata, della bottega di Rosetta.
La TV Voxson è accesa, nella mia stanza e trasmette le immagini di uno stadio pieno di gente, a Madrid in Spagna. Tanti puntini colorati che fanno da contorno al primo piano di Pertini, il presidente della Repubblica, vestito elegante con i suoi occhiali di osso.
Dalle finestre aperte e dai balconi si dirama la voce del cronista che racconta la partita che la nazionale sta giocando per vincere la coppa del mondo.
Mia madre è in clinica, al lavoro e tornerà per le venti: in casa ci sono io, zia Marisa, sorella minore di mio padre che seduto sulla poltrona di vimini, davanti alla TV, si agita ogni cinque minuti.
Sorseggio un succo alla pesca con un bucatino della Barilla come cannuccia: il sapore della pasta cruda si confonde con quello del succo e mi piace.
Per la strada assolata non passa nessuno, nemmeno i ragazzi con i motorini.
Mi muovo tra il tinello e la mia stanza, accarezzo i muri freschi color ocra.
Mi fermo nella stanza, poggiandomi di schiena al mio armadio rosa e allora succede.
L’urlo di Marco Tardelli che corre per il campo con la maglia azzurra, i capelli sudati.
Mio padre scatta in piedi e con una mossa rapida solleva me e mia zia, contemporaneamente. Un abbraccio stretto. Che mi fa sentire felice.
Riesco a sentire il suo battito cardiaco veloce nel petto e penso che sì, stiamo vincendo noi quella coppa del Mondo.
Da fuori arrivano alcuni applausi.
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