Nato a Foggia nel 1982, autore tanto prolifico quanto ambizioso dal punto di vista letterario, Antonio Bux occupa sicuramente un ruolo singolare all’interno del panorama poetico odierno in Italia, non solo per la versatilità che lo contraddistingue sul piano personale (egli, infatti, è poeta, traduttore e curatore di collane), ma per la dinamicità della scrittura proposta. In un’espressione ariosa, non priva di ossessioni private, ma ben impiantata nel solco della tradizione letteraria, quello di Antonio Bux è un lirismo di rifugio dove l’urgenza vive e rivive ineluttabili rimodulazioni del presente, tanto confinato nel passato quanto proiettato nel futuro dell’esistenza spirituale umana. In occasione della pubblicazione della raccolta La diga ombra (Nottetempo 2020) lo abbiamo intervisto per parlarci della sua poesia e delle attività che lo coinvolgono.

Si può dire che tu abbia un lungo percorso poetico alle spalle, considerando l’età: sei un autore prolifico con una grande esperienza editoriale. La diga ombra corona un percorso quasi decennale che ti ha portato a pubblicare in una collana importante, Poeti di Nottetempo. Puoi parlarci della genesi di quest’opera e più in generale di come nasce la tua poesia?

Scrivo poesie da quando avevo undici anni circa. Ovviamente il percorso di maturazione è stato lungo e ho pubblicato la mia prima raccolta soltanto nel 2012, a trent’anni compiuti. Da lì si è aperto il mio personale vaso di Pandora. La diga ombra rappresenta sicuramente un punto di svolta, sia a livello stilistico che editoriale. Per quanto riguarda la genesi del libro, questa raggruppa un progetto più ampio che va al di là della singola opera. Sulla scrittura, invece, posso dire che spesso tutto nasce da un incedere, più che altro da un motivetto che ronza nell’orecchio, o da un verso nato nel dormiveglia, insomma da un movimento tellurico che poi sono obbligato a continuare. Avendo studiato molta metrica in passato, e volendomi da sempre disfare di essa in maniera quantomeno parziale, mi sono creato delle griglie immaginarie su un foglio, delle celle dove ingabbiare i versi a favore solo di un ritmo, di un canto che pieghi il significato alla sua forza eversiva. Di questi schemi ne ho vari, anche se non rigidi, però sono presenti. A volte si creano delle strofe, che possono essere di tre o quattro o cinque o più versi, tutti regolari e cadenzati da un ritorno semantico di poche parole che si ossessionano tra loro fino a creare significanti diversi, oppure fino al totale sfasamento di senso. Altre volte procedo per blocchi compatti, monolitici, dove il dettato si fa più tendente al prosastico e dunque si eccede oltre l’endecasillabo. Ma mi piace variare, sia negli stili che negli intenti. Ciò che mi importa è creare armonia tonale, più che dire qualcosa di evidente. Mi interessa indagare il lato patologico dello scrivere, meno la sua preponderanza edificante o pseudo tale. Per me l’immagine è spasmo e dunque cerco spesso di deturparla. Inoltre mi piace complicarmi la vita, arrivare all’ultimo verso quasi sfinito. Tra l’altro penso di scrivere sempre la stessa poesia, dunque non mi pongo il problema di risultare ripetitivo o ridondante, la mia esecuzione è la reiterazione della parola fino a spogliarla del suo generico senso precedente. Mi interessa la tridimensionalità del possibile dire, o meglio, la sua potenziale atemporalità. Così come mi interessa più il processo cognitivo dell’opera che non il suo singolo risultato. L’opera per me è la costruzione/distruzione del poeta, la singola poesia una piccola breccia che testimonia il lavoro. Ed è chiaro che il “lavorio” in questo caso sia il fallimento del poeta così come dell’uomo, a prescindere dal singolo risultato, positivo o negativo che sia, di un dato componimento. Penso che tutto questo sia piuttosto evidente in quest’opera ma più in generale in tutta la mia ultimissima produzione.

La diga ombra è un’opera dal titolo enigmatico, aperto e caratterizzante. Per il poeta Antonio Bux questa figura rappresenta un limite invalicabile, “Colonne d’Ercole” dell’appercezione, oppure un limite da cui sconfinare attraverso la scrittura? L’indagine poetica avviene pertanto al di qua o al di là dell’Io? 

È in parte le due cose allo stesso tempo, perché se da un lato la figura della diga evidenzia appunto un limite, una sorta di trincea, dall’altro l’ombra rappresenta quel nero movimento che nasce dall’interno del pensiero e del sentire. Per questo mi viene da dirti che l’indagine poetica avviene sincronicamente in un limbo dell’io, a metà strada tra il dentro e il fuori. È la condizione annosa del poeta, essere nel mezzo, essere appunto un medium. Ma fondamentalmente questo titolo è un omaggio fonico ed evocativo al meraviglioso libro La tigre assenza di Cristina Campo. E se lì l’assenza era vista come una feroce tigre, qui l’ombra è pensata come una diga, come un contenitore ma anche come un’opportunità di esondazione verso l’ombra dell’intero universo. 

La tua poesia evoca una sorta di memoria del futuro, ossia un ricordo proiettato nell’avvenire. «Non saremo più noi, questo è certo, | ci saranno altri noi più belli. Ma ti rivedrò | in quel vento, in quel ramo. È così | che ci ama la terra.», recitano dei versi in chiusura di una delle liriche del libro. Quanto è importante la memoria del passato e perché la scrittura sembra tendere a una intima e irrealizzabile prefigurazione?

In generale, credo che ogni poesia sia scritta per i posteri. Molte delle poesie del libro dove c’è un tu di riferimento, spesso sono poesie che partono da remoti inconsci per andare oltre, così di una poesia non esiste un solo destinatario, ma ce ne sono due, uno proveniente dal passato e uno che fa parte di un ipotetico futuro. Bisogna sempre ricordare che è lo spirito che lì parla, e non il poeta o l’essere umano, e lo spirito non ha concezione del tempo. E in questo caso ancor di più, perché trattandosi fondamentalmente di un libro che si basa sul gioco delle polarità, qui credo si parli velatamente della lotta continua tra il bene e il male, così come anche della contemporaneità che è in atto tra la vita e la morte. Col rischio di ripetermi, azzardo che ci sia come sfondo a queste poesie una sorta di realtà multidimensionale, un varco dove si apre la possibilità di una reincarnazione o comunque di un continuum al di là di questo spazio/tempo percepito.

L’amore e il distacco sono temi ricorrenti, elementi imprescindibili della “diga” poetica attraverso cui emerge il tutto nel non detto. Ci può essere amore senza capacità di distacco?

Nel distacco vi è la sentenza principale dell’amore, certamente. Nell’impossibilità di raggiungere/possedere l’altro, si fa spazio nell’inconscio la possibilità di possederne solamente il dolore. E il dolore dà testimonianza alla vita e ci rende partecipi del fatto che l’esistenza stessa è un dolore continuo, un sentimento di abbandono che ci appartiene da sempre. Per questo è soffrendo che determiniamo e misuriamo la nostra forza o la nostra debolezza, e che creiamo empatia con il nostro inconscio e probabilmente realizziamo di essere vivi per davvero. In una delle poesie più dolorose dell’intero libro dico qualcosa di simile («Dolore, il tuo padrone sono io, | e di questo io tu mi devi soffrire»). L’amore è in questo caso il dolore definitivo, l’appartenenza alla vita per difetto, dunque la passione nel suo senso più vero, perché amando si ha quella solitudine nuda, e l’altro non è che uno specchio, una voce che chiama dal di dentro il proprio nome reale.

In quest’opera è presente una forte tensione verso l’altro. Ci sono dei versi significativi che vorrei porre in evidenza: «ma non fugge via la mia anima, | c’è e rimane nelle anime altrui | quando guardo altrove e sento | di me forse un sogno più vivo». Che cos’è per te l’anima?

Temevo mi chiedessi che cos’è per me la poesia, invece hai fatto di peggio, mi chiedi cos’è l’anima, che è la condizione totale e totalizzante della mia poesia (ride). Bella e grave domanda. Ci sono delle parole che uso reiteratamente fino ad esacerbarle del loro senso apparente, che io chiamo “neutrali”. Anima è una di queste. Per anima spesso si intende nella mia poesia quell’espiazione divina che ci porta ad essere più umani rispetto al dovuto e mero esercizio di pura sopravvivenza. Ma se pensiamo all’anima canonica, ossia a quell’essenza invisibile che sembra possederci a volte, ti dico che qui l’anima è la coscienza della poesia stessa che parla al (o per il) poeta. Per paradosso, però, più anima si espande nella poesia, più viene meno la traccia del poeta. Proprio perché l’anima non è reale, ma è reale nel momento in cui viene scritta o si lascia scrivere. È lei che compie la poesia, non lo scrivente. È forse il sogno, come spesso dico, di una parola più grande, e dunque di un sentire differente. E penso sia anche l’equivalente della parola Dio, sono il rovescio di una stessa medaglia. In definitiva credo che l’anima nel mio caso sia la volontà di morire e di restare in vita nella stessa misura di (im)potenza possibile.

«Non è mai tornare se diventa che mi vedi leggero» è un verso di Mario Benedetti che hai posto in esergo al libro. Qual è il debito poetico che senti di avere nei suoi confronti?

Il debito poetico che ho nei confronti di Mario Benedetti è lo stesso debito che ho nei confronti di ogni poeta che ha scritto grandi poesie, ovvero un debito di gratitudine e di iniziazione. La poesia è una stretta di mano, diceva Celan, e non posso che essere d’accordo. In questo caso ho citato Benedetti non perché questa mia poesia sia stata ispirata dai suoi versi, ma perché quel suo verso particolare mi sembrava adatto a “iniziare” (proprio nel senso iniziatico del termine, per l’appunto) un libro del genere. Perché quel verso per me indica proprio quel raro momento di sparizione/apparizione, di negazione ma al tempo stesso di ipotesi di movimento multiplo ed eternale del ciclo della vita. E anche nel mio caso vale dunque questo significato benedettiano: se si vede tornare qualcosa di dissolto da questi miei versi, non sono veramente io ma altro molto più grande di me.

In apertura di questa intervista hai affermato che La diga ombra va considerata al di là della singola opera. Potresti approfondire questo aspetto?

La diga ombra va considerata in un progetto più esteso, per l’esattezza è la terza parte di una mia personale esalogia poetica, originariamente intitolata L’ipnosimetro per la sua vocazione all’asfissia meta-letteraria generante una chiara ossessione ipnotica, tanto nello scrivente quanto nell’ipotetico lettore, come già ho detto in precedenza. In principio si trattava insomma di un’unica opera gigante, ma a livello editoriale risultava difficilmente collocabile, data la mole di oltre cinquecentocinquanta pagine. Ed è così che ho deciso di dividere le sei parti del libro in altrettanti volumi apparentemente a sé stanti. Oltre a questa, fanno parte dell’esalogia le seguenti raccolte: Terza persona interiore (Transeuropa), Monolite (Gattomerlino), l’omonima L’ipnosimetro (RPLibri), Ponente (Joker) e Luce del verbo impazzire (Il Convivio). La diga ombra è sicuramente una delle parti più esemplificative dell’intero progetto.

Oltre che poeta sei anche curatore di collane per due case editrici abbastanza note nel panorama poetico nazionale, Marco Saya e RPLibri. Ci puoi parlare di questa attività e raccontarci se in qualche modo questo lavoro arricchisce anche la tua esperienza poetica?

Sono felice di questa domanda, perché spesso sono più contento dei libri di altri poeti che ho la possibilità di pubblicare che non dei miei. È il mio modo di ringraziare la poesia, nel mio piccolo, per tutto quello che mi ha donato e che continua a donarmi. Se posso ricambiare regalando ad altri la gioia di vedere un proprio libro pubblicato, mi sento anch’io una persona più felice, perché sento i loro libri un po’ come la prosecuzione dei miei, per certi versi. Tra l’altro quasi sempre sono io che mi vado a cercare gli autori, e non viceversa. Dunque l’affinità elettiva è alla base di tutto. Nello specifico ho il piacere e l’onore di dirigere la collana Sottotraccia per le edizioni Marco Saya dal 2015, mentre per RPlibri curo la collana L’anello di Mobius dal 2018. Abbiamo fatto cose importanti, lanciato autori di assoluto livello e prospettiva, così come provato a dare una panoramica quanto più sfaccettata possibile sul variegato e complesso scenario poetico che c’è attualmente in Italia. Ad oggi ho pubblicato più di trenta libri e altrettanti autori, è un’esperienza formativa e di vita sicuramente appagante, mi ha dato modo di diventare non solo editor della loro poesia, ma anche editor di me stesso. Infatti grazie a questo lavoro sto imparando sempre di più la misura della durezza, il pretendere sempre il massimo possibile e non lasciare mai niente al caso. E poi è davvero bello sapere che ci sono autori che affidano alla tua curatela qualcosa di così intimo e passionale come può essere il proprio lavoro poetico. È gratificante perché penso che il mio miglior talento sia quello di riconoscere e potenziare (o quanto meno di inquadrare al meglio) la poesia altrui, più che scriverne io stesso. Spero che i risultati di questo lavoro siano sempre più apprezzati e che i miei autori possano ritenersi soddisfatti, anche dello scambio umano che avviene, e non solo del semplice rapporto che normalmente intercorre tra un autore e il suo editor. Difatti con molti dei miei autori si è stabilita una vera amicizia, che dura nel tempo, e di questo non posso che esserne contento e grato. Perciò approfitto di questo spazio per ringraziare tutti i miei autori, così come gli editori che mi danno la possibilità di poter svolgere questo importante lavoro di scouting. E mi permetto di anticipare qui il lancio di una mia nuova collana per il 2022, Le mancuspie, per l’editore perugino Graphe.it. Un progetto ambizioso, che coinvolgerà grandi autori della poesia italiana. E per concludere ringrazio anche te, caro Federico, per aver pensato a me per questa intervista. Non amo molto parlare del mio lavoro e concedo ormai poche dichiarazioni in tal senso, ma data l’importanza delle tue domande non ho potuto fare a meno di accettare l’invito, perciò grazie mille a te e a chi spenderà il proprio tempo a leggere queste mie parole.


Grazie a te per la piacevole conversazione.

Tre poesie

Proprio di un albero ti innamori.
Lo vedo nascosto nei tuoi seni
come il capezzolo verde bambino;
così tu mi spogli e sento il sole
sereno, non più di macchie.
Così vedo gli anni passare…
Morbidi, rotondi, senza fatica
(ma sono solo un vecchio
che vuole vedere perché il sole
dentro di te è eterno); un ragazzo
laggiù, chi hai amato; così di me
al di là dell’albero ami
e le mani simili a foglie – sapremo
questo – lo stingersi solo
e i colori, i volti attaccati alla terra.

***

Forse Dio è solo un uomo,
un uomo che non sa di vivere,
ma esiste, solo per dare
amore a un dio più umano.

Questa la verità dell’uomo?
Non sapere amare, ma amare Dio,
questo è ciò che lui smette?

Da un’ombra della sua costola
forse una serpe ha voluto,
ma la donna piange di vita,
e un uomo che dio vuole essere.

Diventare cielo, questo l’azzurro
divenire, così un uomo e una donna
ci sono, e Dio li ama per questo.

***

Addio dolore. La tua sacca
chiusa è rimasta nel tempo.
Perché abbiamo cercato
il bacio senz’amore
e così la stella là in alto?
Ora ci osserva dal suo pulito
spazio che non esiste,
una fibra umana la riunisce
e per niente vuole disperderla;
sembrerebbe un lucido
colore che tu non hai dato
e questo corpo il ricordo
confuso, di madre deserta.
Un pensiero che vuole micro
parti di sé osservare, da un cielo
già morto il viso coperto di luce aliena.
Ma che strano vedersi atterrati
e da soli, in volo senza più meta,
maestri solo di un fiore cieco.
Perciò dolore, non puoi dirmi addio.
Da questa stella ti provo,
riesco a vederti e sembri chiaro
come il destino di un seme.
Dolore, il tuo padrone sono io,
e di questo io tu mi devi soffrire.

Antonio Bux

Intervista ad Antonio Bux a cura di Federico Preziosi