In un dialogo tra Mario Rigoni Stern e Marco Paolini (contenuto nel documentario Ritratti, di Mazzacurati, uscito nel 1999), l’autore chiede al suo intervistatore se ha mai assistito a un’alba sulle montagne. Mentre si aspetta che il sole sorga, sostiene Rigoni Stern, nel momento che precede l’alba, è possibile avvertire un fremito. E «non è l’aria che si è mossa, è un qualche cosa che fa fremere l’erba, che fa fremere le fronde se ci sono alberi intorno, l’aria flessa, ed è un brivido che percorre anche la tua pelle». L’alba è un momento in cui l’animo umano può sentirsi coinvolto nel brivido della creazione, può percepire l’emozione di essere parte dell’universo, avvertire un senso di comunione cosmica.
La montagna permea la poetica di Rigoni Stern tanto quanto permea la sua stessa vita. Per questo motivo riesce a darne una visione completa: luogo di pace e di guerra, di quiete e di fatica, di gioia e di dolore. Ma soprattutto luogo di libertà, in cui non esistono confini né trincee (o, perlomeno, in cui sono presenti sentieri nascosti tra gli alberi che permettono di aggirare questi ostacoli), e a cui sempre si vuole tornare. Il romanzo che meglio riesce a fornire una sintesi di tutti questi aspetti è Storia di Tönle, uscito nel 1978 (e con cui l’anno successivo ha vinto il Premio Campiello).
Quella di Tönle è una storia antica, tramandata nell’altipiano, che si svolge tra la metà dell’Ottocento e la Grande Guerra. Il narratore, come spiega nella cornice, la racconta all’amico Gigi, che passa a trovare ogni sera, nell’ora del tramonto – la stessa ora in cui una vacca contempla immobile l’orizzonte, in attesa forse del brivido dell’alba successiva.
Tönle è un contadino e pastore veneto, che durante l’inverno si dedica al contrabbando di merci sul confine tra Veneto e Impero Austro-Ungarico. Colto in flagranza da degli ufficiali della guardia di finanza, e dopo essersi scontrato con essi per evitare l’arresto, Tönle deve iniziare la sua fuga dal paese natio. L’esilio è perdita della libertà di vivere nel proprio paese, ma coincide anche con la libertà di poter viaggiare e scoprire il mondo: parte della vita di Tönle è una peregrinazione attraverso l’Europa balcanica e la Mitteleuropa, interrotta solo durante l’inverno – stagione che riconduce al letargo, al rientro nella propria «tana» –, periodo dell’anno in cui il protagonista si rifugia nella propria abitazione, ricongiungendosi alla moglie e alla famiglia, pur sapendo di dover rimanere nascosto all’interno delle mura domestiche.
Con il trascorrere degli anni, la vita da migrante di Tönle da questione privata diventa tendenza generazionale: «Il tempo, intanto, segnava i visi dei famigliari e degli amici, accadevano cose nuove e nuove idee circolavano anche tra la gente delle nostre contrade. Ormai erano in tanti che andavano a lavorare fuori dai confini dello Stato; partivano in primavera, a gruppi, con gli arnesi del mestiere dentro la carriola e a piedi si avviavano per l’Asstal e il Menador fino a Trento, dove chi aveva i soldi poteva prendere anche la strada sterrata. […] Ma chi riusciva, lavorando prima in Prussia o in Austria-Ungheria, a mettere insieme i soldi occorrenti per pagare il bastimento emigrava nelle Americhe. Laggiù, scrivevano, era tutta un’altra cosa: lavoro ce n’era sempre e le paghe erano più alte che in qualsiasi altro paese». La storia di Tönle anticipa e coincide con quella della gente dell’Altipiano dei Sette Comuni, costretta a emigrare in cerca di lavoro, chi dedicandosi a lavori stagionali e rientri annuali in patria, chi scegliendo di crearsi una nuova vita al di là dell’Oceano.
La storia di Tönle prosegue, e il protagonista si trova coinvolto nel secondo grande cambiamento dell’Altipiano: quello successivo alla sparatoria di Sarajevo e all’entrata in guerra. La montagna cambia aspetto, si popola di nuovi personaggi: «ai margini dei boschi sorgevano accampamenti, fumavano cucine da campo; ogni giorno al poligono del Petareitle i fucilieri facevano i tiri e gli zappatori segnavano i punti del bersaglio». Tönle, che negli anni della guerra ha ottenuto il condono ed è potuto ritornare a essere un pastore, osserva con preoccupazione il cambiamento degli equilibri ecosistemici dovuti alla guerra: «borbottò qualcosa tra sé, come espressione di un pensiero, convinto di una ineluttabilità imminente: se permettevano il pascolo delle pecore in un bosco bandito e se i militari sparavano con i cannoni sui pascoli delle pecore veniva sconvolta ogni ragione».
La Grande Guerra (così come gli altri cambiamenti storici avvenuti a cavallo tra XIX e XX secolo) è affrontata non come evento importante in quanto tale, ma nella ripercussione dei suoi effetti sulla società dell’Altipiano: Tönle è interessato alla sua montagna, che di stagione in stagione subisce dei cambiamenti, e alla sua gente, che per questi cambiamenti è costretta a cambiare abitudini e mestieri. Il passaggio delle stagioni – e non degli anni – è il metro di misura del tempo, e soprattutto innesca una riflessione sul passaggio del tempo e sulla precarietà della vita umana: «continuava a guardare quel viso e quelle mani ora sulla coperta e si rendeva conto del tempo e della vita che era corsa via: quella di sua moglie, quella sua, dei suoi vecchi, dei suoi figli e anche quella che sarebbe corsa via per i nipoti e i pronipoti».
Ma la simbiosi con la montagna offre anche una consolazione al pensiero della fine, e offre la possibilità di valutare la morte non come annullamento ma come ricongiungimento con il luogo attorno a cui è ruotata tutta la propria esistenza: «Accese la pipa e gli capitò, quella sera, di pensare anche lui alla morte, ma non con angoscia e paura bensì come a un riposo, un restare in sosta per sempre in un paesaggio come questo, da guardare». La montagna è luogo della riflessione, della contemplazione; luogo in cui di sera si medita sulla morte sempre potenzialmente imminente, e in cui di mattina si gioisce per il brivido della creazione. L’unico luogo possibile in cui vivere la propria vita, tanto per Tönle quanto per il suo autore.
Enrico Bormida
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