Una scrittrice italiana, naturalizzata americana, è rimasta seduta in platea dopo che sono andati in scena, con le loro disarmonie e armonie, I promessi sposi di Manzoni. Il sipario cala, le luci si spengono ma i protagonisti sono ancora tutti lì che la osservano, come dei personaggi in cerca di autore nonostante il passaggio della Provvidenza che, nel frattempo, è stata richiesta altrove. La loro è una di quelle musiche che, lo ricordava Carlo Fruttero, non ti abbandonerà mai. Forse è per questo che ogni lettore, almeno una volta, si è chiesto che sorte sia poi toccata a quei nostri compagni di viaggio, per sorte o per ministero, a Renzo e a Lucia, a Don Abbondio, all’Innominato…

Ne La fossa dei lupi, pubblicato da poche settimane da Mondadori, assistiamo al loro ritorno sul palcoscenico, insieme a inedite figure decisive e divisive, in un nuovo capitolo all’ombra di una Milano controllata ma non così oppressa dagli Spagnoli e appena scampata alla peste che ha determinato un prima e un dopo nelle vite dei propri abitanti. Ci ricorda qualcosa. A curare la ‘regia’ è Ben Pastor nella cui messa in scena si sente l’omaggio a Manzoni ma resta inconfondibile la sua voce cristallina che riafferma la nota vocazione per il noir e il giallo storico in una narrazione pervasiva di anime e luoghi, sempre poggiandosi, come un abile equilibrista, sul filo teso tra vero e verosimile.

Così il sipario si rialza nuovamente e assistiamo non tanto al seguito de I promessi sposi  quanto a una cronaca, frutto di un lungo lavoro documentale, che illumina le pieghe oscure del Seicento lombardo nel quale tornano a operare i protagonisti scritturati a suo tempo da Manzoni. Ci troviamo davanti ad un’epoca di vasi di ferro e di terracotta che, trattenuto a lungo il respiro, ora si appresta a riesumare vecchie aspirazioni, rancori e cocci che culminano nell’uccisione di chi non ci saremmo aspettati, dell’Innominato, il protetto del Cardinale Borromeo e a sua volta protettore, al secolo Bernardino Visconti. 

Si tratta di un delitto che, pure in un’atmosfera dove si percepisce ancora la paura della morte, viene accolto nelle vie delle città e nei casolari delle campagne come la fine della minaccia al quieto vivere perché la gente, ieri come oggi, non dimentica, e del Conte del Sagrato, conversione o meno, ricorda più il lupo che è stato per trent’anni che l’agnello che è poi diventato.

Nella fossa dei lupi, lontano dagli occhi di Milano, «un pozzo secco, orlato di pietre, al centro di un groviglio di erbacce e rovi spogli che lo nascondono dallo sguardo», un luogo così tipico nel Nord Italia di allora per intrappolare pericolosi animali antropofagi, si è forse realizzato il prezzo da pagare per chi ha deciso di cambiare vita? Possibile che il Visconti sia caduto inerme nella trappola? Un uomo che ha tenuto in scacco la giustizia per decenni dovrebbe sapersi guardare le spalle e non esporsi al rischio e ricordarsi che, dopo un cambio di vita, farsi nuovi amici non significa fare scompare i vecchi nemici?

Chi ha ucciso dunque l’Innominato? I suoi sgherri che si sono voluti vendicare una volta rimasti disoccupati oppure Don Rodrigo che, benché morente di peste nel lazzaretto, potrebbe avere assoldato sicari per quella ragazza rapita e poi liberta dal Visconti? Oppure lo stesso Renzo, che nel frattempo ha messo su famiglia con Lucia nella bergamasca e si è fatto imprenditore, non pago delle ricompense del suo famoso benefattore? E Don Abbondio che si è trovato nei suoi incontri fatali tra le calende dei potenti e il pridie dei villani? E che responsabilità derivano dal sempre più chiacchierato convento di Monza?

A fare luce su questo giallo prismatico è Don Diego Olivares, luogotenente di giustizia, metà spagnolo e metà italiano, un uomo colto ma scisso tra la legge degli uomini e quella di Dio, un’anima tormentata che vorrebbe fare il gesuita e il martire in terre lontane e, contemporaneamente, comprendersi più a fondo e capire da quale finestra affacciarsi per capire il suo ruolo nel mondo. Olivares sa bene di muoversi in un terreno dove, dopo la furia della peste, la fiducia nell’altro si è raggrinzita, in una «città in guerra senza la guerra vi fosse transitata direttamente» dove regna la giustizia privata e le soperchierie dei potenti imperversano forse più di prima. Come sa che intorno al Visconti c’è una ramificazione di complici e nemici che congiurano nell’ombra, che conoscono le tante verità di quell’uomo che ha mandato in crisi, anche solo per un momento, un mondo ben collaudato di soprusi da parte dei signorotti locali nei confronti della gente comune.

Dunque non resta che indagare tra la cerchia dell’Innominato e dei suoi corrispondenti lasciando aperte tutte le piste, consapevole di dovere attraversare un mondo in bilico dove non basta più affidarsi alla Provvidenza ma occorre «dragare l’acqua fino in fondo» anche affidandosi ai bargelli e alla loro rete, senza dimenticare che la giustizia secolare deve fare i conti con quella concorrente del Cardinale, protettore del Visconti, che reclama giustizia per quel corpo trovato trafitto da un archibugio e abbandonato in una fossa.

Olivares, a ben guardare, non sente solo il bisogno di indagare ma anche di indagarsi perché, se è vero che nel comportamento esteriore si vede un buon cristiano, tuttavia i suoi sensi sono attraversati dal vortice interiore della sua buena sangre che accende la sua passione, che lo fa andare in fondo alle cose, che lo avvicina al rituale della sensualità seicentesca dove lo attende Donna Polissena, una vedova coltissima, indipendente, scienziata, che lo smarrisce dopo essersi lei stessa smarrita nelle letture pagane e in Galilei con cui è in corrispondenza. E le ‘corrispondenze’ di questa eccentrica nobildonna potranno rivelarsi preziose per chi come il capitano di giustizia deve cercare.

Olivares è senza dubbio la figura centrale di questo romanzo e forse, al pari dei celebri personaggi letterari di Martin Bora e di Elio Sparziano firmati da Ben Pastor, potrebbe dare il via ad un nuovo ciclo di romanzi. I protagonisti manzoniani gli ruotano intorno come in un gioco di ombre, di rifrazioni e di marionette ma è attraverso i suoi occhi vividi e penetranti che scopriamo le anse del Seicento che si racconta dal di dentro con i suoi ‘perché’ ed è inoltre passando dalla sua complessa personalità che comprendiamo cosa vuole dire la grande sfida di essere veramente sé stessi. Sempre prestando la massima attenzione a dove si mettono i piedi perché intorno a Olivares il terreno è disseminato di fosse di lupi che in molti attendono di vedere riempite…

Claudio Musso

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