Uno sterrato ai piedi di una scarpata su cui passa un cavalcavia.
Sul terriccio grumoso, due linee di gesso bianche. Si tratta del ‘corner’ di un campetto di calcio presso cui, sin dalle prime ore dell’alba, affluiscono vari ragazzi e ragazze che, disertando la scuola, si sono lì dati appuntamento per una partitella di cui gli uni saranno protagonisti e le altre spettatrici. La situazione, solo marginalmente legata all’evento calcistico, è tale da consentire un intreccio di racconti. Piccoli grandi amori … ansie di crescita … sogni di trionfi futuri … progetti matrimoniali … e quant’altro ancora può immaginarsi come alimento fantastico di quell’ineffabile età di passaggio che è possibile individuare nel valico tra l’ultimo anno di scuola e il primo di università, o di lavoro.
L’età delle prime ‘chances’, delle grandi attese, del grande futuro che incombe.
Il secondo atto della commedia racconta un’altra partitella giocata in quello stesso campo e dagli stessi ragazzi ma un anno prima della precedente. In questo montaggio ‘a ritroso’ sarà dato di ricomporre i disegni imperscrutabili del destino che, si scoprirà, ha giocato, come spesso avviene, con le vite di quei ragazzi decidendone a suo piacimento.
Speculare al racconto della scena potrebbe essere quello dell’allestimento di questo copione. Servivano, per rappresentarlo, ben venti attori di giovanissima età: undici ragazzi e nove ragazze. Ad alcuni, inoltre, era richiesta una certa attitudine calcistica oltre che interpretativa. Requisito necessario anche per uno dei ruoli femminili. Insomma, una follia. Almeno per quello che è lo sconfortante panorama produttivo italiano. Tanto che l’idea, amatissima, di una simile storia già la tenevo in incubazione da anni ma autodissuadendomi dallo scriverla in ragione di mille problemi che, ne ero certo, avrei trovato nella fase realizzativa. Eppure quel piccolo universo di adolescenti dalla vita tanto prevedibile ma non perciò indegna di essere testimoniata mi lanciava segnali di sé e un’urgenza di esistere che m’ha imposto, e a lungo, notevoli sforzi di sordità per sottrarmi, comunque, a un impegno dai profili tanto poco redditizi. Ci volle un’occasione concreta per farmi rompere gli indugi e indurmi alla scrittura. E l’occasione venne dalla possibilità di elaborare un testo da mettere a disposizione di una scuola di teatro, quella di Gigi Proietti, che avrebbe provveduto ad allestirlo come saggio di fine corso. Per una replica e basta, ma sarebbe stato pur sempre qualcosa. Insomma, mi decisi a partorire e partorii, e la commedia, con la regia di Ennio Coltorti, riuscì ad andare in scena. Sennonché allora non vivevo in Italia e neanche m’è riuscito di godermi quella che, ci avrei giurato, sarebbe stata la sola e irreplicabile apparizione dei miei quasi imberbi personaggi nella luce reale e, al contempo, fittizia della scena. Ma, per una volta almeno, le cose sono andate assai meglio del previsto. Con un’altra regia, stavolta di Piero Maccarinelli, e una vera produzione, quella di Marco Balsamo – un impresario che, per età, avrebbe potuto benissimo figurare nella lista degli interpreti – La Partitella ha invece avuto il bene di una sua piena, e vera, vita teatrale: venti repliche toccando tra i più importanti teatri d’Italia – dalla Pergola di Firenze al Quirino di Roma, dal Duse di Bologna allo Stabile di Genova sino alla ripresa televisiva per la serie ‘Palcoscenico’ di Raidue e a più che un progetto di film per la probabile regia di Ricky Tognazzi. Oltre una trentina i ragazzi coinvolti, fra titolari o sostituti, e oltre cinquecento i giovani attori accorsi ai fiammeggianti provini romani serviti a comporre la formazione base dello spettacolo. Un ‘curriculum’, questo, che snocciolo con tangibile, e per me inusuale, vanità. Ma si può capire. Come dopo una battaglia che è stato bello combattere e bello vincere. Nella mia già discretamente lunga carriera di teatrante mai mi ero trovato, prima, a osservare un’aderenza tanto impressionante tra il racconto raccontato e la sua officina. Ovvero, tra le emozioni fintamente elaborate secondo i dettami del traslato scenico e quelle, in – discutibili, dei ragazzi chiamati ad incarnarle. Per molti di essi, potrei giurarci, il teatro già si dà nel loro futuro come una certezza, ma potrei dirlo per tutti e trenta? Non credo. Forse, chissà, a smettere saranno proprio quelli di maggior talento e a continuare i più volenterosi, spinti da una determinazione capace, me lo auguro, di maturare qualità a tutt’oggi ancora sfumate.
Ma per meglio far capire una delle chiavi di connessione tra la realtà degli attori e quella dei personaggi vorrei tornare a un aspetto più strettamente testuale e riferire, almeno, del ruolo che nel- la commedia è svolto dal linguaggio. I protagonisti de La Partitella si esprimono, difatti, con una calata evidentemente romanesca ma sarebbe un errore interpretare la loro lingua come un puro e semplice dialetto. Il romanesco del testo è, quantomeno, il più anomalo dei dialetti. Diciamo che è il meno dialetto dei dialetti. Una lingua senza storia, senza offerta a mille scorrerie, ovvero: anglismi dell’ultima ora, settentrionalismi, giovanilismi, storture da induzione ludica (anagrammi, sostituzioni di senso, ecc.).
Una parlata, insomma, che è una sorta di ‘esperanto’ urbano modificabile da un giorno all’altro, a secondo dell’avvento di nuovi miti e della svelta obsolescenza d’altri, e sagomato su un offuscato modello idiomatico che è appunto il romano più poroso e permeabile. Per certi versi anche il più percepibile da qualsiasi orecchio nostrano proprio in virtù di una sua larga diffusione su territorio nazionale dovuta sia al cinema che alla televisione, che hanno permesso di formulare le frasi, i discorsi, le ideologie della mia adolescenza. È una lingua di quelle lontane dispute e di quelle lontani ambizioni. Ebbene, da un punto di vista drammaturgico, e nello specifico della nostra storia, questa lingua si propone come una sorta di ‘zona franca’ all’interno della quale consentire, coesivamente, l’incontro dei più diversi strati sociali e delle più distanti fisionomie culturali. In quel bizzarro assemblaggio non è infrequente ritrovare gomito a gomito il laureato con l’analfabeta, il quindicenne con il trentenne. Promiscuità riverberata, peraltro, nelle arlecchinesche tenute da gioco che è pura illusione sperare possano mai armonizzarsi in una concordata uniformità.
Forse erano anche questi i motivi per cui Pasolini, ottimo calciatore, trovava nell’idea stessa di ‘partitella’, di cui era appassionato sostenitore e frequente protagonista, tratti di struggente, infantile e malinconica poesia.
Giuseppe Manfridi
L’autobiografia del 1997
Giuseppe Manfridi è romano. Del ’56: classe celebrata da Miguel Bosé nella mitica “Noi ragazzi del ’56”. Calcio e teatro le sue passioni. La seconda pare si sia trasformata nella sua professione. Anche se spesso la prima è stata chiamata ad alimentare l’altra. Connubi da cui sono nati commedie come Teppisti!, La Partitella e Ultrà. Incursioni nel cinema, soprattutto collaborando con Ricky Tognazzi. E pertinaci incursioni, ancora e nonostante tutto, su campi di calcio e di calcetto. Ha vissuto a Parigi. Se ne è tornato a Roma. C’è chi dice che tornerà a Parigi. Lui non lo sa.
Giuseppe Manfridi oggi
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