È uno strano mondo quello tratteggiato da Vito Ferro: è anomalo, in bilico; un attimo si salva, l’attimo dopo sembra cadere a pezzi. Qualche volta lascia comunque sperare il lettore, che possa riconoscerlo, ritrovarsi in quei tratti a penna, come fossero strisce di un fumetto psichedelico con pochi scambi di dialogo, radi balloons.
Lui è padrone del mondo, lui crede all’incredibile, adesso. È la forza di chi racconta storie e di chi ci crede. L’autore strappa ogni tanto anche qualche sorriso tirato. Quando lo spirito è ben disposto, in una sorta di primavera dell’animo, possono essere Gemme le parole, le risate. E l’io di turno prendersi il lusso di coccolarsi, ritagliarsi un angolo di pace (Assaporavo il pensiero e me lo tenevo in bocca come zucchero). Ma non c’è soddisfazione o appagamento, e sentirsi nel posto giusto è difficile persino quando pigrizia e mollezza sembrano procurare conforto, procurando invece celeri illusioni (La casa mi stava comoda come una tuta). Non va bene abbassare la guardia, si rimane feriti.
È una carrellata di giorni amari quella de La perdita degli anni – non poteva che essere così: è preannunciata dal titolo, e l’atmosfera più comune è quella notturna, poco rassicurante, quella della copertina, che condensa in immagine fotografica ciò che il libro trasmette a parole. Una raffinatezza, non so se casuale, la numerazione delle pagine, che scorrono al contrario, quasi in un countdown particolarmente felice e coerente, quasi che il tempo possa tradursi in granelli di sabbia di una clessidra immaginaria.
Tanti e vari sono gli autori che ricordano alcuni racconti – parliamo di mostri sacri: penso al potere di Una gomma e una matita del compianto Giorgio Faletti (riedito da La Nave di Teseo), ai miracoli imperfetti di Giosuè Calaciura ne Il tram di Natale (Sellerio, vincitore nel 2019 del Premio Presìdi del libro), alle schegge impazzite che ti lascia addosso Di cosa parliamo quando parliamo d’amore di Carver, all’esordiente americana, più surreale, Rita Bullwinkel con Lingua nera (Edizioni Black coffee) – mi vien quasi da scomodare persino La nausea (sintomo ricorrente nel libro) di Sartre e il grigiume da lavori forzati dell’uomo inetto e schiacciato dal presente di Buzzati. Questo per dire che non è l’originalità ciò che colpisce, ma illuminano certe frasi: abili nel descrivere un mood, concedono lampi di verità fulminante nel triste buio.
Erano finiti i tempi delle sere acerbe, di lei nascosta per una sorpresa, degli abbracci e di cena che brucia brucia brucia mentre loro fanno l’amore.
La felicità, si sa, è un fulmine, una sorpresa, un fuocherello debole. Qui non si sta bene nemmeno in paradiso, dove C’è silenzio, ma è come se suonassero i tuoi pensieri, e quelli di tutti gli altri. E la notte è un’impresa prender sonno: o perché divorati da sospetti e gelosie, o perché Poteva dare la colpa alla digestione, ai pensieri latenti in fondo al petto. E il cuore pesa, è un macigno.
La nostalgia è il sentimento per eccellenza, che pervade ogni cosa, e fa coppia con l’insicurezza, l’instabilità. L’egoismo è un personaggio ingombrante, che fa penare persino quando si è soli, in casa – uno spazio più spesso claustrofobico, che non sa essere rifugio, anzi è tana dell’animale da stanare e del sentimento da esternare ed estirpare.
Personaggi comuni, ma anonimi seppur dotati di nome, appaiono slavati, sbiaditi, stanchi: quando posseggono un lavoro, è sullo sfondo, irrilevante, insignificante, senza specifiche né dettagli. Sono uomini e donne spaesati, che non sanno riprodursi. Lottano soprattutto contro il tempo, più che contro la morte: a questo fagogitante elemento immateriale che può l’inimmaginabile si rivolge l’autore: Al tempo che rulla e sbanda e inghiotte.
Francesca Di Bitetto
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