Hai mai pensato a quale sarà l’ultima cosa che farai? Legarti accuratamente le scarpe, lasciare un biglietto per il corriere di Amazon o partecipare ad una festa, l’ultima, sapendo che non ci sarà più tempo per farne un’altra. Per alcuni degli assidui lettori di questa webzine l’ultimo atto sarà una storia incompiuta. Hai mai pensato quale storia, quale capitolo, quale riga lascerai incompiuta?
Lascio qui la promessa di lavorare al nuovo libro con maggiore assiduità. Uscirà al pubblico l’anno prossimo. Se la vita non mi viene a mancare.
Così scriveva a novembre del 2009 José Saramago a proposito del romanzo che non finirà mai, Alabarde alabarde. Saramago sapeva già di essere abbastanza malato da avere la data di scadenza di una vita piena e prolifica di storie. Malgrado ciò scrive. E come ricorda Fernando Gómez Aguilera nella prefazione del libro uscito per Feltrinelli, scrive molto nel periodo in cui la malattia è conclamata: “A testimonianza della sua prolificità e del vigore dei suoi bagliori, erano lì oltre a Il viaggio dell’elefante (2008), Caino (2009) e i lampi di Il quaderno (2009) e L’ultimo quaderno (2009). Quattro titoli mentre il male prendeva il sopravvento.”
E a proposito del libro che non riuscirà a terminare lo stesso autore scrive: Nonostante io non sia sicuro di poter concludere il libro, gli ho cambiato il titolo. È l’ultimo giorno dell’anno, dell’ultimo anno che vedrà per intero. José Saramago morirà 168 giorni dopo.
Ci sono Martin Amis, Jeffrey Goldberg corrispondente del The Atlantic che conversano con Christopher Hitchens, spelacchiato dalla chemio. Sono venuti a guardare un amico che muore con il misurato e implacabile understatement britannico. Hitch non si sottrae alla curiosità e risponde a proposito dei suoi giorni, da bad a worst, esulle aspettative di vita come fossero i risultati del cricket. Christopher Hitchens non copre la sua condizione: i capelli radissimi non sono stati rasati, non sono coperti da un cappello, da una bandana ma cadono lunghi sulla nuca e sulla fronte come una rivendicazione, una forma di resistenza al piegare il proprio essere ai dettami della malattia. Hitch è prostrato ma non piegato. Mentre la conversazione prosegue tra le idee più affilate sulla mortalità io sento il peso di guardare la decadenza umana. Fatico ad ascoltare le parole implacabili e lo sguardo brillante del morituro. Non ce la faccio, ho bisogno di una pausa.
Mi convinco di aver appena preso un incarico che non riuscirò a portare a termine.
Mi è stata commissionata la recensione di Dopodomani non ci sarà dello scrittore torinese Luca Rastello una raccolta postuma di scritti nella quale domina il senso della fine, attesa e conosciuta la sua, avvenuta il 6 luglio del 2015. Luca Rastello era malato da dieci anni. Ma non credo avere la forza e la lucidità necessarie a portare a termine l’incarico.
Ci sono moltissimi modi per morire, ad ognuno di noi ne è assegnato uno solo. Raramente lo si può scegliere e mai lo si può ripetere. Ad una morte “brutta” o incompatibile con la propria storia personale non c’è rimedio. Uno scrittore, invece, muore mille volte. Per sua natura uno scrittore è un esperto di creazione (o ricreazione) di esperienze umane che penetra, approfondisce rivive cercandone l’essenza, l’ordine, qualche volta il senso. L’unico modo per diventare voce assoluta è ostinarsi nell’esercizio di rimuginare, passare e ripassare sullo stesso paesaggio desolato per ricavarne l’essenza. Scrivere è riscrivere. Parabola ne è quella di Jan Potocki, autore polacco di epoca napoleonica, che per anni limò una fragola d’argento, ornamento della sua teiera, fino a trasformarla nella pallottola con la quale si suicidò. Questo è il lavoro dello scrittore. Non è quindi un caso che il libro di Rastello, scrittore affilato, inizi proprio con il polire il concetto di morte da tutti gli ornamenti fino a non lasciar quasi niente. Lo dice lui stesso: Della morte non c’è da dire che non c’è niente da dire.
Eppure di morte ne dice, tanto che se ne può confezionare un libro intero.
C’è da chiedersi se ci sia qualcosa di diverso, in questo libro, rispetto alle ormai tante opere del genere della letteratura tumorale. La copertina è del tutto simile allo standard: il grande faccione un po’ santificato del morituro che fu di Tiziano Terzani, giù giù fino a Francesca del Rosso e Nadia Toffa. Stiamo parlando un altro libro in cui la condanna è riflessione, distacco, opportunità persino? Un’apologia di un autore che si eleva ad archetipo eroico? La storia di un “combattente”? Niente di tutto questo.
La storia di Luca non ha nessuna forma di lieto fine, nessuna morale della favola da raccontare. Non usa la malattia come strumento di elevazione e neppure fa il lavoro dello scrittore didatta che nel mettere in riga il tumore lo spiega, lo giustifica, lo disinnesca.
In questi testi non c’è tenerezza nell’indicare la dimensione del male. Non c’è sopravvivenza alla morte. Lo scrivere di Luca Rastello è caravaggesco in quanto si oppone allo storytelling barocco e lenitivo delle esperienze dei sopravviventi, quanto ebbe a riconoscere Giulio Carlo Argan nel pittore lombardo:
L’arte barocca, nel complesso, è una esaltazione troppo enfatica del valore della vita per non tradire, al disotto, il pensiero assillante e angoscioso della morte. Se della morte stessa farà spettacolo negli apparati funebri e nei sepolcri, sarà per coprire il gelido orrore della fossa che il Caravaggio aveva additato come ultimo destino dell’uomo.
Un libro che non è consolatorio nemmeno nella forma. È un’opera postuma nata dall’iniziativa di quella che ben si può considerare una seconda autrice (perché non dirlo già dalla copertina?): Monica Bardi. Monica Bardi ha raccolto i testi sparsi di quella scrittura furibonda e gli ha dato un ordine, ne ha selezionato le parti più “finite”, ne ha editato minime porzioni, ne ha dato la forma senza impedirne il movimento. Più che una curatrice Monica ha accudito al libro. Ne ha curato la regia.
Quello che ne risulta è un’esperienza disordinata, densissima in cui alcuni pensieri risultano persino incomprensibili tanto sono intrecciati con la parte più intima della vita dell’autore. Un libro abbozzato, affrettato, ritrovato nella necessità di dire tutto quel che c’è da dire nel tempo rimasto.
Non ho tempo da perdere, devo lavorare, devo lavorare…È una corsa contro il tempo, per arrivare alla verità prima di essere fermato, diceva Paolo Borsellino consapevole della sua condanna. Condannato dalla mafia, organismo parassita che uccide il suo ospite dall’interno. Come il cancro. Non è un caso che nel momento della sua morte scompare insieme alla sua vita l’agenda rossa nella quale stava intrecciando il suo racconto indagatorio.
Verrebbe da chiedersi cosa sarebbe accaduto se Luca avesse avuto più tempo, se avesse potuto editare con calma, rifinendo le frasi, scegliendo le parole, testandole, rileggendo e riscrivendo una storia strutturata e solida, lavorando con l’immortalità nel cuore. Ma è una domanda fuori luogo perché è proprio in quell’affannarsi a dire tutto nel più breve tempo possibile che risiede la forza di questo testo, il momento in cui si sente più precisa e netta la presenza della fine. Non è un saggio, non è una testimonianza, non è una storia. Questo libro è un evento, un hic et nunc che non lascia scampo. È un libro da leggere di corsa, sfiorando i ragionamenti più complicati per lasciarsi trasportare da quel fiume di parole crudeli e crude. La scansione delle frasi, così ossessiva e precisa realizza il sogno teatrale di Antonin Artaud: È essenziale porre fine alla soggiogazione del teatro al testo, e ristabilire la nozione di un tipo unico di linguaggio, a metà strada tra gesto e pensiero. (…) È la vita stessa in ciò che ha di irrappresentabile.
Il testo non basta, la letteratura non è sufficiente per catturare e raccontare l’indicibile anzi la sovrastruttura narrativa lo nega, lo affoga nelle volute inutili da ornamento, l’addobbo funebre che nasconde il pallore, l’odore e allontana dal senso ultimo. Quindi bisogna trasformare la parola in gesto.
Questo libro è teatro, non letteratura. Sembra di sentirlo parlare Luca con quella sua cadenza leggerissimamente pedemontana, le incertezze, le ripetizioni, le precisazioni. Dirlo, ridirlo, ridirlo meglio ma non nascondere, non tagliare. È discorso, il suo, non testo. Scevro da ogni artificio letterario, nessuna furbizia di scrittura, (e di esperienza di scrittura Luca ne aveva moltissima) pochissimi gli aggettivi, rare le frasi lunghe. Luca Rastello ha il coraggio di affrontare l’irrappresentabile spogliandolo di tutte le sovrastrutture morali ed etiche raschiando l’essenziale, l’indicibile attraverso un flusso di pensiero urgente. Ogni frase è un gesto, violento, a volte elegante, a volte goffo. È un evento che nella lettura ci si dischiude davanti agli occhi. Una presa diretta senza montaggio. È un libro tecnicamente incompiuto, quindi non anestetizzato. La regia di Monica Bardi ne salvaguardia, nella sua incompiutezza, una vitalità vibrante di chi lavora sull’orlo del baratro consapevole della prossima caduta irrimediabile. Le frasi assomigliano alle pennellate violente all’apparenza casuali, spesso stese con le dita, di Van Gogh. I ritratti che l’olandese eseguiva a parenti e amici non piacevano quasi mai (il dottor Rey usò il suo per tappare il buco in un pollaio, ora è al Museo Puskin di Mosca) perché troppo crudi, troppo diretti.
Devo fare una pausa alla lettura di questo libro. Tutto in una volta è insopportabile. Intanto la conversazione tra Goldberg, Amis e the Hitch finisce. E lui, impassibile e fermo sulla sua posizione di uomo libero, chiude con una frase lapidaria non one has the right to tell you what to do because they have a divine one. Nessuno è dio di qualcun altro. Sigla. Mi rendo conto ancora di più di quello che fa “accadere” questo libro. Oltre a non essere un esercizio letterario che infioretta e quindi allontana l’idea della morte, l’esercizio spietato è fatto da un uomo indebolito, torturato dall’imminenza della fine, dalla paura, dall’incertezza, dal pensiero di quelli che lascia. È un atto ancora di più estremo. Una persona normale forse avrebbe cercato la pace nella distrazione, nella bellezza della natura, nella solitudine o nella compagnia e non restare seduti, come un cocciuto difensore di un assedio ormai perduto, alla scrivania a continuare, ad aggravare l’ossessione, la scarnificazione dell’idea di morte. Lo immagino Luca a rendere la sua condizione non nascondibile, quotidianamente affrontata con un coraggio silenzioso, come se avesse di fronte l’immortalità. Non posso neppure immaginare la quantità di coraggio che ci è voluto a scrivere questo atto poetico.
Antonin Artaud:
Ecco l’angoscia umana in cui lo spettatore dovrà trovarsi uscendo dal nostro teatro. Egli sarà scosso e sconvolto dal dinamismo interno dello spettacolo che si svolgerà sotto i suoi occhi. E tale dinamismo sarà in diretta relazione con le angosce e le preoccupazioni di tutta la sua vita. Tale è la fatalità che noi evochiamo, e lo spettacolo sarà questa stessa fatalità.
Caravaggio, Van Gogh, Artaud, Hitchens, quanto storytelling c’è in questa recensione per cercare di catturare l’indicibile del libro di Luca Rastello curato da Monica Bardi. Posso dire, di un libro come questo, che sia importante o bello? Il bello non fa parte della categoria dell’indicibile. E quanto all’importanza, niente lo è più di fronte ad un evento come la morte. Una cosa però la posso dire: leggerlo è un atto di coraggio, poca cosa rispetto al coraggio che hanno avuto Luca e Monica a confezionare questo libro, ma pur sempre un atto di cui, alla fine, si va fieri.
Livio Milanesio
E tu cosa ne pensi?