Tentare di scrivere un pezzo che riassuma la situazione della poesia attuale in Italia è un atto poetico. Poetico nel senso di creativo, ma anche nel senso di folle, autolesionistico. Le prima caratteristica, la follia, mi è propria. L’autolesionismo no. Non mi piace, e se posso lo evito molto volentieri. Né, d’altronde, mi piace tramutarlo in lesione delle scatole (craniche e non solo) altrui. Ergo, scriverò un pezzo sulla poesia ma senza farcirlo di dati e statistiche, di grafici e di trend, di proiezioni ed exit poll tipo elezioni amministrative della frazione di Trepalle confrontate con le politiche di cinque anni prima.

La follia a cui ho fatto cenno è legata alla figura retorica che emerge con maggiore frequenza ed evidenza quando si parla della poesia, dei libri di poesia, dei poeti e compagnia bella (in qualche caso non bellissima, un tipo, ad essere generosi). Tale figura prevalente e dominante è il caro e vecchio ossimoro. Cito testualmente dal breviario quasi-poetico di Wikipedia: “L’ossimoro (dal greco ὀξύμωρον, composto da ὀξύς, «acuto» e μωρός, «ottuso») consiste nell’accostamento di due termini di senso contrario o comunque in forte antitesi tra loro. Esempi: disgustoso piacere, illustre sconosciuta, silenzio assordante, lucida follia. Dato l’etimo del termine, anche la stessa parola ossimoro è a sua volta un ossimoro”.

Chiaro no? Ecco, scartabellando qua e là in rete alla ricerca di articoli che riassumano lo stato attuale della produzione e dell’editoria di libri di poesia si trova, a seconda del sito e della sponda telematica su cui veniamo proiettati, che la poesia è morta, defunta, senza neppure uno straccio di funerale; oppure, un URL più in là, che la poesia sta benissimo, in piena forma, potrebbe correre la maratona alle Olimpiadi, scoppia di salute.

Che dire? Probabilmente sono vere entrambe le versioni, o nessuna delle due, o tutte e due insieme ma con almeno un milione di distinguo, uno per ogni caso, potremmo dire uno per ogni libro, e per ogni autore. Ecco, forse la prima operazione per tentare di fare un minimo di luce, almeno con un’economica candela, è togliere alla poesia lo status semimitico di materia impalpabile e dire che la poesia è fatta da uomini e donne in carne ed ossa. Animali strani ma reali, tangibili. Chi sono i poeti? Perché scrivono in un habitat (la Penisola Italiana) in cui la specie da cui dipendono (il lettore, nome scientifico lector raris miraculosis) conta numeri esigui e sembra sempre sull’orlo dell’estinzione?

Misteri della biologia e dell’evoluzione, caro Charles. Meglio allora procedere sui pochi terreni che appaiono saldi e percorribili. Necessita tirare in ballo una delle parole chiavi del nostro tempo: “mercato”. Quando la poesia ode nominare tale vocabolo si rintana all’istante come un toporagno. Eppure, a giudicare da alcune rilevazioni recenti, ci sono segnali in qualche modo sorprendenti, di sicuro interessanti. I dati in qualche modo certi sono questi: in Italia in questi anni si pubblica tantissima poesia, molto più che in passato. Forse anche grazie alla possibilità di proporre i propri scritti tramite i nuovi media, i social e via dicendo e anche grazie a metodi di pubblicazione estremamente rapidi. Così come esiste il fast food, meraviglia spesso amica intima della gastrite, esiste anche il fast book. Ed esiste anche l’autopubblicazione. Ma così come non è tutto oro quello che riluce non è tutto piombo quello che pesa. Ci sono anche fior di libri di poesia, ne vengono pubblicati ogni giorno, il “problema” è la strada che imboccano e l’accoglienza che incontrano.

Uno dei tentativi di questo breve, inattuale, irrisolutivo pezzo è quello di invitare a diffidare da qualsiasi generalizzazione. Si dice e si scrive, ad esempio, che i poeti scrivono poesia ma non la leggono. È una verità a metà. Ci sono poeti che leggono eccome. Ci sono quelli che leggono decine di libri, di poesia e non. Non per sorvegliare i loro colleghi, come un generale studia l’accampamento nemico, ma perché sono innamorati della poesia vera in modo sincero. Così come del resto, sul fronte opposto, esistono quelli che leggono soltanto se stessi, la mattina, allo specchio, mentre si scattano un selfie con una rosa color cipria o una cipria color rosa.

Si dice che la scuola non educhi alla lettura e in particolare alla lettura della poesia. Altra mezza verità. E due mezze verità non fanno una verità completa. La scuola italiana è ancorata a schemi antichi a cui oggi hanno aggiunto assurdi fardelli burocratici, inutili, disumananti più che transumanti. Ma, vi giuro, ho parlato con loro e li ho anche incontrati, esistono degli insegnanti di ogni ordine e grado che riescono non solo a sopravvivere (impresa degna di Ercole e di Sisifo messi insieme) ma riescono anche a trasmettere ai loro ragazzi l’amore per la lettura, e, udite udite, per la poesia. Evitando magari di far loro ingoiare controvoglia le trecce morbide di Ermengarda (con tutto il rispetto per l’affannoso petto) e facendo capire anzi provare, leggendo e ascoltando, che la poesia vera parla del compagno di banco pestato dai bulli o della ragazza bella che non ti guarda e non ti pensa e che poi magari una mattina ti ferma sulle scale e ti bacia sulla bocca. Facendo loro provare che la poesia parla del tempo che non c’è ma che è il tuo, del lavoro che non c’è, della gente che bussa alla tua porta e di cui hai paura fino a quando scopri che ha la tua stessa paura e gli occhi uguali ai tuoi.

Quindi, fin qui, abbiamo detto che la poesia, a dispetto di tutto esiste. Non abbiamo detto niente, d’accordo. O forse abbiamo detto tutto. L’ossimoro degli ossimori. Abbiamo detto fin qui che vengono pubblicati moltissimi libri di poesia nel nostro paese ma che non tutti vengono letti come meriterebbero. Altra parola che si affaccia e chiede uno sguardo a questo punto è “selezione”. Si dice che un tempo ci fossero nelle case editrici dei bipedi, in alcuni casi erano critici di valore o poeti e scrittori loro stessi, che si prendevano la briga di leggere (ebbene sì) e di selezionare i manoscritti che giungevano in redazione. Molti venivano scartati ma accadeva che a volte uno dei suddetti bipedi prendesse il telefono e chiamasse di persona uno dei mittenti dei suddetti manoscritti. Si dice (non si sa se sia verità o leggenda) che alcuni libri e alcune carriere letterarie nascessero in tal modo. Oggi tali bipedi sono pochi. Al loro confronto i panda e le foche monache sono come le zanzare di luglio nelle paludi di Comacchio. Viene pubblicato dalla grande editoria solo ciò che garantisce margini di vendita, quindi di guadagno. Il toporagno di cui sopra a tali parole si è suicidato ingoiando una selce acuminata di traverso. Forse però ci sarebbe modo di salvare il minuscolo roditore. Dicendogli che una via c’è per salvare capra e cavoli. La grande editoria vuole guadagnare, e questo è ineluttabile, e in qualche misura comprensibile. Potrebbe farlo, tuttavia, salvaguardando anche la qualità. Non c’è contrasto, o meglio c’è possibilità di convivenza tra le sue istanze. Potrebbe magari (una modesta proposta) destinare una parte dei ricavi dei libri dei personaggi televisivi e dei grandefratelliecugini di primo e secondo grado alla selezione, anche tramite concorsi seri ed equi, di manoscritti di sostanza, quelli in cui il lavoro sulla parola e sul sentire che esprime è accurato, intenso, appassionato, frutto di una vita scritta e vissuta. Perché, in fondo, la questione è quella di sempre, il famoso quesito dell’uovo e dell’animale da cortile che lo produce. Chi nasce prima? Ossia, non si pubblicano libri di poesia di qualità perché i lettori non li cercano e non li vogliono oppure i lettori non li cercano perché non sanno che esistono e sono sistematicamente educati a inghiottire quintali di spazzatura? Ai posteri l’ardua sentenza, ma, proviamo a prendere un gruppo di ragazzi e a portarli ad assaggiare per qualche giorno il menu di un ristorante della Val d’Orcia, crostini misti, pici fatti a mano, sformato, zuppa di ceci, aceto balsamico. Poi diamo loro l’opportunità di scegliere tra quello e il MacDonald’s. Non è escluso che preferiscano la Val d’Orcia.

Si potrebbe creare una specie di convivenza tra galassie parallele. I lettori potrebbero scegliere tra Kaur, la instapoet seguita da quasi duecentomila persone e qualche poeta di spessore diverso, uno che lavora su ogni singola parola per tutto il tempo con tutto ciò che ha dentro. Potrebbe accadere così che, in questo universo ipotetico, convivessero “L’amor che move il sole e l’altre stelle” e un certo Sole, mi dicono di nome Francesco, e io mi fido sulla parola, che scrive “L’uomo che ti ama non ti fa troppe domande perché conosce già le tue risposte”. Paragnosta! Beato lui, già tra i serafini di chissà quale Paradiso. Più che poesia sembra lo slogan della réclame di un detersivo, nessun dubbio, nessuna incertezza, nessuna macchia di unto.

Ecco, come volevasi dimostrare: in questo breve excursus non ho trovato alcuna risposta e meno che mai delle certezze. Tranne una forse: che la poesia esiste, in qualche luogo, a dispetto di tutto. Forse anche a dispetto di chi, come me, cerca di fare una radiografia a ciò che è allo stesso tempo incorporeo e carnalissimo, impenetrabile da qualsiasi raggio. La sola certezza è che là fuori (e forse perfino nei libri) la poesia esiste, c’è, respira. Basta uscire, volerla, cercarla, osarla.

Ivano Mugnaini

 

Ivano Mugnani è consulente, editor e traduttore.
Cura il blog letterario “DEDALUS”,  il suo sito è http://www.ivanomugnaini.it
Se vi piace la poesia, senza tempo e senza confini, qui troverete molti spunti.