Eccole tutte in un romanzo le forze che governano le nostre vite. Il tema della nascita, quello della casualità degli eventi, il parallelismo tra mondo animale e vegetale in una chiave intima e ricca di riflessioni. Questo è un assaggio di ciò che potete trovare nel nuovo romanzo della scrittrice islandese Auđur Ava Ólafsdóttir, La vita degli animali, pubblicato da Einaudi.

Una generazione di donne ostetriche ricche di passato. A narrare è Dýja e nelle sue osservazioni, nella descrizione delle giornate, nei suoi gesti, trasferisce il sapere ereditato.

Il tema della natalità è dunque predominante, ma viene trattato in un legame speculare con quello della morte, così come quello della luce si integra con quello del buio, in una danza tra reale e metaforico estremamente avvincente. “Tu domani affronterai gli abbandoni e i tormenti dell’amore e sentirai come un arbusto infuocato bruciarti nel petto e avrai difficoltà a deglutire.” È stata molto legata alla zia, figura dominante, positiva, rivoluzionaria per i suoi tempi.

Lettere, carteggi, articoli, testimoniano un’esistenza spesa a servizio dell’umanità. E, dentro ad ogni cosa , c’è un abisso, una stratificazione di piani narrativi, tematiche e spunti che forse non cattureranno i lettori abituati a un impianto narrativo più tradizionale ma di certo compongono una storia interessante che mette in dialogo autore e lettore per mezzo delle numerose domande e riflessioni che la lettura porta con sé.

Tutto ci riporta al legame femminile, a questo filo che lega indissolubilmente queste due figure oltre i dettami del tempo.

Ma cosa c’è di così profondo?

Più ci addentriamo nella struttura narrativa più percepiamo la potenza dei messaggi.

Il primo è legato alla memoria, quella che non va dispersa bensì protetta dall’oblio. ‘Chè siamo tutti un po’ anche quello che sono state le nostre radici.

Il secondo è l’attenzione per i cambiamenti climatici, la Natura, il bisogno di proteggerla da comportamenti umani artefatti e dannosi. Ad aggiungere sapore e piacere e poesia abbiamo la musica di Liszt, le aurore boreali, la sorella meteorologa, il dubbio.

Intono alla natura dell’essere umano e i suoi imprevedibili comportamenti, e coerente con la vita che al di là di tutto è dipendente dal capriccio di quella strana creatura che lei chiama casualità,  alla luce di ciò è appunto logico che la scrittura manchi di sequenza logica. La coerenza sta nella incoerenza”.

Ecco ancora una stratificazione: in fondo l’autrice sta parlando della sua opera.

Un inno di speranza. Un mondo delicato, profondo e pieno di sfide che incanta e ci rende cercatori di vita nel suo senso più intimo.

Che cosa sarebbe successo se la volta dopo fosse toccato a me o a mia sorella? Per quanti giorni e quante notti mia madre si sarebbe chiusa in camera, con la coperta tirata fin sopra la testa? (p. 29)

Aleggia qui e là nel testo il fantasma della depressione, anche legata alle difficoltà del post partum: ancora una volta la penna dell’autrice si fa lieve, i contorni sfuocati, e siamo noi lettori a colmare gli spazi vuoti. Insegna l’arte del racconto che le storie sono composte di una parte emersa che è impressa sulla pagina e una sommersa, nei casi più fortunati ancor più complessa e importante: la parte sommersa nasconde abissi e molteplici possibilità di riflessione e significati.

Stratificato, è la parola che emerge di più perché in effetti la storia, le riflessioni, di Dyja sono quelle della cara prozia, ma sono anche quelle della scrittrice stessa, che si interroga sulla frammentarietà del racconto, sulle logiche editoriali, sui misteri della scrittura. E, soprattutto, sul mistero dell’uomo.

I dolori passati, le risurrezioni, le nascite carnali, la casa fatta di mattoni e sangue e passato: un libro che ti sbatte in faccia tutto questo. E che poi, però, ti accarezza.

Natalia Ceravolo

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