L’anno del pensiero magico di Joan Didion è uno di quei libri che bisogna leggere almeno una volta nella vita. Pubblicato in Italia da Il Saggiatore, negli Stati Uniti l’autrice ha vinto per questo libro il National Book Award nel 2005 per la saggistica. Spesso ci si rifugia nei libri per cercare di scappare dalla realtà, ma la Didion stavolta ci risucchia nella sua di vita, quella vera.                                                       

Giornalista e scrittrice americana, Joan Didion, in questo scritto narra la sua vita più intima e sconvolgente. Qualche giorno prima di Natale nel 2003, Joan e suo marito John (anche egli scrittore), sposati (in rapporto simbiotico) da quarant’anni rientrano dall’ospedale dove è ricoverata la loro unica figlia, Quintana; si siedono a tavola come tutte le sere, ma improvvisamente il marito si accascia sul tavolo e muore in pochi minuti. Da qui inizia, quello che lei definisce, l’anno del pensiero magico, l’anno del lutto. Un anno che servirà ad accettare l’inaccettabile, rivivendo una vita di ricordi per tenerli in vita e andare avanti nel presente. “Un tentativo per raccapezzarmi” afferma la scrittrice. Per un anno intero tenta di trovare risposte e motivazioni alla sua perdita. Ha davvero importanza sapere se suo marito era già morto prima dell’arrivo dell’ambulanza? Ebbe il tempo di pensare a cosa gli stava accedendo? Cercando di rispondere a queste domande che, forse senza rendersene conto, la Didion descrive la storia di un amore lungo una vita. Ciò che colpisce è un rapporto tra i due contrassegnato da  questa semi simbiosi e del profondo strappo che la scrittrice vive, anche rispetto a un evento che non definisce un rapporto di coppia logorato ma più che mai vivo.      

Tra Quintana ricoverata in ospedale, in coma, in preda a una mostruosa setticemia dovuta alla degenerazione di un’influenza e la perdita del marito, Joan precipita in un turbinio di pensieri, emozioni, da cui sarà difficile uscirne.                                                          

Il lutto, il rimorso, l’impotenza, la solitudine è ciò che affronta la Didion, e questo libro pur mettendoci addosso una paura infinita, è di una bellezza che ti lascia senza fiato fino all’ultima pagina. Ci sono le domande che ci facciamo tutti – abbiamo fatto le scelte giuste? Che cosa resterà di noi? – ma dall’altra parte non c’è più nessuno a risponderci, “le nostre giornate erano piene delle nostre voci”. E poi, il silenzio.  Ogni paesaggio, dettaglio, rumore, è una trappola perché può far riemergere qualcosa che non possiamo controllare: il ricordo dei momenti felici.                                

Questo è un libro su quelle certezze della vita che sembra non possano essere mai intaccate, ma che invece si consumano lentamente. Il tentativo disperato di dare una spiegazione razionale alla nostra fragile esistenza. Le pagine sono tremendamente lucide, dense di citazioni letterarie, una scrittura che a tratti non lascia trasparire tutto il dolore provato dalla Didion, ma è proprio per questo che risultano ancora più forti e sofferte. La scrittrice si concentra sui frantumi in cui il dolore ci riduce senza illudersi/ci che tutto possa tornare come prima, ma mostrandoci come in questi anfratti è possibile sopravvivere.                                                                                              

Solo dopo mesi, Joan riesce a mettere per iscritto ciò che le è accaduto, comprendendo che per elaborare il lutto occorreva prestare attenzione alla sofferenza, non evitarla distraendosi. Occorre impegnarsi per continuare a vivere e non limitarsi a sopravvivere. Se ne convince perché continua a ripetersi parole e modi di dire che John gli ha sussurrato per una vita intera.

Dovevi sentirla cambiare, la marea. E dovevi abbandonarti al cambiamento”.

È un libro che suggerisce ascolto, attenzione, rispetto e riservatezza, ha così tanto amore nelle sue pagine che è quasi difficile non versare qualche lacrima.

Chiara Guerra