Scritto nello stesso anno del suicidio di Morselli, Dissipatio H.G. è un “testamento” spirituale, ma anche un intenso atto d’accusa contro una società che l’ha messo ai margini, contro la deriva consumistica e le catastrofi causate dall’uomo e, soprattutto, contro editori, pennivendoli, e quella che a più riprese definisce l’industria della diagnosi precoce.

Nel suo romanzo Morselli ribalta il paradigma fondamentale dell’esistenza, il rapporto tra vita e morte: il morto vive e attraversa un mondo in cui non c’è più vita umana. Ma non vi sono neanche i morti: il genere umano, semplicemente, è svanito, volatilizzato, si è dissipato.

Il suicidio, o mancato suicidio, del protagonista genera la sparizione di tutti gli altri uomini. Egli sopravvive all’insano gesto e gli altri, in qualche modo, ne pagano il fio. Senza una ragione apparente tutto resta cristallizzato in quell’attimo fatale in cui il tempo cessa per tutto il mondo e lui, ex uomo, diviene il vertice della piramide rovesciata dell’umanità, sintesi definitiva della creazione Biblica, “da un solo uomo ad un solo uomo”. Egli, dunque, attraversa la morte, che è fondamentalmente assenza, e si ritrova in uno scenario post-apocalittico, fatto di solitudine e silenzio, senza niente di cruento: è l’apocalisse di un misantropo che si accorge, suo malgrado, che “il silenzio da assenza non scorre. Si accumula”. E così l’eletto, o escluso, scopre, a poco a poco, questa realtà, questo annientamento globale, e comincia la sua ricerca dell’umanità scomparsa, che più lo porta lontano più accresce la sua consapevolezza di essere unico. Egli accetta, tuttavia, passivamente quello che per altri sarebbe un orrore totale, anche se arriva a spaventarsi di averla addirittura voluta questa fine, colla sua brama di solitudine e col suo desiderio nascosto di “una realtà con me e per me”.

L’Evento, dunque, finisce col rivelarsi una proiezione della volontà del protagonista, del suo desiderio mal celato di “paresentesizzare” le esistenze degli altri, che si può realizzare solo portando all’estremo compimento la sua autoesclusione dal mondo. La scelta stessa del modo in cui compiere il suicidio è rappresentativa di questa sua volontà di sparire: nessun cadavere, ma un allontanamento silenzioso e definitivo; esattamente quello che poi accade al resto dell’umanità. Il racconto è palesemente autobiografico (la depressione, la solitudine, la rabbia covata soprattutto verso determinate categorie di individui, il suicidio), ma crea il suggestivo paradosso di una sorta di allegoria fantasy. Anche la scelta dell’ambientazione è significativa: un luogo indefinito tra i monti, crocevia di lingue e di genti (sottolineato anche dai frequenti “inserti” in altre lingue), la natura raffigurata così com’è, nella sua estasiante bellezza, in contrasto con la città ridotta a simbolo del capitalismo (non a caso ribattezzata Crisopoli) e della grettezza, emblema di tutto ciò da cui il protagonista fugge. La narrazione è caratterizzata da una prosa densa, una lingua sempre raffinata, colta, senza cedimenti, di una ricercatezza che solo in rari casi appare forzata, che tocca, quando l’autore si abbandona alla descrizione dei paesaggi naturali, inaspettate vette liriche (“si aprono a ventaglio i ghiacciai del Mountàsc, e io ricordo di averli visti infiammarsi all’alba, sui nevai bassi che trattenevano il colore della notte”), per poi richiudersi sugli abituali toni cupi.

Il racconto vive tutto sull’equilibrio tra l’esaltazione per la realizzazione del desiderio di solitudine estrema e il terrore per le conseguenze di questa distruzione e alterna momenti di rassegnazione e di abbandono ad altri in cui la paura prende il sopravvento, una paura opprimente, che non si può definire, perché “è troppo nuova. Nessuno sulla Terra, in un mondo che le paure credeva di averle provate tutte, l’ha mai provata”. Il tentativo di fuga da questa solitudine ‘assoluta’ porta il protagonista a cercare un controcanto, un amico immaginario, un Virgilio che lo conduca attraverso questo suo personale inferno in terra. E non può trovarlo che nel medico che lo aveva seguito durante il suo ricovero nella casa di cura, probabilmente l’unico amico che abbia mai avuto, ma anche uno dei pochi della cui morte può essere certo. Il dialogo tra i due diventa quasi reale, la voce del morto si fa sempre più guida e spinge il protagonista verso nuovi porti. Così si concretizzano l’insofferenza verso il luogo che ha scelto a sua dimora e la fuga. Questa lotta tra fuga e ricerca, tra paura ed esaltazione rappresenta, probabilmente, il tormento interiore di Morselli, il logorante conflitto tra l’esigenza di sopravvivere e il desiderio di farla finita, simboleggiato anche dall’immagine ricorrente della ragazza dall’occhio nero.

Vivo suo malgrado, alla ricerca della sua guida, di cui è convinto di interpretare i segni, alla fine egli abbandona il paese per spingersi verso l’odiata città: il luogo simbolo di tutto quanto in vita aveva sempre disprezzato diviene sintesi tra le due forze, o debolezze, che lo dilaniano, si trasforma nel posto in cui consumare la sua personale cupio dissolvi. Quello che per lunghi tratti appare come un sogno, appare infine fin troppo reale, perché, come afferma il protagonista stesso, solo “il reale, avendo dalla sua la durata e la coerenza (coerenza nel senso di uniformità e solidità) si può permettere il lusso di essere irrazionale e inspiegabile. Anche pazzesco, se gli torna comodo”.

Fabio Sarno

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