È un libro da leggere con calma. Anche una pagina alla volta. Questo ha detto la persona che mi ha fatto trovare Le città di carta, della ricercatrice canadese Dominique Fortier, nella buca delle lettere in un pomeriggio qualsiasi di metà luglio. Come al solito, i suoi consigli non potevano che rivelarsi esatti. Perché queste pagine, che navigano tra il saggio, il romanzo e la biografia, sono attimi di una vita legata alle cose semplici, che nascondono un mondo: quello di Emily Dickinson. Attimi brevi, che, come le sue poesie, durano poche righe ma racchiudono universi, e che devono essere assaporati poco alla volta.

Non potendo raccontare molto della sua biografia, di cui poco si è sempre saputo, Dominique Fortier si concentra sui luoghi che Dickinson ha amato e in cui ha passato la sua esistenza prima della reclusione che dai ventitré anni la accompagnerà fino alla morte, nel 1886. Da Amherst a Boston, dal seminario femminile di Mount Holyoke a Homestead, Fortier costruisce “città di carta”: luoghi reali che al tempo stesso vengono visti e vissuti con occhi nuovi da Emily Dickinson. Sono proprio questi luoghi i punti di partenza, che l’autrice visita per poi raccontare soffi della vita interiore della poetessa tramite episodi ed elementi della sua quotidianità che, con il passare degli anni, si fa via via sempre più circoscritta: foglie di menta raccolte in giardino durante i giochi con i fratelli, la neve fuori dalla finestra, l’orologio della cucina dei genitori che divora l’esistenza a ogni ticchettio.

Ma gli sprazzi di quotidianità della Emily Dickinson di carta e le riflessioni che ne scaturiscono non sono gli unici protagonisti di questo viaggio così intimo e delicato. A questi episodi si alternano infatti brevi momenti di vita della stessa Fortier, che racconta i luoghi di carta che popolano il suo presente di scrittrice e studiosa, luoghi che porta con sé nei suoi vagabondaggi e che la fanno riflettere sugli elementi che determinano il suo senso di appartenenza, sulla connessione che ha con la natura, sulla sua fedeltà al mondo accademico che cozza con il valore che dà all’invenzione letteraria, sulla caducità del ricordo e sulla concretezza dell’immaginazione.

Queste stesse riflessioni emergono anche nelle poesie che Emily Dickinson ha passato la sua intera esistenza a comporre all’insaputa di coloro che le stavano accanto. Poesie che scribacchiava su fogli volanti, dietro liste della spesa, e custodiva nel cassetto di camera sua come le foglie e i fiori che sarebbero diventati parte del suo erbario: il suo mondo di carta. Alcune sono incluse nel saggio di Fortier, in lingua originale e senza traduzione – una decisione editoriale che tuttavia non riesco a comprendere, quella di non porre una piccola appendice con le traduzioni in italiano.

Queste poesie appaiono come formule magiche per il loro linguaggio idiosincratico, non preoccupandosi di essere autoesplicative. All’occhio, sembrano più gruppi di parole inframezzati da lunghi trattini: una lista di sensazioni che possono essere spiegate solo dalla pausa tra un frammento di testo e l’altro, dal silenzio che la poetessa accoglie come parte imprescindibile della sua vita e fa rivivere su carta, e da ciò che questo silenzio può nascondere. Un silenzio di riflessione che Fortier fa rivivere negli spazi bianchi che dividono un capitolo dall’altro.

Il tono malinconico che traspare sin dalle prime pagine in cui si racconta l’infanzia di Emily e dei suoi fratelli anticipa la tristezza della poetessa di fronte al mutamento che portano la vita e la morte, e che toccherà tanto i suoi affetti più cari come la natura che la circonda. L’unico luogo in cui non avverrà questa trasformazione sarà nell’universo immaginifico di Emily, che manterrà vivi quei tre bambini dentro di sé, nella città di carta che è lei stessa e in cui ne preserverà il ricordo, proprio come farà con i fiori del suo erbario. “Un’infinità di correnti”, queste riflessioni, che la assalgono da ogni lato, e che sferzano il lettore dalla prima all’ultima pagina, tra una passeggiata nel giardino di casa Dickinson e una sbirciata nel cassetto dei fiori e delle poesie di Emily.

Fabia Brustia