“Che sognatori modesti siamo diventati”, titola la quarta di copertina di Questa strana e incontenibile stagione di Zadie Smith, raccolta di sei saggi brevi scritti nella primavera 2020, in libreria per SUR Edizioni. E pensando alle invocazioni collettive durante questi quasi due anni di pandemia, alla preghiera ossessiva “Che tutto torni come era prima” lo trovo un commento azzeccato.

Il primo grande merito di questa raccolta è quello di mandare in frantumi questa illusione del “prima perfetto”, Eden prepandemico irradiato di luce dorata nel quale “avevamo tutto, ma non lo sapevamo” (cit.), e  forzare il nostro sguardo su una realtà che era già  frammentata nelle sue relazioni di base. La Smith punta lo sguardo sul dolore e lo stana nell’individuale e nel collettivo, nel disfacimento delle relazioni e nell’alterazione del tempo che scandisce la quotidianità famigliare, come nell’esasperazione delle disuguaglianze sociali e razziali,  con un movimento di volta in volta  centripeto o centrifugo, a seconda che restringa la visuale sul singolo caso o lo riallarghi sulla comunità.

Su questa dicotomia personale/collettivo, riflessi inevitabilmente l’uno nell’altro, sotto il peso di un’incertezza che non trova conforto, Zadie Smith costruisce l’alternanza delle sue brevi storie.

La raccolta si apre con Peonie, reminescenza del primo periodo di lockdown a New York, e riflette sulla contrapposizione resistenza vs. accettazione degli eventi.  Lo sforzo, tutto umano, di cercare di piegare l’esperienza al nostro desiderio di controllo, e la presa di coscienza dell’inutilità di tale gesto.

“Erano tulipani. Avrei voluto che fossero peonie. Nella mia storia sono, continuano a essere, e saranno per sempre peonie: perché, quando scrivo, il tempo e lo spazio stessi si piegano alla mia volontà! (…) Nella vita reale, invece, è nel canile che abito.”

(Smith parla del canile, che rappresenta per Kierkegaard la vita governata dal caos delle scelte personali e irrazionali in contrapposizione al palazzo delle decisioni idealistiche e della pretesa di esistenza di un pensiero oggettivo e impersonale nel sistema hegeliano. La citazione è presa da La malattia mortale, del quale l’autrice riporta un estratto.)

Smith affronta questo tentativo di negazione della realtà con una compassione di fondo per l’essere umano, per la sua inevitabile fallibilità, e su questa empatia tesse il filo che unisce la lettura di questi saggi.

Sei arrivato a fine giornata, l’appartamento non è esploso, bene o male hai cibato figli e gatti, non hai ucciso nessuno. È un risultato. Certo il senso di incompiutezza è una presenza quasi tangibile anch’essa, nel salone. Come lo sono i documenti di lavoro dell’ultima videocall che si mischiano ai panni da piegare sul divano, proprio sotto i cartoni della pizza di due sere fa, in un continuum spazio-temporale che manca delle divisioni in comparti stagni che erano prima le nostre vite.

“Gli uomini sposati si trovano davanti l’infinita realtà delle loro mogli. (…) La sua faccia, la sua faccia, la sua faccia. La tua faccia, la tua faccia la tua faccia. L’unico sollievo sono due facce rivolte in avanti, verso lo schermo.

Le nuove coppie si fanno per la prima volta domande sull’amore. Basterà, l’amore? Magari a questo eterno pas de deux dovremmo aggiungere un cane? O qualche altra creatura vivente?” (da Soffrire come Mel Gibson)

Il tema del privilegio, come realtà geografica e razziale esasperata dall’emergenza sanitaria, è il leitmotiv dei saggi che allargano la prospettiva sull’impatto sociale della pandemia. L’eccezione degli Stati Uniti, concentrandosi sull’analisi della situazione americana, introduce il tema politico della raccolta:

“La mappa del virus nei quartieri di New York diventa più rossa precisamente nelle stesse aree che si colorerebbero se la sfumatura di scarlatto misurasse non solo la  diffusione del contagio e la mortalità ma le fasce di reddito e la qualità delle scuole”

e qui la Smith pone alla nostra attenzione il primo crepaccio sociale: l’idea che questa congiuntura senza separazioni nette del mondo famigliare e professionale sia gestibile da tutti allo stesso modo. Che l’impatto della pandemia sulla vita quotidiana colpisca tutti ugualmente.

Il concetto stesso che “siamo tutti nella stessa barca” è un’ulteriore illusione, ci dice l’autrice inglese, dietro la quale si nasconde il fatto che “privilegio” può anche semplicemente significare non avere l’infografica sbagliata:

“essere al posto sbagliato, nel momento sbagliato, la pelle del colore sbagliato. Il quartiere sbagliato. Il CAP sbagliato, le idee sbagliate, la città sbagliata. La posizione sbagliata delle mani quando gli era stato chiesto di scendere dal veicolo. L’atteggiamento sbagliato verso l’agente di polizia (…)

in un chiaro riferimento al caso George Floyd, nel quale le ripercussioni del Covid sull’apparato respiratorio trovano la loro eco nel “I can’t breathe” del 25 maggio 2020, il tema sociale trova il suo culmine: è il saggio di chiusura, Il disprezzo come Virus . È l’altro virus, quello senza vaccino in vista, quello che – in America soprattutto – sembra davvero indebellabile: il razzismo.

Con il suo stile pulito, che segue il flusso di pensieri dell’autrice in modo limpido, ben strutturato e mai artificioso, Smith scava all’interno del dolore per scoprire come il languire di una generazione intera sia fatto di valori minimali, di piccole sofferenze e meschinità quotidiane che si condensano arrivando a un livello di saturazione che, gravando sul contesto, schianta l’individuo, e rivela una fragilità con la quale, soprattutto in questo periodo, non si può fare altro che venire a patti.

“Ma quando il giorno brutto della settimana alla fine arriva – e arriva per tutti- e con questo intendo quel particolare momento in cui la tua sofferenza, per quanto minuscola nel quadro generale delle cose, si dirige in maniera assoluta ed esclusiva su di te, come se fosse specificamente progettata per distruggere te e solo te, a quel punto magari varrà la pena concederti di ammettere la realtà della sofferenza, se non esattamente per te stesso, almeno in preparazione della prossima dolorosa videoconferenza, per evitare di alzare gli occhi al cielo, ridere o vomitare mentre senti raccontare quello che per un’altra persona evidentemente è il dolore.”

Il virus entra ed esce dalle istantanee di vita accostate dall’autrice, mostrandoci impietosamente limiti che già erano lì. È un libro sulla pandemia? Direi forse che questo è un libro sulla fallibilità dell’umano, rappresentato in uno dei momenti di maggiore fragilità della sua storia, le quinte della sua realtà sociale incapaci di nascondere i loro bordi di cartapesta, l’odore della tempera ancora bagnata che svela l’insensatezza dell’illusione che ne saremmo potuti uscire migliori.

Anja Widmann

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