Mi è stato impossibile rileggere il romanzo d’esordio di Del Giudice, da poco ristampato per i tipi Einaudi, senza che la nozione della lunga malattia sofferta dall’autore canalizzasse la mia lettura  in una direzione emotiva e interpretativa ben precisa. La sindrome di Alzheimer, di cui Del Giudice ha sofferto lungamente  prima di morire, mi è sembrata a un tratto connessa con il senso complessivo della sua ricerca letteraria, con lo stile e con il tono generale  della sua narrazione: come un destino “metaforico” di cui lo scrittore aveva  coltivato il presagio  fin dall’inizio, intingendo nell’ inchiostro di questa angoscia segreta   la sua penna ultrasensibile, capace a quanto pare  anche di escursioni profetiche involontarie.

Di cosa parla Lo stadio di Wimbledon? Un modo per rispondere a questa domanda – il più convenzionale – sarebbe quello di affermare che parla di un giovane, un apprendista scrittore, che si mette sulle tracce del fantasma di Bobi Bazlen, annoverato tra le leggende della letteratura italiana del ‘900, conducendo un’inchiesta un po’ anarchica sulla sua parabola umana e letteraria. Per fare ciò si reca a domicilio, senza uno schema prefissato (due volte a Trieste, una volta a Londra), dalle ultime persone superstiti che hanno avuto una qualche intimità con Bazlen. L’enigma a cui il protagonista cerca di dare una risposta, in queste  strane interviste, è : perché il più grande consulente editoriale del secolo, scopritore di Svevo e amico di Montale, Saba, Stuparich, primo promotore della psicanalisi in Italia, vero e proprio uomo-cerniera tra la cultura letteraria italiana del ‘900 e i centri di produzione culturale mitteleuropei, ha scelto di non scrivere alcunché di suo (a parte una mole enorme di lettere e di note sparse)? Perché più che scrivere ha ritenuto  soddisfacente vivere, o meglio “vivere gli altri”, sia attraverso le sue sconfinate letture che “pilotando” il destino degli amici più cari come una specie di burattinaio nascosto?

La risposta meno convenzionale, invece, sarebbe che al giovane protagonista interessa poco o nulla del chiacchiericcio postumo su Bazlen. Egli schiva le risposte che gli vengono fornite con perplessità e imbarazzo, si annoia davanti ai cimeli fotografici; si ha anzi la sensazione che più l’oggetto della sua ricerca si rende presente, tangibile – più viene meno al suo statuto di “fantasma”-, più l’io narrante del romanzo si ritragga in una dimensione appartata del proprio pensiero, in “un tempo laterale e parallelo” simile ad una sospensione fenomenologica. Quello che egli vuole sondare, in realtà, è la tenuta del rapporto tra le parole e le cose, tra la vita e la scrittura: la figura di Bazlen, emblematica della rinuncia a  fissare le cose in un nome, lasciandole “dilatarsi” fino all’entropica dissipazione nel silenzio e nell’oblio, è solo un pretesto o un gancio per condurre un’inchiesta che  non concede niente allo spettacolo, ma che si annuncia ben più ardua e ambiziosa di un qualunque mistery convenzionale. La scrittura di Del Giudice ci appare così, fin dagli esordi, intimamente connessa con il dibattito filosofico ed epistemologico in atto nel periodo storico in cui essa prende forma. Il linguaggio letterario come lo abbiamo assimilato, come ce l’ha tramandato la grande tradizione umanistica di cui siamo eredi e depositari, ha conosciuto numerosi cedimenti, ha segnato slittamenti rovinosi tra l’area del segno e quella del significato, dovendosi misurare con una realtà divenuta tutt’a un tratto labirintica e inconoscibile, inafferrabile, indicibile.

Ma la risposta che prende corpo a poco a poco nel romanzo, fissandosi nell’esperienza dell’autore fino a diventare un tratto distintivo di tutta la sua opera, è che si può provare a fare luce in questo buio, ad orientarsi in questo accumulo inarrestabile di detriti verbali, a patto di: 1) operare una riduzione drastica, puntando alla massima precisione e densità semantica (impedire alle parole di “dilatarsi”, per l’appunto: è l’esattezza predicata da Calvino nella terza lezione americana); 2) rallentare i tempi dell’azione, regolando lo sguardo del narratore-agente come un telescopio di precisione che si fissa sui dettagli, derivandone le possibili  implicazioni analogiche ed evocative, ma regolando al minimo ogni possibile  escursione emotiva; 3) inglobare nel lessico romanzesco quello scientifico e tecnologico; perché la tecnica è, come insegnava Heidegger, il destino stesso dell’uomo contemporaneo, un evento “epifanico”, e nessuna frattura tra le parole e le cose può essere emendata se le parole non rispecchiano nel modo più fedele una realtà ormai profondamente riplasmata, in conseguenza della rivoluzione atomica e di quella digitale.

A tale proposito va osservato che, se i punti 1) e 2) sembrano avvicinare (come spesso è stato suggerito) Del Giudice all’ultimo Calvino, suo primo prefatore e riconosciuto mentore letterario, il punto 3) lo rende una rara avis nel panorama letterario italiano nel suo complesso, ed offre lo spunto per un interessante raffronto con quegli scrittori (soprattutto americani)  che, al di fuori della cerchia delle letterature di genere, hanno fatto del confronto con la tecnologia e  con i gerghi tecnico-scientifici uno dei capisaldi della loro poetica: ebbene, l’approccio di Del Giudice non ci appare ostentatamente anaffettivo e virtuosistico come le pagine di Pynchon dedicate all’ingegneria, alla medicina interna o alla chirurgia plastica; né ludico e arguto, fosforicamente digressivo, come i divertissement di D.F. Wallace legati alla matematica o alla logica modale.

Del Giudice sente su di sé il peso e la responsabilità di una tradizione europea, meridiana, colta nel suo punto terminale: la descrizione minuziosa del funzionamento di una nave da guerra, o delle radiali che segnano la rotta di un aereo di linea da Fiumicino a Londra, non sono un esercizio di stile né una dichiarazione di assenso, di compiaciuta capitolazione al nuovo mondo transumanizzato: sono l’ultimo punto di intersezione possibile tra le parole e le cose – l’ultima ridotta in cui le parole non hanno ancora  perso la loro forza evocativa, perché l’usura non ha potuto ancora sfibrarle. Al di qua della locuzione tecnica o della didascalia operativa, si avverte lo struggimento segreto di chi vorrebbe far risuonare i nuovi nomi, i nomi della meccanica e della fisica quantistica, del calcolo vettoriale e dell’ingegneria navale, con la stessa energia dell’esametro di Empedocle e di Lucrezio intorno alla natura delle cose.

Ma, per ciò stesso, aleggia in queste pagine una sottile tensione distopica, il presagio di una fine ad ogni modo prossima: da qui il sentimento di malinconia rattenuta, ma incalzante, che pervade spesso chi si cimenta nella lettura di questo autore, e che è così curiosamente in risonanza con quel mood elegiaco-introspettivo che diventerà caratteristico di tanta cultura visiva e musicale a partire dalla fine degli anni ’80.

È così che la descrizione asettica, minuziosa, del decollo di un aereo vira improvvisamente, dopo tre pagine, verso quella dell’ipotetica catastrofe:

 “Certamente potrebbe accadere anche adesso, anche qui; sebbene come somma di circostanze, cioè come sempre accade. […] Per noi sarebbe solo un fragore forte, troppo forte perché anche questa volta i danni siano riparabili. Vedremmo… No, non vedremmo nulla, nemmeno il bagliore della materia; tutto di noi, compresi gli occhiali, andrebbe avanti a 490 miglia orarie, mentre il resto fuori e attorno è immobile, abitualmente. Occorrerebbe un altro punto di vista, successivo e tecnico, dal quale il nostro urto contro l’oggetto più vicino verrebbe definito semplicemente un G 20, o un G 22, cioè 22 volte la nostra corporale gravità; a quella pressione gli spazi tra le cellule si sarebbero modificati notevolmente, aumentando o comprimendo gli intervalli in un generale mutamento della coesione, in una disposizione inedita, e alla fine si sarà trattato soltanto di una piccola rivoluzione della mia forma complessiva, in un mare di camicie, pigiami e samsonite divelte”.

L’acribia, il freddo rigore del linguaggio scientifico si disvelano alla fine per quello che sono: un ansiolitico verbale, un mantra laico declinato in variazioni infinite per placare la nevrosi della fine, componendo a poco a poco il quadro mentale di una catastrofe criogenizzata. Vissuta dall’angolazione utopica di “un altro punto di vista, successivo e tecnico”: impossibile perché inumano, privo di coscienza, monco di parola.

E qui mi ricollego brevemente alla riflessione già accennata nell’incipit: nel suo racconto più famoso, Nel museo di Reims, Del Giudice descriverà il giovane protagonista Barnaba, affetto da cecità progressiva, mentre è intento a fissarsi nella memoria per l’ultima volta le immagini dei quadri in esposizione. Egli fa provvista di immagini da custodire nella mente, in attesa del buio che sente ormai calare sulla sua vita. Qui la cecità è utilizzata come metafora del declino generale dell’epistemologia occidentale, più di tutte le altre basata sulla relazione necessaria tra l’ “Idea” (l’immagine mentale) e l’ “Eidos” (la sua realizzazione esteriore e visibile). Nel parlare di Barnaba, però, l’autore allude chiaramente a sé stesso e alla propria missione di scrittore: quel continuo fare provvista di nomi, di concetti e di relazioni, in attesa di una fissione irreparabile, di un oscuramento di senso  che potrebbe attanagliare il mondo da un momento all’altro. E  cos’è la sindrome di Alzheimer se non la materializzazione suprema – su scala individuale – dell’incubo epistemico che gli  strani personaggi-inquisitori di Del Giudice sembrano ospitare, nel cono d’ombra delle loro febbrili auscultazioni del mondo circostante?

Proviamo a dirlo come lo direbbe Del Giudice: l’ acetilcolina smette di fluire da un neurone all’altro, provocando il rallentare delle sinapsi. Il tasso di distribuzione della beta-amiloide42, nel liquor cafalo-rachidiano, subisce delle riduzioni anomale, mentre aumenta quello della proteina tau. Nel citoplasma neuronale si formano placche e ammassi neurofibrillari, le circonvoluzioni corticali si appiattiscono, il cervello nel suo complesso perde di peso e di volume. La personalità è alterata, le griglie cognitive si sfaldano a poco a poco: le cose si sfilano dalle parole e le parole dalle cose, restando come traccianti luminosi in un mondo buio, abitato da alieni senza pupille. Afasia, aprassia, agnosia, insorgono gradualmente, confinando il malato in una solitudine immemore e sterminata. Il punto di vista alieno, “successivo e tecnico”, ipotizzato a pag. 93 del romanzo, viene così realizzato con modalità dolorose e paradossali.

Persino lo strano rapporto con lo spazio dell’anonimo protagonista, fatto più di digressioni che di approdi, più di derive che di mete prefissate, risveglia l’assonanza con un effetto tipico della malattia: il wandering, un compulsivo vagare senza scopo, come trascinati da correnti impercettibili nello spazio angusto di una piscina:

arriva il momento in cui non sento più la curiosità di vedere qui. La città è in parte familiare e in parte estranea, cioè agevole e indescrivibile come ogni altra. Più avanti smetterò di venire, senza averlo deciso; rimandando di settimana in settimana, la mattina stabilita mi sveglierò troppo tardi per prendere il treno, e nei giorni successivi sarò quasi convinto di esserci stato. Anche la leggera ansia per tutto quello che non ho capito si sarà appianata. Mi sembra di seguire il percorso che va dalla carta all’esperienza, sebbene non so che tipo di percorso sia. Probabilmente sarò partito da nomi che risuonavano nelle pagine, in piano, ormai puri nomi, astratti e potenti; poi sarò andato verso la voluminosità rotonda e ambigua da cui furono distaccati al momento del ricalco. E di nuovo avrò inventato il dovere della carta, reinventando gli angoli di rappresentazione. Deve essere vero che non esiste più il viaggio o il pellegrinaggio, ma solo la pendolarità; come queste mie giornate che durano dalla mattina alla sera, circondate e protette dal sonno.

Viene da pensare alla coeva cinematografia di Wenders, Bertolucci, Jarmusch, De Oliveira. O alle perturbazioni sonore dei post-minimalisti, degli spettralisti, del post-rock caustico e introverso degli Slint o dei Radiohead. Testimoni, tutti, di una dimensione immota e psichica del viaggiare che nascondeva, dietro la superficie di un vagheggiato nuovo misticismo o di una estetizzante sobrietà, la paura di uno spaesamento epocale e senza rimedio.

Emiliano D’Angelo

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