Le nostre anime di notte, il breve, meraviglioso, ultimo romanzo di Kent Haruf, è diventato un film.
Visione casalinga, su quella piattaforma che si chiama Netflix, ultimamente così tanto discussa: è la morte del cinema? Ci sta cambiando in quanto spettatori? È un cambiamento irreversibile? Può darsi che lo sia, ma ciò di cui vorrei parlarvi, adesso, è la reazione di questa spettatrice alla visione di quel film, alcune settimane fa. Non ho intenzione di esprimere giudizi. Non ho intenzione di mettere stelline o cuoricini – il mondo si sta riempiendo di stelline, non trovate?
Quello che forse è interessante è quanto la visione di un buon film – diciamo che sia buono, perlomeno – sia in grado di riaccendere, se fosse necessario, l’amore più incondizionato per i libri.
Ed ecco com’è andata. Avevo già letto due volte quel romanzo. Ho acceso il mio computer, dopo cena, e poi spento la luce. Mi sono rannicchiata sul divano.
Al posto di quell’incipit – “E poi ci fu il giorno in cui Addie Moore fece una telefonata a Louis Waters” – c’erano immagini di strade, di case e di negozi, una cisterna, insegne accese, semafori, la luce del tramonto, appena sovraccarica, e musica di sottofondo. Un uomo seduto a tavola a mangiare e poi in poltrona a leggere. Una donna – ormai si è fatto buio – che suona alla sua porta.
Le loro facce sono state il mio primo problema, il primo cedimento. Il fatto è che, per quanto uno scrittore le descriva, le facce dei suoi personaggi sono un reticolo di punti che ogni lettore unisce a modo suo, mettendoci qualcosa di diverso, perché siamo chiamati a fare questo: unire quei puntini, aggiungere dei tratti.
La faccia di Jane Fonda è piena della vita di Jane Fonda e va benissimo, così come la faccia, ancora bella, di un uomo come Redford. Ma mentre me ne stavo lì, davanti al mio computer, ho cominciato a provare nostalgia per le mie facce, la mia versione immaginaria, cangiante e indefinibile, dei due protagonisti e poi di tutti gli altri. I loro cambiamenti, nel corso di lettura e rilettura, e quello spazio di manovra e libertà che gli scrittori regalano ai lettori.
La stessa cosa vale per i luoghi. Mi sono accorta che rimpiangevo la mia Holt. Non solo la mia, a dire il vero, ma anche le migliaia di Holt di cui non saprò mai, nessuna uguale all’altra, a cui ha dato vita ogni lettore di Kent Haruf. E rimpiangevo anche la sua, la Holt che lui aveva immaginato seduto nel capanno in cui scriveva, segnando quei puntini sulla carta perché qualcuno, un giorno, li unisse a modo proprio.
La multiformità dell’immaginazione, se volete: è stato questo il mio grande rimpianto.
E poi c’è la questione di tutte quelle cose che svaniscono, che vengono semplificate o trasformate o rese più veloci. Non si può fare altro, lo capisco, ma dov’è andato quel dialogo tra madre e figlio, per esempio, un dialogo centrale? E dove sono andati i cuccioli di topo, dov’è finito quel passaggio? C’era qualcosa d’importante, lì, ne sono certa: la storia delle nostre vite in uno scambio di battute su una nidiata di cuccioli di topo.
A un certo punto ho messo in pausa: ero nel mio soggiorno e non al cinema, perciò potevo farlo. Non c’era nessun altro seduto accanto a me, potevo accendere la luce e prendermi del tempo, e questo è un bel vantaggio o forse no. In ogni caso, sono rimasta lì a riflettere. Che cosa mi è venuto in mente? Provo a descriverlo così: quello che ho appena visto e quello che vedrò tra qualche istante sarà per sempre esattamente ciò che è. È stato già girato, una volta per tutte, e non potrà cambiare. La faccia di Jane Fonda sarà per sempre quella faccia, come ciascuna delle sue espressioni, e la faccia di Redford, la camera da letto, la sponda del torrente, la luce del tramonto in quella Holt versione film – sarebbe come a dire, appunto, “una volta per tutte”.
Ciò che succede coi romanzi, invece, è che continuano a cambiare, non smettano di farlo. Quello che sembrerebbe statico – parole sulla carta – è quanto di più libero e mutevole, segreto e soggettivo e insieme universale, potremo mai incontrare nella vita, come la vita stessa. E questo c’entra con la profondità, mi sembra, o con la percezione della profondità: qualcosa che non si esaurisce, che non è mai, neppure per un attimo, una volta per tutte.
Non sto dicendo che Le nostre anime di notte sia un film senza valore, perché non è così. Anche se lo pensassi, che cosa importerebbe? Quello che sto dicendo è che il romanzo di Kent Haruf era già diventato un film. Non uno ma migliaia. Un film diverso per ciascuno di noi, i suoi lettori, su quegli schermi invisibili che ci portiamo dentro quando leggiamo e, nello stesso tempo, immaginiamo – sono la stessa cosa.
È stata una bella serata, in ogni caso: i titoli di testa, un cast di grandi attori, persino commoventi, un cane che assomiglia al mio, i titoli di coda. Fine del film.
Ma la durata di un romanzo come Le nostre anime di notte non la possiamo proprio calcolare in alcun modo. La differenza in fondo è questa. Il tempo di un romanzo non finisce. Il tempo di un romanzo continua ad accadere e non esistono titoli di coda.
Elena Varvello
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