“Pornography are works of art which react against the idea that lust is immoral” (Susan Sontag, lecture on Classical Pornography, 1964, New York)
“Experiences aren’t pornographic; only images and representations are” (Susan Sontag, The pornographic imagination)
“The obscene is a convention, the fiction imposed upon nature by society” (Susan Sontag, The pornographic imagination)
Quanti passi ha compiuto Valentina Della Seta per muoversi da quella madame Bovary su cui pesava tutta la curiosità e la disapprovazione della piccola provincia affamata di scandali, forse dello stesso Flaubert, ma soprattutto quella della protagonista, lei, Emma, lontanissima Emma, che si giudica e si punisce. Passando poi per una molto più recente Brigitte Bardot che tra gemiti posticci accompagna Serge Gainsbourg, come l’aveva accompagnato Jane Birkin, assecondando il suo piacere. Je t’aime, dice lei, moi non plus, risponde lui, in una parodia, che doveva essere una liberazione collettiva, ma che è diventata vittima di se stessa. Fino alla narratrice di questo romanzo, Le ore piene: una donna di quarant’anni che si sente una pila scarica eppure si prende il piacere che vuole, senza che tutto questo faccia rumore, senza scandalo. Sì, soprattutto, senza nessuna trasgressione. Senza che ci sia nessun senso di trasgressione. Perché il punto non è questo. Non è mostrarsi finalmente trasgressive, disinibite, comunque imbrigliate tra quelle due parole, inibizione e disinibizione sessuale, che sembrano valere solo per noi. Perché questa storia non vuole essere un romanzo erotico, ovvero un genere a parte.
Molto vicino a Le ore piene c’è La vie sexuelle de Catherine M, quel libro uscito già vent’anni fa, che ritraeva sulla copertina la sua autrice Catherine Millet, nuda e giovane, in una foto scattata dal basso per ingrandirne il sesso e rendere quel corpo ancora più imponente. Millet raccontava le sue esperienze sessuali in quegli stessi anni settata della Bardot e di Jane Birkin, con quella stessa necessità di chi aveva allora diciott’anni, come Millet, di essere liberi e rompere ogni tabù. Il romanzo di quella che fino ad allora era stata solo la direttrice di una rinomata rivista d’arte francese, fu acclamato da un entusiasta Bernard Pivot nella sua seguitissima trasmissione Apostrophe. Meno apprezzato dalla più puritana critica anglo-americana perché non si parlava di aborto, perché in quegli anni settanta c’era ovviamente anche l’AIDS e lei era così naive da non parlarne, perché era solo la storia di una donna libertina, perché scrivere del proprio piacere non è fare letteratura. Eppure quello di Millet fu un successo. Quello che in Francia chiamano un success à scandale. Nel 1996 il premio nobel Elfride Jelinek, pubblicava Lust in cui, come all’altro estremo di questo spettro, il piacere e la sodomizzazione sono ancora un atto di violenza, un atto di supermatismo.
Invece per Valentina Della Seta il piacere sembra non essere più né una questione di esibizionismo né di denuncia. Ma una questione tutta intima, lei nella sua stanza, e in quelle ore.
Catherine Millet voleva dimostrare di essere una donna sessualmente emancipata, senza pregiudizi, a proprio agio nel suo corpo, e nel suo piacere. Dietro c’era anche l’utopia della libertà sessuale di una fetta di quella generazione del sessantotto. Anche se per alcuni critici, dopo la pubblicazione di Souffrance, in cui la stessa autrice racconta la crisi in cui la getta la scoperta di una lettera di un’amante del marito, Millet resterebbe una donna con la stessa paura di tutte le donne: essere sostituita da un’altra accanto al suo compagno. Il marito è lo scrittore Jacques Henric, autore della famosa foto sulla copertina de La vie sexuelle e anche autore dei nudi raccolti in Légendes de Catherine M.: leggende come se tutto quello che aveva raccontato la moglie fosse appena una leggenda, solo finzione.
Alla narratrice di Le ore piene manca tutto quello che forse rende il romanzo di Millet ambiguo, il ménage della coppia Millet-Henric, una certo snobismo di una certa borghesia parigina, le fantasie erotiche che nascono all’interno della coppia per regolarne equilibri e misurarne vendette. La narratrice di Le ore piene è assolutamente sola in questa ricerca del suo piacere. Dietro, dove tutto comincia, c’è un passato magari assolutamente banale senza però la volontà di andarlo a cercare, di formularlo, di raccontarcelo. Meglio che resti qui e là, giusto la crudeltà di qualcosa forse comune a molti di noi, che le ha attraversato le viscere, qualcosa di intrinsecamente scomodo e intrinsecamente famigliare. La mano di un compagno di scuola alle elementari che stringe fino a far male ma poi la bacia all’angolo della bocca. La madre che le dice adesso vado via. O il piacere di un vestitino estivo che scivola sulla pelle appena abbronzata quando era giovane e il corpo non pesava.
La storia comincia, le prime parole si scrivono e la protagonista di questo racconto muove i primi passi verso di noi senza avanzare però ma restando in uno spazio anacronico dove le ore si perdono per essere piene, i gesti sono dimessi, vaghi come delle fantasie che però si compiono fino in fondo. Perché in mezzo a tutta questa indolenza, a questo tempo sprecato, c’è una fretta, fretta di toccare, fretta di andare da lui, fretta di sognare una storia d’amore, fretta di confessarci e confessarsi quello che da sempre le ha procurato piacere: un piacere sadomasochista, un piacere che cresce quando è “umiliata”, quando è sottratto.
La narratrice si stacca dalla sua stanza, dall’anonimato più totale. Per rientrarci di nuovo dentro, alla fine della storia. Non è questione di raccontare i sentimenti ma solo le sensazioni mentre quei sentimenti affiorano, scantonano. La volontà di scandalizzare si è assottigliata, quasi fino a scomparire. Eppure tutto è ancora più estremo e feroce.
L’interno e la protagonista potrebbero essere uno scatto della fotografa Maria Clara Macrì (In her rooms). Una donna nuda che non si compiace della sua nudità -nella misura in cui questo è possibile- e la mostra ad un altro obiettivo, ammiccando ma in modo diverso. Una donna che fa tutt’uno con la stanza, che è il luogo di quello che ho fatto per anni, svestirmi, spogliarmi, nascondermi, uscire, per rimanere in qualche modo lì dove sono sempre stata. E nella stanza stagna assiema ad una luce sgranata, un’energia sfatta che ha a che vedere con quello che non esibiamo. C’è un rasoio con cui la narratrice si depila il corpo sbrigativamente, una lampadina abbassata per non vedersi bene allo specchio, ci sono delle bottiglie di vino, un frigorifero quasi sempre vuoto, il fondo di una vaschetta di gelato, rimasugli di una vita disordinata, un letto e il suo lavoro precario di traduttrice assieme ai jeans scoloriti. Perché tutto ciò che abbonda, gli oggetti di troppo sono solo un eccesso di memoria e di coscienza, che confondono e di cui meglio disfarsi. E poi ovviamente quel buco nello stomaco dove si ha paura, si ha fame, si desidera.
Questa stanza è in contatto continuo, quasi un’estensione di un’altra stanza, quella dell’adolescente, che si autoescludeva, piena di difetti, complessi ed umori, e con quei pomeriggi sprecati, in cui continua a non accadere niente di eccitante. La donna di oggi è in contatto con quella ragazzina che conosce il suo destino, la strada del suo piacere ma non lo sa ancora.
La narratrice sta per compiere quarant’anni, si sente già vecchia (“non avevo fatto altro che invecchiare”). La troviamo in quel momento lì, quando scopri che gli altri sono più giovani di te, i capelli voluminosi e i corpi tonici, ed hai fretta. Mette la sua foto su un sito per incontri. E P.- perché stavolta è lui, il maschio ad essere solo un iniziale, l’inizio di qualcosa che non sarà mai una storia, un’iniziale su cui rimangiarsi tutto- risponde. Così cominciano a vedersi. Ma soprattutto lei comincia a creare una nuova routine nella stanza: un rituale. Prima dell’appuntamento, è il momento in cui indossa reggicalze, il bagnoschiuma, il profumo. È il momento in cui si plasma secondo la fantasia di lui, seguendo le sue rigide istruzioni. È il momento prima di diventare tutto quello che lui vuole, prima di farsi chiamare cagnetta, schiavetta, di leccare, strisciare e tutto il resto. Ma questo prima è anche l’anticamera del suo piacere, prima di perdersi in una sensazione che avrebbe voluto che durasse per sempre, in cui l’altro si condensa in quelle gocce e negli odori che restano appiccicati alla pelle, ai vestiti e alle lenzuola. Quelli che vuoi lavarti via e quelli che vorresti per sempre addosso.
Poi c’è l’asfalto che evapora assieme all’estate, e si fa corridoio che la separa dall’appartamento di lui o che la riporta piuttosto sempre là. La successione dal prima al dopo. Prima di uscire dall’appartamento di P., luogo di apertura dei sensi, e ritornare esausta nella sua stanza, dove anestetizzare e disinnescare. E nella città, quella dei passanti, il desiderio e la fantasia si amplificano: tutti gli uomini potrebbero essere P., tutti i luoghi potrebbero diventare un luogo per seguirlo, prima di riportare a casa solo frustrazione e appetito. La metropolitana, le fontane, la bici che pedala, gli odori si diluiscono, il bagno turco, un cortocircuito. Mentre lui, P., ogni volta, rientra nella sua pelle, torna alla sua vita sotto il sole, rinunciando forse a se stesso. Lei invece sconvolta, sudata, ha la sensazione di aver trovato finalmente la strada di casa.
La protagonista fantastica subito su un futuro d’amore, di resa, di corpi che si scivolano dentro, che si appartengono e di racconti e felicità monogamiche indicibili. Madre di una creatura perfetta, figlia dell’uomo che ama. Ma sono fantasie automatiche, che stridono con tutto quello che sta facendo e che ci sta raccontando. Lei e P. arriveranno a dirsi appena sono stato bene, i loro muscoli appena ad allentarsi, i corpi a stendersi l’uno sull’altra senza combaciare, arriveranno a sentire quelle onde elettriche prima di fuggire. Valentina Della Seta ci racconta come la sua narratrice riesce a controllarsi, a non scrivere a P., a non scorrere i messaggi sul telefonino, a farsi viva solo quando lui la chiama. Ad obbedire. E soddisfare il desiderio e le fantasie con altri uomini conosciuti allo stesso modo, su Tinder, solo per calmare l’eccitazione. O scappare perché l’altro non è lui. Eppure, mentre sembra rispondere e modellare il suo desiderio a quello che gli chiede P., questa donna sta in realtà modellando e scoprendo il suo stesso desiderio, che stava dentro di lei, in una specie di ripostiglio dove ha messo frammenti e scintille. Assieme ai litigi della coppia genitoriale, agli oggetti che si rompono, ai divieti che arrossiscono le mani come le foglie di ortica. Questa donna non muore facendosi puro oggetto sessuale nelle mani di P (come nella tradizione della letteratura pornografica): continua ad essere persona proprio mentre si realizza come creatura sessuale. Ma Valentina Della Seta va anche oltre. Perché il piacere di cui ci sta parlando è quello che viene prima del disgusto, prima della voglia che stavolta sia lui (non lei come accade nel racconto tradizionale) ad andarsene, mentre la tua pelle brilla e vuoi restare sola. E quando, come da copione, arriva il momento in cui P. le dice quella frase là, “ho paura di innamorarmi”, lei semplicemente sente che tutto quello che ha desiderato è lì, in quel momento, senza prima e senza dopo. In un punto triste in cui nessuno dei due ha voglia di andare fino in fondo. La sua vera iniziazione sarà questa: non sentirsi troppo delusa da quello che verrà, o meno. Perché i pezzi del cuore si possono anche ingoiare come le lacrime, perché le fantasie sono irrealizzabili. Perché l’altro a volte è solo un foglio bianco su cui scrivi quello che vuoi, quello che tu desideri e vedi, il tuo piacere.
Silvia Acierno
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