È un ragazzino, allora, ha appena tredici anni. È il 1979.

Abita in California ma viene da lontano: un’isola, in Alaska, il cui nome in inglese, Adak Island, pare uno scioglilingua – provate un po’ a ripeterlo fra voi.

L’isola-scioglilingua appartiene alle Andreanof Islands, nell’arcipelago delle Aleutine, un lungo sbaffo semicircolare – in tutto 1900 chilometri – di isole di origine vulcanica che separa il Pacifico Settentrionale dal Mare di Bering, un prolungamento in acqua della catena dei Monti Aleautini. Lui viene da lassù.

Ha tredici anni, allora, nel ’79, e sta filando via veloce in sella alla sua bici, lungo le strade periferiche della città di Santa Rosa, California, in pieno sole, col vento caldo che soffia tra i capelli. Lo vediamo così.

Fila via in bici, spingendo sui pedali, con il sedere scostato dal sellino, oppure fila in skateboard; forse sta camminando, o magari correndo verso la casa di un amico, un compagno di classe; magari, invece, sta ritornando a casa, è appena uscito da scuola, lo zaino sulle spalle. A casa, ovunque sia la casa, lui troverà sua madre.

Non troverà suo padre, dato che i genitori si sono separati e il padre è rimasto in Alaska.

Il sole batte forte nel pomeriggio estivo. Il ragazzino suda. Canticchia tra sé King of the road, una vecchia canzone di un certo Roger Miller, di cui lui non sa nulla, una canzone che ha sentito cantare da suo padre, chissà quando, e che ricorda ancora. È un ragazzino come tanti, se solo non fosse che viene dall’Alaska, che è nato in Alaska, su un’isola il cui nome pare uno scioglilingua.

Adak Island è un posto tutto vento, tundra e colline, scorci sul mare neroazzurro e strade deserte, polverose, un punto nel mezzo, se usassimo un compasso, fra Seattle e Tokyo.

Un’unica stazione radio di solito trasmette vecchie canzoni rock. Circa 200 abitanti risiedono nella città di Adak, a volerla chiamare città: un solo ufficio postale, un solo alimentari, un solo ristorante, un unico distributore di benzina, molti edifici abbandonati.

Durante la Seconda Guerra Mondiale, l’isola ospitava una base aeronautica, avamposto per la difesa contro una temuta, mai avvenuta, invasione giapponese. La base divenne poi della Marina e fu dismessa nel ‘97, anno in cui venne chiuso anche il McDonald, il più settentrionale ed il più a nord – un fast-food di frontiera – del territorio degli Stati Uniti.

La gente sbarca nel piccolo aeroporto dell’isola dal nome scioglilingua – un viaggio in aereo di circa quattro ore dalla città di Anchorage – per andare a cacciare caribù, per visitare vecchi bunker, fare birdwatching oppure raggiungere le baie – Finger Bay, Horseshoe Bay, a cui si accede camminando su una discesa ripida, tenendosi a una corda – scorci bellissimi sull’acqua neroazzurra.

Ci sono vulcani in lontananza: le cime innevate spuntano dalla foschia e paiono visioni fantasmatiche.

A Santa Rosa, quell’estate, il ragazzino ricorda pochissimo di Adak – a dire il vero, nulla. È il posto in cui è nato, tutto qui, ma ne ricorda un altro, se ne ricorda bene, quello in cui è cresciuto fino al divorzio dei suoi genitori – aveva sei anni – fino al trasferimento in California; il posto in cui, nel corso del tempo, è ritornato spesso a trovare suo padre, un dentista, rimasto a vivere lassù. È la città di Ketchikan, la più sud-orientale dell’Alaska, molto vicina al Canada, regina mondiale del salmone, una metropoli, paragonata ad Adak.

Ketchikan è tutta sviluppata sulla costa e lungo il Ketchikan Creek, su cui sorgono case a palafitta, amate così tanto dai turisti – potrebbe capitarti, se vivessi lì, di pescare un salmone restando sulla porta.

Il ragazzino ricorda molte cose: il cielo grigio, spesso piovigginoso, riflesso nel mare, e il mare che sembrava di piombo; la foresta pluviale e certi fiori, rossi e purpurei, con gambi spessi e lucidi, spuntati dove non te l’aspetti; i pomeriggi di pesca con suo padre, nelle baie intorno a Ketchikan – suo padre pesca e caccia: gli ha insegnato a pescare, gli ha insegnato a sparare, gli ha persino regalato una carabina.

“Ormai sei grande abbastanza”, ha detto.

Ha solo tredici anni, ed è grande abbastanza.

Così, mentre pedala, cammina o corre o fila sullo skateboard, lungo le strade dei sobborghi di Santa Rosa, California, canticchiando quella vecchia canzone, il ragazzino – David – appena tredici anni, nel vento caldo, nel sole dell’estate, rivede immagini di Ketchikan, immagini d’infanzia, lampi che spuntano di colpo – il mare color piombo, il cielo piovigginoso, il guizzo dei salmoni oppure degli halibut, la barca di suo padre – immagini di una famiglia unita nel vento dell’Alaska, unita e poi spezzata, perché suo padre ha tradito sua madre, lei ha chiesto il divorzio e si è trasferita in California, armi e bagagli, portandosi i bambini, e lui si è risposato ma anche quel matrimonio è andato presto a rotoli.

Suo padre, che gli ha insegnato a cacciare e pescare, gli ha regalato una carabina ed è rimasto a vivere lassù, nel vento dell’Alaska, sul mare neroazzurro, è diventato strano: gli capita di piangere, al telefono, di lamentarsi in modo confuso o di restarsene in silenzio, e David non riesce a capire – ha solo tredici anni – cosa gli stia accadendo, ma si sente a disagio, questo sì, quando suo padre lo chiama, quando vuole parlargli, e cerca di tagliare corto, dice che deve uscire, dice che non ha tempo, “scusa”, ha molti compiti oppure un amico da incontrare.

Tra Santa Rosa e Ketchikan, tra California e Alaska, c’è una distanza che sembra sempre più incolmabile. Non basterebbe più neppure un compasso.

Il sole picchia sull’asfalto, sulle foglie degli alberi, sui vetri dei palazzi, a Santa Rosa, nel traffico di quel giorno d’estate, un giorno come un altro, e il ragazzino, David – David Vann – tutto sudato, il fiato corto, con quei ricordi in mente, infine arriva a casa, lascia la bici o lo skateboard nel garage, entra in soggiorno, getta lo zaino a terra e saluta sua madre. In quel preciso istante, il telefono squilla.

La madre va a rispondere, dice qualche parola, “sì, d’accordo”, poi si rivolge a David, gli allunga la cornetta.

“Papà vuole parlarti.”

Ed ecco il momento, l’inizio della storia.

C’è un ragazzino, David, in piedi in un soggiorno; c’è la cornetta di un telefono, che gli viene allungata; c’è un posto là, in Alaska, sul mare neroazzurro; c’è un padre che spesso scoppia a piangere o che resta in silenzio, che dice cose strane e che vive da solo; c’è quello che quel padre ha pensato di chiedergli.

“Ciao, David. Come va?”
“Tutto ok, papà. E tu?”
Silenzio.
“Più o meno. Insomma. Ok.”
“Ok.”
“È che volevo chiederti una cosa?”
“Cosa?”
Silenzio.
“Ci sto pensando da parecchio, sai?”
“Ok.”
“È una cosa che sarebbe bella, che potrebbe piacerti. Credo. Almeno, lo spero. Perché a me piacerebbe. Mi piacerebbe tanto. Sarebbe fantastico.”
“Cosa?”
Silenzio.
“Cosa, papà?”
Silenzio.

PS:

Se per caso voleste ascoltarla per poi canticchiarla, fingendo di pedalare in bici a Santa Rosa, ecco King of the road.

Elena Varvello