Ho conosciuto Giuseppina Torregrossa in occasione del suo romanzo Al Contrario, pubblicato da Feltrinelli a maggio 2021 e subito sono rimasta colpita dal suo garbo, dalla sua gentilezza, dalla sicurezza di chi ha vissuto più di una vita, rimettendosi quindi in discussione più di una volta.

Ridisegnando la sua esistenza.

Adolescente palermitana trapiantata a Roma, La Torregrossa è stata a lungo medico prima di provare, in età matura, a scrivere e incassando subito riconoscimenti che vanno oltre il caso editoriale, che superano i confini nazionali coniugandosi in decine di lingue grazie a libri, come il Conto delle minne, capaci di toccare corde collettive forse ancora intoccate.

Leggendo quest’ultimo lavoro che è un giallo edito da Marsilio per la collana Lucciole ho confermato da lettrice la sua capacità di esplorare generi diversi, contesti sociali e culturali agli antipodi, senza perdere mai i tratti di uno stile unico, che fonde amabilmente ironia e introspezione a mezzo di personaggi mai scontati, dalle sfaccettature elastiche, col loro personale modo di stare al mondo.

Morte accidentale di un amministratore di condominio, declinando il titolo di una delle più celebri commedie del premio Nobel Dario Fo, racconta la storia di un crimine commesso in un condomino abitato da gente facoltosa, zona Parioli. Michele Noci, questo il nome dell’anziano amministratore, viene ritrovato riverso al piano terra della palazzina il giorno di Natale. Tutto fa pensare ad una caduta dalla tromba delle scale. Sul luogo dell’incidente, viene inviato l’ispettore Mario Fagioli, soprannominato er Gladiatore, invitato caldamente ad archiviare il caso come appunto morte accidentale.

Eppure.

Fagioli è come tutti gli investigatori attanagliato da un passato che non gli ha consentito di completarsi, come uomo e come poliziotto; ma diversamente dagli altri investigatori non ha l’aura di infallibilità, nessuno slancio di genialità, se non quello di avere intuito che non si tratta di una caduta, che non sarebbe giusto chiudere il caso così, a mezzo di una classificazione facile. Dai tratti tipici dell’antieroe per eccellenza, Fagioli è schernito dai compagni, sminuito dai suoi superiori. La sua passione per la pizza è posta a sugello della sua arrendevolezza di fronte alle tentazioni.

Più volte, in passato, i colleghi si erano lamentati della sua trascuratezza, poi però si erano rassegnati, anche se c’era sempre qualcuno che aveva da ridire: «’Sto rapporto chi l’ha scritto?», «L’impronta digitale pare quella di Fagioli», «Mandatelo alla Scientifica e vediamo che dicono», «Oggi pizza rossa, eh?»

Se chi indaga ha le sue mancanze e le sue debolezze, gli indagati sono lo specchio di una società vecchia, mosaico di malattie senili e intrighi amorosi fuori tempo massimo, di privilegi rimasti intatti dalla prima Repubblica e intrecci di importanti amicizie capitoline complici nell’aver dato vita a microcosmi di società nei quali niente cambia per consentire che tutto resti tale e quale. Nei secoli dei secoli.

Da un piano all’altro si propagava un cicaleccio disordinato. Sembra che non abbiano mai visto un morto, considerò Mario, eppure alla loro età… Ah, il potere, fa perdere il realismo e regala l’illusione che la vita sia eterna.

Il miraggio di una vita eterna finché dura, perché la livella è sempre dietro l’angolo a ricordarci che esiste un momento di passaggio per tutti, nella condizione più democratica che la biologia abbia regalato agli uomini.

Indagando e domandando e scrutando in controluce Fagioli, a due anni dalla pensione, recupera il senso più autentico del suo lavoro per andare oltre la soluzione impacchettata e pronta all’uso fornitagli da dal suo reparto e presenta dalle apparenze. E interrogando i condomini si trova di fronte ad una carrellata di personaggi femminili che lo stupiscono e lo fanno riflettere, ognuna interprete di un ruolo fondamentale nella vicenda.

«Ispettore, io di fatto sono una barbona che vive in un palazzo di lusso. Mi odiano i ricchi visto che non sono in linea con le loro lussuose apparenze, e mi odiano i poveri perché non so godermi quello che ho, e tutti mi guardano male a causa del mio aspetto.»

Che si tratti di un paese dell’entroterra siciliano agli inizi del secolo scorso o nel cuore della Roma borghese contemporanea, la Torregrossa riesce sempre ad aderire alla realtà che sceglie di raccontare in modo autentico con una lingua che è in grado di dosare sapientemente espressioni dialettali e italiano regionale, intercalari che sembra di sentire davvero quando si scorrono le pagine.

E il cibo, elemento sempre molto presente nella sua scrittura anche quando non è protagonista indiscusso, come il suo esordio. Il cibo che evoca ricordi, stimola associazioni, è pretesto per azione e movimento.

«Scongelò dei cannelloni e si piazzò sul divano. Al primo boccone i ricordi lo assalirono improvvisi e si affollarono molesti nella sua mente. Emotività e istinto vanno a braccetto: aveva lasciato campo libero all’intuito e quello lo ripagava vomitando desideri, delusioni, speranze.»

Un giallo senza la pulsione di finire per scoprire, terminare la storia per il sazio di dare un nome ad un colpevole, ammesso che ce ne sia uno. Ci si muove tra le pagine di questo racconto come in una zona franca dove godimento e trama si alimentano a vicenda. Dove non serve stanare un assassino per dirsi mentre si arriva in fondo – mi è piaciuto.

Angela Vecchione

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