Flannery O’Connor, in uno dei suoi interventi sulla natura della narrazione, sosteneva che uno scrittore deve riuscire a giudicare se stesso con gli occhi e la severità di un estraneo e, in un articolo sul racconto breve, aggiungeva che niente produce silenzio come l’esperienza e che, quindi, riteneva di aver ben poco da dire circa il modo in cui si scrivono le storie, circa il modo, cioè, in cui si «crea vita con le parole». Così, io, che di esperienza ne ho poca. e di distanza dalle mie storie probabilmente ancora meno, vivo da giorni – da quando mi è stata chiesta quest’autorecensione – l’inferno di chi sa che sarebbe meglio tacere, lasciando agli altri il compito di giudicare, ma sa anche che non può permettersi il meritato silenzio dei grandi, a meno che… a meno che non gli arrivi la lettera di quei lettori che, credo, tutti gli autori vorrebbero avere, uno di quei lettori pazienti e intelligenti che ti danno una mano a capire quello che hai fatto e che, proprio per questo, hanno più diritto di parola dell’autore stesso. Ecco perché preferisco lasciare che a raccontare questo mio libro sia Ambra Carta con la sua lettera-recensione (di cui riporto, per motivi di spazio, solo alcuni passaggi), forse un po’ troppo generosa, forse un po’ troppo entusiasta, ma ricca di intuizioni e suggestioni che mirano al cuore delle cose che ho cercato di narrare. Credo anche che questo sia il modo migliore per ringraziarla.

(…) Il protagonista degli undici racconti brevi di Evelina Santangelo è il dolore. Un dolore di vite bloccate, sospese o in attesa di compiersi: una mamma che lotta disperatamente per costruire al figlio una carriola che gli possa cambiare l’esistenza, una donna uscita dal manicomio la cui vita, sospesa, attende di realizzarsi, un uomo che per cinque lunghi anni aspetta il ritorno della donna amata inghiottita dal mare, un vecchio che vive dialogando con una moglie morta, il traumatico momento della crescita di un adolescente alle prese con uno scomodo compagno, un criceto, la storia, fredda e tagliente, del difficile rapporto tra una madre e una figlia, e ancora la storia di una vecchia abbandonata in una casa sporca e abitata da piccioni che si lascia lentamente inghiottire dall’ospite che ha preso dimora nella sua gamba…

I protagonisti di questi racconti riflettono tutti una realtà eccentrica, periferica, un’ottica angolare, distorta e straniata a cui l’autrice lascia posto adottandone la prospettiva e il linguaggio. Non c’è diaframma o mediazione possibile tra lettore e protagonista delle vicende narrate. La presa è diretta, la visione in soggettiva colpisce il lettore costringendolo a viaggiare nel mondo raccontato a sentire sulla propria pelle i brividi del dolore, il turbamento di storie sofferte e prive di consolazione. Si prova così sempre un certo disagio nel leggere queste storie che colpiscono anche per l’intensità e la tensione emotiva e semantica che le attraversa. Ogni parola è scelta per la sua densità, per la sua espressività, ed è sempre collocata nel punto esatto senza mai disperdersi gratuitamente nella narrazione (Geno tremava sotto la pelle; il sole sbranava pezzi di cielo; Il Capomatto li scuoiava vivi con gli occhi; suor Fiorenza aveva capelli lunghissimi aggrappati alla faccia…). Anche la Natura, in questi racconti, sembra ferita, arrabbiata, offesa, abitata da creature che soffrono e lottano, attraversata da una tensione resa mediante un linguaggio che aderisce alle cose. Una Natura di cui protagonista indiscusso è il mare, che Evelina Santangelo racconta con quella familiarità e intimità propria di chi viene da un’isola: un mare in tempesta che spacca, travolge e vomita dal suo ventre sulla sabbia le sue creature, che brucia col sale i corpi accecati dal sole, che scortica e fa piangere…

Insomma vale la pena leggere questi racconti della Santangelo che a me hanno ricordato le parole di Mengaldo a proposito del linguaggio di Montale: Niente «parola vaga» ma attraverso il ritaglio netto dello spazio semantico, la specificazione appuntita e univoca dei significati.

La biografia aggiornata

Evelina Santangelo è nata a Palermo. Presso Einaudi ha pubblicato nel 2000 la raccolta di racconti L’occhio cieco del mondo (con cui ha vinto i premi Berto, Fiesole, Mondello opera prima, Chiara, Gandovere-Franciacorta), i romanzi La lucertola color smeraldo (2003), Il giorno degli orsi volanti (2005), Senzaterra (2008), Cose da pazzi (2012), Non va sempre cosí (2015) e Da un altro mondo (2018). Suoi racconti sono apparsi nelle antologie Disertori e Ragazze che dovresti conoscere (Einaudi Stile Libero, 2000 e 2004), Principesse azzurre 2 (Oscar Mondadori, 2004) e Deandreide (Rizzoli Bur, 2006). Con il racconto Presenze ha partecipato all’antologia L’agenda ritrovata. Sette racconti per Paolo Borsellino (Feltrinelli, 2017). Ha anche tradotto Firmino di Sam Savage, Rock’n’roll di Tom Stoppard, e curato Terra matta di Vincenzo Rabito.

In libreria

Evelina Santangelo
L’occhio cieco del mondo

Einaudi, 2000
Collana: I coralli
151 p., brossura

Il libro attualmente è fuori catalogo