In una delle lettere che compongono l’epistolario pubblicato da Einaudi (Beppe Fenoglio, Lettere 1940 – 1962) è nascosta una frase – nascosta solo perché fra tante, tutte altrettanto necessarie: non era un uomo del superfluo, Beppe, del ghirigoro, della parola facile, della parola così tanto per fare, così tanto per dire.

La lettera, datata 8 marzo 1960, è indirizzata a Livio Garzanti, allora suo editore dopo la triste esperienza della pubblicazione del racconto/romanzo La malora (1954) da parte di Einaudi, e del risvolto di copertina di Elio Vittorini, in cui comparivano frasi come: “questi giovani scrittori dal piglio moderno e dalla lingua facile”, “con le storie che ci raccontavano, di ambienti e condizioni, senza saperne fare simbolo di storia universale”. Un’esperienza così amara da spingere Fenoglio, suo malgrado, a fare baracca e burattini, passando a Garzanti, pur continuando a guardare a Einaudi come si guarda a un grande amore che un giorno ti ha ferito, o che non ti ha capito o ha finto di non capirti a fondo, ma che non smetterai di amare, a cui vorresti solo poter fare ritorno.

(Prima nota a margine, che mi pare importante per ricordare Beppe, in questo centenario della nascita, per ricordare l’uomo e lo scrittore, in lui del tutto inestricabili: dopo La malora – il suo secondo libro – e la faccenda Vittorini, Fenoglio annota sul suo diario: “La malora è uscita il 9 di questo agosto. Non ancora letta una recensione, ma debbo constatare da per me che sono uno scrittore di quart’ordine. Non per questo cesserò di scrivere, ma dovrò considerare le mie future fatiche, non più dell’appagamento di un vizio. Eppure, la constatazione di non essere riuscito buono scrittore è elemento così decisivo, così disperante, che dovrebbe consentirmi da solo di scrivere un libro per cui possa ritenermi buono scrittore”.)

La frase, nascosta nella lettera di cui vi parlavo, è destinata a Livio Garzanti in un momento importantissimo per Beppe, incominciato prima della pubblicazione, nel ’59, appunto per Garzanti, di Primavera di bellezza, l’ultimo libro edito della sua breve vita: la fase del ripensamento riguardo a quella “pura rievocazione storica, sia pure di alto livello”, a cui aveva tanto duramente lavorato, la campata lunga di guerra e Resistenza e insieme la vita di Johnny, il partigiano Johnny, racchiusa poi, almeno per le stampe, in Primavera di bellezza. Quello, insomma, che aveva definito il “libro grosso”, la cui seconda parte diventerà per noi, cinque anni dopo la sua morte, Il partigiano Johnny.

Ecco che cosa scrive Beppe nella lettera: “Mi saltò in mente una nuova storia, individuale, un intreccio romantico, non già sullo sfondo della guerra civile in Italia, ma nel fitto di detta guerra”.

Questa è una frase che continua a togliermi il respiro. Racchiude in sé l’annuncio di un capolavoro – Una questione privata – e il segno di una nuova visione del mondo – “d’improvviso ho mutato idea e linea” – e dunque una nuova visione di guerra e Resistenza, che Beppe, avendola vista dall’interno, avendovi partecipato e avendo soprattutto il coraggio di guardare alle cose per quello che sono, aldilà di ogni retorica, tra i primi aveva chiamato guerra civile.

(Seconda nota a margine: mi dovrei chiedere perché io abbia deciso di raccontarvi proprio questo, fra tutto ciò che avrei potuto dire di Fenoglio, di quello che Fenoglio significa per me, ora che celebriamo questo suo centenario. Perché questo particolare? Solo la frase di una lettera? Perché non è un particolare, tutto qui. È un vero mutamento. È la nuova visione di una storia nella Storia. È il peso incalcolabile di una questione privata, di tutte le questioni private.)

Nel fitto della guerra, e non sullo sfondo.

Ora che sto scrivendo, le Lettere accanto al computer, consumate e piene di post-it e sottolineature, ripeto tra me e me queste due piccole parole: nel fitto. Non sullo sfondo – il “libro grosso”, la lunga campata – ma nel fitto.

Nel fitto non è come nel cuore, anche se in fondo ci assomiglia. Il fitto è là dove non vedi, dove è difficile distinguere, dove le cose sono così intricate da rendere ostico il cammino: nel fitto di un bosco, per esempio, o in una nebbia fitta, in una notte fitta. Qui non c’è più la quiete, per quanto burrascosa e piena di accadimenti, dello sfondo. Qui, della Storia e del suo tempo lungo, non resta che una manciata di giorni, dentro la nebbia e il fango, tra cani che ululano e colpi di fucile in lontananza. Qui, accantonato Johnny – anche se mai del tutto – ora nel fitto è Milton, “un uccello di un altro stormo”, la bocca socchiusa, le braccia abbandonate lungo i fianchi, davanti alla villa di Fulvia. Milton, comparso qualche tempo prima, al parziale tramonto del partigiano Johnny. Milton, scritto e riscritto fino alla morte per arrivare là, dentro la nebbia e il buio, dov’è la verità, che sempre ricerchiamo, o dovremmo cercare, qualunque ne sia il prezzo, e che per sempre sfugge.

Forse sarà l’amore, chi lo sa, dato che Beppe allora è innamorato – il 28 marzo del ’60 si sposerà in Comune, ad Alba, con Luciana Bombardi. C’entrano l’amore della maturità, coronato dalla nascita nel ’61 della sua amata Margherita, e quello della giovinezza. Amore maturo, ricambiato e amore doloroso – ombra e fantasma, ricordo da inseguire.

Forse l’amore è parte del mutamento, perché non c’è scrittura (autentica) senza la vita, e non c’è vita che, per Beppe, non sia anche scrittura. Amore e guerra e Resistenza, ora tenuti insieme, legati l’uno all’altro nel fitto della Storia. Così ai colpi di fucile, ai latrati dei cani, ai repubblichini, ai resistenti, alla nebbia e al sangue, al fumo delle sigarette, al volto sbiancato della morte, a quella guerra civile per come era davvero, vissuta e guardata dal di dentro, ora si mescola una canzone dolce, Over the raimbow – canzone amatissima da Beppe, in quella storia del desiderio di tornare a casa che è Il mago di Oz – traccia sonora, implicita ed esplicita, di Una questione privata, che Milton canticchia mentre i suoi piedi sprofondano nel fango, e a cui ripensa spesso.

(Terza, e ultima, nota a margine: bisogna ricordare cos’era la scrittura, per Fenoglio, come lui stesso cercava di descriverla. “Scrivo per un’infinità di motivi. Per vocazione, anche per continuare un rapporto che un avvenimento o le convenzioni della vita hanno reso altrimenti impossibile, anche per giustificare i miei sedici anni di studi non coronati da laurea, anche per spirito agonistico, anche per restituirmi sensazioni passate; per un’infinità di ragioni, insomma. Non certo per divertimento. Ci faccio una fatica nera. La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti. Scrivo with a deep distrust and a deeper faith.”
Ci faccio una fatica nera. Penosi rifacimenti. Non certo per divertimento. Con un profondo disincanto e una fede ancora più profonda.)

La resistenza che racconta Beppe è molto di più di una questione storica, e dunque conclusa, politica e ideologica – quest’ultima osservata come da lontano (ne Il partigiano Johnny, Cocito, uno dei personaggi, calcato sul professor Cocito del Liceo Govone di Alba, dice al protagonista: “Johnny, mi permetto pronosticare che sarai uno splendido Robin Hood. Ma come Robin Hood sarai infinitamente meno utile, meno serio, meno meritevole, e, bada bene, meno bello, dell’ultimo partigiano comunista”.)

La resistenza di Fenoglio è il faccia a faccia dell’uomo con sé stesso in un momento di storia collettiva; è la ricerca di sé stessi e della verità, che sempre sfugge avanti, per cui si può pagare un costo altissimo – qual è? Dove posso trovarla? Come posso trovarla? Che cosa dovrò fare?

È la resistenza della vita sulla morte, anche se poi si muore – destino comune – e di ciò che per davvero fa di noi quello che siamo, oltre la morte, gli orrori e la paura, oltre ogni contingenza. Non solo un “conosci te stesso”, insomma, ma anche un “non perdere te stesso”, un “rimani te stesso”, davanti alla bestialità, nel fango e nella nebbia, nella barbarie umana.

Ha questo senso, almeno per me, uno dei passaggi più belli di Una questione privata:

Arrivò sotto il portichetto. “Fulvia, Fulvia, amore mio”. Davanti alla porta di lei gli sembrava di non dirlo al vento, per la prima volta in tanti mesi. “Sono sempre lo stesso, Fulvia. Ho fatto tanto, ho camminato tanto… Sono scappato e ho inseguito. Mi sono sentito vivo come mai e mi son visto morto. Ho riso e ho pianto. Ho ucciso un uomo, a caldo. Ne ho visti uccidere, a freddo, moltissimi. Ma io sono sempre lo stesso.

In questi giorni, in questo tempo in cui la Storia mostra di nuovo una delle sue facce – l’avevamo scordata? – in questo nuovo fitto della guerra che forse ci ostiniamo ancora a non voler vedere, non fino in fondo, la resistenza di Fenoglio è una delle pochissime visioni a cui valga la pena di pensare.

Gli rimanevano tre anni, dalla stesura della lettera di cui vi ho raccontato. Solo tre anni, durante i quali, tra le altre cose, rilavorò con fatica nera alla storia di Milton.

Avrebbe scritto alcuni biglietti, tra il 15 e il 17 febbraio del 1963, dall’ospedale Molinette di Torino, prima di andarsene. Uno di questi era destinato a suo fratello Walter. Diceva così: “Caro fratello Walter, a te e alla tua bella famiglia felice proseguimento. Appoggia e stima Luciana la quale di tanto in tanto si consulterà con te per Margherita. Avrei piacere che mia figlia trascorresse sempre una parte di vacanze con Franco e Luisa. Funerale civile, di ultimo grado, domenica mattina, senza soste, fiori e discorsi. Vivi sempre felice con i tuoi cari e tienimi sempre da conto la mia Margherita”. A noi, adesso, non resta che leggere o rileggere, ancora e ancora, tutti i suoi libri. E, qualche volta, con i piedi nel fango che è parte della vita – vita che è sempre, anche sotto le bombe e il colpi di fucile, una questione privata – canticchiare a fior di labbra Somewhere over the rainbow skies are blue, / And the dreams that you dare to dream really do come true.

Arrivederci, B.

Continua a correre, lassù, sulle tue colline.

Elena Varvello