“Ecco come sono venuta vado via”

Quando Roberto Calasso la riscopre, Ortese è stata completamente messa da parte, ritirata nella sua vita e nella vecchiaia, senza soldi e sempre sotto sfratto. Alla fine degli anni Ottanta, Adelphi comincia ad editare e rieditare le sue opere. Sulle copertine spesso sono riprodotte le tele di Thomas Jones (pittore di fine Settecento, dall’estetica incredibilmente moderna). Ne Il mare non bagna Napoli in copertina figura “Terrazza a Napoli vicino a Castel Nuovo”, che specchia più di qualsiasi altra scelta (che magari avrebbe puntato su una tela brulicante e cavernosa, da Bruegel a Caravaggio) una zona della scrittura di Ortese: la calma e l’immobilità, anche di quelle lenzuola che non si gonfiano e di quel cielo che non respira di Jones. Ma è come se nel pensiero (e nella lingua) di Ortese, fatto di spirali, gradini che si salgono e si scendono, e incavi, ci siano molti più strati di pittura per arrivare a rappresentare questa zona. La zona della scrittura dove risiede la speranza. La speranza che sta in fondo al vaso di Pandora, sotto a tutti i mali. Ma anche un’altra speranza: quella che non ci hanno regalato gli dèi di una cosmogonia troppo simile a noi, ma qualcosa che fa parte di noi, corpi celesti immemori.

Il mare torna e ritorna nella storia biografica e letteraria di Anna Maria Ortese. In un mare lontano, nelle Antille, muore il fratello Emanuele, marinaio, mentre scioglieva le vele dell’albero maestro. E quella morte troppo precoce si è portata via la spensieratezza dei fratelli più piccoli, e un pezzo dell’anima, prima di farsi silenzio nella casa, sciogliersi per tornare a solidificarsi nei versi di una poesia (tra le sue prime prove letterarie che ricorda in Corpo celeste, raccolta di pensieri e interviste). Prima che la parola imprigioni la ferocia della vita, o semplicemente la vita, che si contrae e si dilata senza ragione. Perché le parole di Ortese hanno questa missione: catturare la decenza e l’indecenza, la cosa terribile e quella smisuratamente gioiosa, l’ordine e il disordine del vivere, il sogno e la veglia, l’inconoscibile (che è quanto di più reale e vero a proposito di noi possa darsi) e la realtà che mass media, social e capitalismo ci mettono sotto gli occhi (niente di più irreale, come insisteva anche Elsa Morante). Le parole di Ortese sono radici, e si attaccano alle radici dei sentimenti, delle esperienze, di quello che siamo. Dal mare, più che da tutto il resto, proviene per me la scrittura di Ortese.  E il segreto del suo narrare: raccogliere i resti dell’umanità e della meraviglia, avvicinarvisi, anche con uno strano distacco, perché le due gocce di pianto cadono senza fare rumore in due dita d’acqua, poi stringere lo sguardo, avvitare il racconto e far risaltare quei resti per contrasto, per dissonanza. Il mare non riflette il mare; l’albero non riflette l’albero (“Dove il tempo è un altro”, in Corpo celeste).

Il mare che prima di essere mare era già stampato nel cielo e nell’azzurro sopra la Libia dove ha vissuto da bambina. Il padre -un impiegato della prefettura, che lei ricorda come un sognatore, pronto a partire e a sconvolgere per l’ennesima volta la vita di quella famiglia numerosa, per inseguire una nuova meta, senza riuscire poi a realizzarne nessuna-, aveva chiesto una concessione coloniale e li aveva portati tutti in Africa. Vivono fuori Tripoli, in una casa costruita a metà, senza porte né finestre, tra scorpioni e scarafaggi che sbucano dalle fenditure, in un campo tutto giallo in cui si sente solo il vento. E la striscia di mare in fondo (intervista a Dacia Maraini). E così, diroccate, costruite a metà, provvisorie saranno poi in un certo senso tutte le case della scrittrice. Così come fatiscente sarà la casa sull’isola non segnata sulle carte de L’Iguana.

Il mare di Napoli, la città dove migrò con la famiglia, dopo la Libia, e dove ritornò poi dopo la guerra. Quando ritornano a Napoli, nel 1948, dopo essere stati sfollati, gli Ortese non posseggono più niente, nemmeno una casa. Quella con la scalinatella lunga su cui Anna Maria ha visto e ha scritto la città, non è più agibile, non esiste più. Mandata in frantumi assieme alla vita da una bomba piovuta dal cielo. Lo sguardo di Ortese, che si è sempre mossa liberamente, quasi randagia, per i luoghi in cui le è capitato di vivere, si è già abituato a vedere le spoglie mortali della realtà che è sempre altrove eppure non troppo lontana da qui: nella stella già esplosa, nell’esistenza già avvenuta, nel sogno già sognato.

Il mare che non bagna le città, tutte le volte che non guardiamo in basso, alla povera gente su cui lasciamo cadere i resti del nostro benessere, assieme alla polvere dei tappetti che sbattiamo sul balcone, quelli alti, dove circolano l’aria e la luce. Tutte le volte che “nessuno ci faceva caso”. Sta arrivando a Napoli che non è la città in cui è nata, ma diventa città d’elezione, di pulsioni e repulsioni, una matrice del raccontare e una specie di termine di paragone (anche della degenerazione dell’umanità). E dove il mare è solo un liquido di contrasto: più brilla, più splende, più illumina la miseria della vita quando diventa ottusa.

Il mare immobile, dove il viaggio non ha un punto di partenza né un porto in cui si approda, ma è un movimento centrifugo, nell’immobilità del nostro essere. A Genova, poi a Rapallo, dove visse fino alla morte, nel tempo delle cose capite e dell’indifferenza verso tutte le altre sciocche ed inutili. Dopo tante case e spostamenti, e l’affanno di una vita intera a cercare una casa, uno spazio decente in cui poter scrivere, non importa se facendo raccorciare la brandina o raccogliendo le proprie pagine sotto l’acquaio, non importa se in un ospizio per anziani. Ma nessun alloggio le permette di scrivere, per il traffico con le sue sirene, per la speculazione edilizia e i maledetti lavori di rinnovamento, per la periferia, per il cosiddetto “progresso”. Per questo mondo che sta andando a rotoli, dove i ricchi restano ricchi e i poveri restano poveri. Questo spazio necessario di libertà, dove l’ansia si arresta, è sempre più ridotto. E ciò la fa soffrire, quasi impazzire, perché come alla ragazzina di quindici anni, quella che viveva nella zona del porto, quello che importa non sono i beni, i soldi, ma una cosa sola: potersi esprimere. Solo la meraviglia e l’immaginazione ci possono salvare.

Il mare mediterraneo che non è più azzurro e poi è di nuovo turchino come il dorso di un pesce. Il mare che è il riflesso della sorgente, della nube, del bosco, del deserto. La pace del fiume e dell’uccello. Il mare che cela l’isola de L’Iguana. L’iguana, il puma (di Alonso il visionario), il Cardillo addolorato. Sunto di quell’elemento “esterno” su cui Ortese torna e ritorna, e formula in Corpi celesti e Piccole persone. È il senso di “quello che esiste prima”, prima di noi, prima del mondo vecchio, e ancor prima del mondo e dei mondi nuovi. Quel senso che non possiamo permetterci di perdere, che in fondo abbiamo già perso, in questa atmosfera da fine del mondo che ci stanno vendendo, verso cui ci stanno traghettando e noi stiamo inconsapevolmente spingendo. L’unico capace di farci respirare. Unica ragione della cultura e dell’arte. Questo senso dell’“altro” che solo può arrestare le manie di onnipotenza, su sui si fonda la cultura patriarcale.

E poi di fronte al mare, il buio della città infima, che è sempre dentro quell’altra, quella ricca e indifferente. Il buio della città involontaria, nera da sporcarci tutti. Il fondo umido appena rischiarato; laggiù “dove non sopravviveva nessuna possibilità di emozione”. Il buio delle case dove persino i muri si lamentano. Il buio dei Granili: un bestione edificato sul porto di Napoli, dove vivevano in condizioni disumane i poveri e i senza tetto.  Metri di corridoi, porte, stanze, in lungo e in largo, il numero di famiglie, troppe, stipate in ognuno di quei buchi miserevoli, tra pareti di cenci e cartone. E le cifre -includendo quelle dei morti e dei vivi (quelle delle scienze esatte, statistiche, previsioni e leggi)- e il buio prendono finalmente forma, si ingrandiscono sotto la lente di Ortese, e diventano un controlinguaggio, portatore di altri valori e altre sfumature. L’unico di cui abbiamo purtroppo ancora bisogno per raccontare il buio ai confini di un’Europa senza confini, il buio di questa guerra.

Su questa striscia che sto disegnando, nel nastro dal mare alla terraferma, si muovono l’immaginazione e la scrittura di Ortese: e sono fasci di luce, illuminazioni, sguardi intensi, reti aeree gettate sulla terra. Dal mare Ortese guarda la costa e si interroga e ci interroga, dà delle risposte sorprendenti, terribili e meravigliose. E quelle risposte anche dogmatiche vanno sempre nella stessa direzione: appuntare a quello di cui l’uomo “è fatto”, piuttosto che a tutto quello che l’uomo “ha fatto”.

Anna Maria Ortese è stata un personaggio scomodo, perché era politica senza volerlo essere, cristiana senza essere cattolica. Polemica e poi silenziosa, di quel silenzio in cui si covano anche la disillusione e la battaglia più radicale. Ritirata in uno spazio interno. Eppure, niente serve, i rumori di Milano e poi di Roma sono come incisi sulla testa, incisi per sempre, e non le permettono di scrivere. Anche oggi che non sappiamo più cosa sono i Granili, oggi che pochi conoscono Compagnone l’intellettuale, amico della rivista Sud (oggi la rivista continua con il nome di Nazione indiana) su cui Ortese scriveva, e di cui fa un ritratto impietoso nell’ultimo racconto de Il mare non bagna Napoli, questo romanzo resta un libro profondamente scomodo: uno che non vorremmo leggere, che in un certo senso non siamo ancora pronti a leggere. Perché a tratti ho l’impressione che abbiamo distolto di nuovo lo sguardo da quel “noi” (nel senso di ognuno di noi), e spostato il nostro interesse e la nostra preoccupazione verso quei corpi minori e piccoli (di cui Ortese ci parla senza sosta), perché in fondo forse continuiamo a percepirli come “altri”, alieni, diversi da noi, (per quanto ne rivendichiamo gli stessi diritti), in quel fondo dove non ci piace rovistare, dove ci sentiamo “noi” (blocco giudicante e salvo). Un argomento esterno intorno al quale è più facile discutere. Invece soffermarsi su quanto ognuno di noi sia minore e direbbe Ortese celeste, sta ancora un passo oltre, oltre la retorica e i buoni propositi.

Il mare non bagna Napoli è pieno di corpi minori e balbuzienti ante litteram. Nani, nane, deformi, mendicanti, minorati, larve d’uomini, lamenti, topi e bambini che sbucano come topi. Grovigli, rottami, “sopra i quali, come un’immagine sacra, annerita dal tempo, spiccavano gli zigomi gialli di una donna, i suoi occhi immobili, la nera corona dei capelli, raccolti sul capo con una forcina, le braccia stecchite, congiunte sul grembo”. Qui dove il mare non bagna la città, dove il mare nessuno l’ha più veduto (come sarà nel rione di Ferrante per Lena e Lenù, o nei cunicoli dell’Ospizio della Misericordia di Piera Ventre), o non se ne ricorda, dove le ombre sono corte, “in questa fossa oscurissima, non brillava che il fuoco del sesso, sotto il fuoco nero del soprannaturale”. Senza carità. Soprattutto nei tunnel dei Granili: “coi neri capelli spioventi sulla gobba e un viso color limone, da un grande naso a punta che cadeva sul labbro leporino”. Gente che si riflette in frammenti di specchi, che riflettono frammenti di volti.  Enormi pidocchi, che in fondo alla voce hanno un rantolo, con un’espressione già morta negli occhi. Donne schiacciate, rigonfie, orrende, “parto di creature profondamente tarate”. Donne con i bubboni, occhi loschi e strabici, visi ricoperti di pustole, di macchie verdi e marroni. Giovani vestiti da donna. Sguardi sani e insieme tristi. Straccioni, mendicanti, suonatori, uomini e donne senza volto. La madre col bambino defunto tra le braccia, “una cosa gialla, tra la volpe e il bidone d’immondizia”. Quell’altra che al posto della capigliatura ha una crosta di polvere. Tisici, rachitici, tubercolotici. Munacielli e mostri. E poi, più di tutti: quella (di Ortese) e questa infanzia che non ha più nulla di infantile.

Tutti avvolti in una specie di incanto, che li protegge e li rende ancora più ciechi, capaci, istintivamente capaci, di avanzare nelle tenebre.

Nel suo saggio On photography, Susan Sontag racconta come negli anni Settanta, la fotografa Diane Arbus, rompa gli schemi. Ci apre gli occhi, o piuttosto apre gli occhi agli americani e ai loro sogni di zucchero a velo: l’umanità non è una sola, sembra dire attraverso quel suo racconto fotografico dell’altro, dei fuori casta, dei “freaks”. Quella che i fotografi prima di lei avevano chiamato “the great family of man” (progetto fotografico realizzato nel 1955 da Edward Steichen sulla scia di quell’umanesimo euforico di Whitman), non esiste. Soprattutto in quelle foto meno feticiste, quelle che preferisco di lei, che ritraggono bambini come apparizioni, dai volti deformati dal pianto o da qualche espressione indecifrabile. L’umanità non è una sola è quello che aveva detto Ortese nel 1953, quando uscì per i Gettoni Einaudi Il mare non bagna Napoli.

Le descrizioni e i ritratti di Ortese, soprattutto ne “La città involontaria”, hanno la precisione e l’eccesso di precisione di una fotografia: l’immagine che Ortese ha visto è netta dietro la sua descrizione, impressa nella retina. I personaggi l’hanno guardata dritto in faccia, hanno fissato l’obiettivo con solennità prima di tornare alla loro esistenza. La fotografa ebrea Arbus aveva sconvolto le regole del gioco anche per quell’assenza di compassione che aveva invece mosso i fotografi che prima di lei si erano affacciati sul mondo fatto di stenti, di fatiche e di brutture, di quell’America in cui gli immigrati sono rimasti immigrati. Nemmeno Ortese vuole suscitare compassione o carità nei racconti de Il mare non bagna Napoli. Perché Ortese non ha niente, assolutamente niente di patetico. In fondo anche i più freddi e meschini sono capaci di commuoversi di fronte ad una guerra o ad una carestia, dirà. Ci mostra, come fa Arbus, l’indifferenza ed autonomia di quelle figure rispetto al suo sguardo. Quasi la loro resistenza a qualsiasi redenzione. Ed è proprio questa empatia priva di sentimentalismi, che la rende ancora più scomoda, e che fece di questo suo romanzo, una storia indesiderata, non solo perché di Napoli raccontava il morbo e le bruttezze. Oggi, sono sicura, Ortese sarebbe di nuovo emarginata, e censurata. E non so se ci sarebbe un Calasso pronto a riscattarla.

Della sua visita da cronista ai Granili, Ortese non ci vuole raccontare la commozione.  “One volunteers to seek out the pain of others”, anticipa Sontag a proposito del lavoro di Arbus, scrivendo già il titolo di quello che sarà il suo testo sulla guerra “Regarding the pain of others” (Davanti al dolore degli altri, edizioni Nottetempo).  È quello che fa Ortese: una volontaria per fissare il dolore degli altri. Farsi quasi “tramite”. Fissare senza patetismo quella bambina di due anni adagiata come una strana neonata in una cassetta della coca-cola in una stanza che è una grotta. Mentre leggo incredula questa scena e provo una specie di fastidio (il fastidio provocato dal taboo, da un taboo ancora più sotterraneo di tutti quelli che siamo pronti a smantellare), e vorrei ancora essere protetta dal racconto di queste immagini.

Arbus e quella generazione (in letteratura c’è Carson McCullers per citarne una) erano alla ricerca di una nuova estetica, che sembrava accontentarsi di stupire, ferire lo sguardo, distruggere senza speranza di costruire (Arbus morì suicida), autodistruttiva. A differenza di quella generazione di artisti e di questa contemporanea che vuole ancora sovvertire, e sembra alla ricerca di intenzionali epifanie negative, Ortese ci lascia invece la sua meraviglia: il poco, il nulla, il silenzio, l’essenza, il volo antico del cardillo.

Attraverso il suo bestiario che un bestiario non è -come non è magico il suo realismo, né visionaria la sua visione, né metaforica la sua metafora -, Ortese ci sta dicendo una cosa molto concreta: siamo per metà bestie, siamo così da sempre, nell’immobilità del tempo, da prima di ogni racconto, di ogni storia, anche se preferiamo dimenticarcene. La bestialità mitologica dei nostri corpi è solo un eccesso, un corpo che sta oltre il borderline, oltre il deforme ritratto da Arbus. Lontano da questo tempo in cui la catastrofe ambientale (ora nucleare) è diventata solo retorica, un’arma per controllare le masse, attraverso la paura e l’angoscia, perché in realtà chi ci governa non ha nessun interesse a cambiare la rotta verso cui navighiamo, Ortese ci stava già scrivendo l’urgenza e il senso di questa battaglia a cui abbiamo rinunciato: “Io rispondo che tutto è divino e intoccabile: e più sacri di ogni cosa sono le sorgenti, le nubi, i boschi e i loro piccoli abitanti. E l’uomo non può trasformare questo splendore in scatolame e merce, ma deve vivere e essere felice con altri sistemi, d’intelligenza e di pace, accanto a queste forze celesti”. È tutto così terribilmente semplice.

Così Ortese costruisce a parole ed immagini quello spazio prelinguistico teorizzato da Julia Kristeva, dal femminismo post-Beauvoir, e dai gender studies. Questo luogo preedipico che altrove, negli scritti di queste pensatrici o in romanzi come Aracoeli di Morante, sembrerebbe solo possibile come memoria o utopia, qui, invece, in Ortese prende forma: luogo dell’inconoscibile e del per sempre, il luogo profondo e immutabile che sta dietro di noi, dove il nostro corpo è solo una terminazione nervosa dell’Universo. Non solo. Ortese prova soprattutto ad immaginare il nostro essere “in” questo luogo, che sta qui, ovunque, dentro di noi e al disopra di noi.  Prova a pensarci in questo luogo: mentre cerchiamo le parole, che non troveremo, per chiamarci e per chiamarlo, per poi rinunciare a cercarle; senza spiegare ma accettando l’inspiegabile. Soprattutto sentendoci non solo niente, una trascurabile ipotesi, rispetto alla vastità del caso, ma parte di questo corpo celeste. E in questo luogo “di resa” ci insegna quanto invece possiamo esistere per gli esseri più piccoli, più deboli.

È stata un personaggio scomodo perché ha sempre denunciato la logica mostruosa del mercato editoriale, in cui i libri compaiono e poi scompaiono. Scriveva libri che vendevano poco, che vendevano in ogni caso poco. Che erano stroncati e che sarebbero stati stroncati. Che andavano al macero come accadde per quel Porto di Toledo a cui aveva lavorato per cinque lunghi e sofferti anni. Originale fino a non considerarsi nemmeno una scrittrice, nel senso di non riconoscersi nella società letteraria da cui si sente respinta e che lei stessa respinge. Quando le diedero il premio Viareggio, un premio secondario per il Il mare non bagna Napoli, non aveva nemmeno un vestito più acconciato per presentarsi a riceve il premio. Ci andò con un impermeabile usurato prestato da un’amica, e una collana di vetro prestata da un’altra. Assolutamente sradicata (Potenza, Libia, Napoli, Venezia, Trieste, Roma, Milano, Genova…). Né migrante né spatriata ma profuga, in fuga dalla guerra e dalla povertà, “io sono figlia di chi non vedo”; “la mia patria è la Via Lattea”. Eppure, così capace di cogliere Napoli e la realtà tutta, che è il rovescio di ciò che vediamo, di quello che abbiamo sotto gli occhi, quello che resta immutato, qui, là, allora, oggi, domani, come un fossile nella resina: lo squallore e l’intensità della vita, che fa sempre “un rumore fioco”. In fuga da città che si inimica come accadde con Napoli, dopo la pubblicazione del Mare non bagna Napoli. Autodidatta (conosco la letteratura italiana come le altre cose, poco, non ho mai messo piede in un teatro), e colta (la sua opera si nutre di Shakespeare, Conrad, Poe, Keats, Montaigne, Pascal, Unamuno, Simone Weil…). E poi perché era un’intellettuale donna: “io sono una bestia che parla”. Io sono una persona piccola. Una donna che si permise di denunciare il perbenismo e denudare quegli intellettuali di quel gruppo a cui apparteneva -Stancanelli scrive che “Il silenzio della ragione” cadde come una bomba. Una donna che capovolge il neorealismo e tutta quell’attenzione quasi folkloristica al naturale, alle persone povere e per questo “pure”. Ortese invece ci dice che anche loro sono impure, impure fino al voltastomaco; ma la loro impurità è il rovescio di quella ancora più terribile di chi vive tranquillamente nel suo palazzo cinto da giardini, lontano dai liquidi della vita, pensando di essere il padrone dell’universo.

Non solo. Ne Il mare non bagna Napoli (e in tutta la sua opera), Ortese compie un’altra rivoluzione. Mette costantemente in discussione il carattere naturale della maternità (contro la propaganda fascista, non dimentichiamoci che in quel secondo dopoguerra, il sindaco di Napoli era il filofascista Achille Lauro, e il cattolicesimo). In “Interno familiare” e in tutti gli interni familiari, dove le madri vorrebbero che alle figlie tocchi in sorte altro, un destino di emancipazione che non sono capaci né di vedere né di dirsi, ma tutto istintivo, così come istintivo è pure il desiderio contrario che soccombano alla stessa legge, alla stessa tara (lo ritroveremo anche nei romanzi di Ferrante). Interni familiari che sono grembi atrofizzati, in cui l’assenza di maternità (Anastasia la protagonista mantiene la famiglia, la madre e i fratelli, con il suo lavoro, senza potersi emancipare da loro, ma sostituendo alla cura dei propri figli quella meccanica dei suoi familiari) resta un’aberrazione (riflessa nella figura della zia nana, anche deforme e zitella). “Al Sud, le ragazze pensavano tre cose: amore, famiglia -il proprio matrimonio-, abiti”.

A Napoli prima della guerra, vivevano in nove in un monolocale, nella zona portuale. Due genitori strani, un padre inquieto, che curava i suoi figli quando si ammalavano e una madre infantile, e misteriosa, che travolgeva quei ragazzi con i suoi scoppi di allegria per poi lasciarli a sé, quasi abbandonati, come giocattoli, in certi suoi momenti di profonda melancolia. E sei fratelli. A quei fratelli, a quell’infanzia misera ma felice, Ortese ritorna, tende la mano, oramai ottantenne in Corpo celeste, che è considerato il suo testamento letterario. Quella povertà assoluta, che ti trascini appresso con il carretto, quella che non ti permette nemmeno di comprare i fiori su una bara, senza viverla però come tale, come un recinto. E in fondo al ricordo, in quella Napoli portuale brulicante di traffici e vele, c’è un fratello, Emanuele, che aveva scritto un poema, c’è quella fanciullezza che è sempre al centro del pensiero di Ortese, quella in cui abbiamo smesso di credere, tutte le volte in cui gli diamo cose invece di lasciarla a mani vuote per esprimersi. Ci sono i giorni piccoli fatti di sole, di domeniche mattine, e di lune incavate. E quella casarella piccola, piccola e il balcone da cui si vede il porto. A tredici anni lasciò la scuola, come la maggior parte delle ragazze di allora che frequentavano solo alcune classi elementari. In quell’interno dove tutto è precario, i mobili, i soldi, la vita stessa, questa ragazza legge, disegna e scrive per tutti, anche per il padre e cerca di esprimersi, di esprimere sé stessa, perché esprimersi è l’unica ricchezza che la povertà le consente. A questa necessità lontana continua ad essere legata la donna anziana che ha già vissuto una vita. È a Rapallo, nelle due stanze dove si è finalmente sistemata dopo aver ricevuto un sussidio statale (il sostegno Bacchelli), sempre con la sorella, Maria, poi senza di lei, la vecchia Olivetti di cui alcuni tasti non funzionano più, e il pacchetto di sigarette a portata di mano. Con quella coscienza attiva ed espressiva, tra straniamento e meraviglia, che sta in fondo alla memoria. Ora è più malinconica, beneficamente malinconica. Di quella malinconia che accompagna i nostalgici, quella che va a braccio con la memoria, memoria del tempo passato, di quello che siamo stati e di quello che eravamo prima di noi.

“Vedo la vita come un mare: e questo mare, ai miei occhi, è immortale”.
“La nostra sopravvivenza è pura opera del caso”.

Silvia Acierno