Come emergeva già dalla lettura di Palazzokimbo, (2016, per lo stesso editore Neri Pozza), Piera Ventre padroneggia – rara dote nella letteratura italiana – la materia del romanzo di ampio respiro. Lo compone con sicurezza e rigore, riuscendo egualmente bene a delineare i personaggi nella loro vita corporea e interiore, e a descrivere epoche e ambienti. Napoli come ce la ritroviamo davanti in Sette Opere di Misericordia – nel presente siamo nel giugno 1981, anno successivo al terremoto, proprio nei giorni in cui l’Italia sta sospesa intorno alla tragedia di Vermicino- è un cantiere che non riesce a partire, una città appoggiata su stampelle, disabile. La città è il raggio più ampio in cui vive la famiglia Imparato, quello più circoscritto è il cimitero. I due luoghi trovano corrispondenze quasi puntuali nelle vicende degli Imparato e di coloro che ruotano loro intorno: un nucleo che convive con una lenta ma progressiva discesa a condizioni sempre meno brillanti di vita, da quando il capofamiglia Cristoforo, perso già un occhio da ragazzino, si trova privato del suo lavoro di tipografo, e si trasferisce con la moglie Luisa e i figli Rita e Nicola nella casa che confina con il cimitero, per guadagnarsi il pane come becchino. Nessuno di loro è intimamente rassegnato alla nuova realtà, alla vicinanza delle “fosse”, del buio rotto dalle fiammelle, visualizzazione dell’inquietudine, limine tra i morti e i vivi.

Nicola, ragazzino fragile, guarda le stelle e tiene stretto il pupazzo ricucito di Laika, la canina perduta nello spazio; è vessato da compagni spavaldi perché sensibile alla diversità e al dolore dei vinti. Dalla salvezza del gatto Moschillo e quella di Alfredino sembra poter derivare un riscatto anche suo, e quello di tutta la realtà precaria che ruota intorno, e che lui descrive nei suoi “quadernucci”.

Rita si confronta con la sensualità già sbocciata in Rosaria, compagna di scuola rimasta incinta e ospite in casa loro dopo essere stata rifiutata dai genitori. È consapevole di come lei incarni il femminino nascente subito rivelatosi al professore Lorenzo, di cui Rita è invaghita. Il professore, rifugiatosi a Napoli per eludere le aspettative della claustrofobica famiglia  toscana alto borghese, è a sua volta ospite di un’anziana signora. È lui il padre del figlio nel grembo dell’amica? O un ragazzotto malavitoso che lavora come carrozziere quando non sconta pene a Poggioreale? Mentre Rita affoga la sua insicurezza nel cibo, è consapevole di come l’amica, lungi da essere riconoscente di essere stata accolta, sfrutti le sue armi anche per ingraziarsi  il bonario Don Cristoforo, troppo occupato a vivere il duro presente per rimpiangere il passato. La madre Luisa è forse l’unica rimasta in possesso di una leggerezza d’animo, di uno stupore giovanile, che le fa trovare anche in un contesto così poco consolatorio un anelito di passioni, una via di fuga dal quotidiano.

Tutti quanti  sono parallelamente occupati con piccole  “Opere di Misericordia”, che entrano nel quadro del romanzo mentre si affacciano iconograficamente dalla tela del Caravaggio accolta al Pio Monte della Misericordia proprio a Napoli, e dove il professore Lorenzo accompagnerà in uscita la classe di Rita e Rosaria. Come la tela, cardine e frattura nella storia dell’arte occidentale, è la misericordia in questo libro, con il suo carico di ombra e luce. Accogliere, nutrire e dissetare, vestire, curare, visitare infermi e carcerati, seppellire i morti sono le azioni che accompagnano la vita dei caratteri nel libro. Non sempre pienamente altruiste e consapevoli, anzi non di rado compensatorie o ineluttabili, finiscono comunque per salvare dal proprio baratro consentendo di rivolgersi verso l’altrui.

Ma la sorte bonaria si fa attendere, anzi nel disincanto generale, l’attesa trepida del tempo migliore, della grazia, si compenetra sempre più con la parabola di Alfredino nel pozzo.

Tutto confluisce in quella sera, in quella drammatica diretta televisiva, nell’immagine della madre di Alfredino incapace di mettere i propri sentimenti alla mercé di una nazione.

Piera Ventre porta in questo romanzo le profonde radici che la sua scrittura affonda nell’eredità di Ortese e Morante. Non c’è niente di imitativo o compiaciuto, neppure vi è la citazione fine a se stessa delle maestre, piuttosto proprio un substrato, culturale e di sguardo, che riporta non solo al Cardillo Addolorato della Ortese, ma anche al suo Un paio di occhiali , bellissimo racconto della raccolta Il mare non bagna Napoli, dove la miseria e la vista sono il discrimine di una possibilità di vita migliore o peggiore. Ma salgono alla memoria anche il Mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante, e le scorribande di Arturo nell’Isola, dove carcere e cimitero sono i luoghi del mondo adulto in cui l’innocenza rimane appesa mentre cerca il punto di fuga.

Sette Opere di Misericordia è un opera-mondo così funzionante da trattenerti nelle proprie viscere con tutti i sensi.

Anna Bertini

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