“I write blindly. It sounds pretty crazy, but it seems to work for me.”
Quando Kent Haruf pubblicò Canto della pianura, che sarebbe diventato un bestseller – il suo primo bestseller dopo due romanzi, Vincoli e La strada di casa, accolti positivamente dalla critica ma che non avevano trovato così tanti lettori – aveva già compiuto cinquantasei anni. Era il 1999, l’anno del massacro alla Columbine High School e della nascita del movimento no-global, con le prime manifestazioni a Seattle nel mese di novembre, l’anno dell’insediamento di Vladimir Putin e dello scoppio della seconda guerra cecena. Erano passati dieci anni dal crollo del Muro di Berlino. La Storia continuava a muoversi, come fa da sempre, inesorabile.
Allora Haruf viveva in Illinois, a Carbondale, nella contea di Jackson. Insegnava alla Southern Illinois University, la stessa in cui aveva insegnato John Gardner (uno dei maestri di Raymond Carver). Le cose si erano messe meglio per lui, dopo un lungo periodo difficile durante il quale aveva vissuto perfino in un trailer – povero eppure felice perché comunque poteva scrivere, come ebbe modo di raccontare in seguito. Stava per sposare la sua seconda moglie, Cathy, con la quale sarebbe ritornato in Colorado per stabilirsi nei pressi di Salida.
Canto della pianura gli aveva richiesto sei anni di lavoro. Aveva scritto la prima stesura di ogni scena battendo sui tasti di una macchina da scrivere (aveva provato a usare un computer, ma non gli era piaciuto molto), con un cappello calato sugli occhi.
“I write blindly”, disse in seguito.
Ciò che cercava, calandosi sugli occhi quel cappello, era il contatto con correnti più profonde, con una certa spontaneità – la definì così – con una visione non ancora analitica, prima delle settimane a occhi bene aperti che avrebbe poi impiegato a riscrivere la scena per metterla a punto. Si trattava di lasciar fluire liberamente qualcosa che fosse vivo e autentico, e si trattava di provare a restituirlo sulla pagina senza pensarci troppo, non ancora.
Non ve lo racconto per semplice curiosità verso gli usi e i costumi di uno scrittore, né tantomeno per il gusto di raccontarvi un vezzo, perché quello di Haruf era tutto fuorché che un vezzo.
Ogni scrittore, è chiaro, ha i propri riti, le proprie abitudini. Scriviamo solo a mano oppure soltanto al computer. Scriviamo la mattina presto o la sera o di notte, sempre nello stesso posto oppure dove capita. Abbiamo bisogno di silenzio o, al contrario, di stare in mezzo alla gente, in un bar, in un parco, in una biblioteca. Per quanto mi riguarda, il rito – o l’abitudine – è una passeggiata mattutina, che nevichi, che piova o splenda il sole, durante la quale cammino leggendo (un giorno potrei scrivere qualcosa sulle mie cadute e sulle caviglie doloranti, gonfie come pompelmi). Per me è indispensabile: mi permette di uscire dal mondo per poter poi entrare in quello in cui, scrivendo, trascorrerò le ore successive. Ma in fondo tutto questo non ha grande importanza: a ciascuno il proprio rito, le proprie piccole o grandi abitudini. Invece ho la certezza che la scrittura cieca di Kent Haruf significhi qualcosa. Penso che rappresenti qualcosa di importante, voglio dire, e che contenga una lezione. Non sto dicendo che noi si debba provare a fare come lui, per carità, ma che ci sia qualcosa da imparare o da tenere a mente. Potrei chiamare questa cosa “dedizione”.
Pensate ad Haruf, seduto ovunque fosse (ad esempio in un piccolo trailer in Illinois, a quel punto della sua storia personale), con un cappello calato sugli occhi. Cosa gli rimaneva se non quello che stava raccontando? Nulla. Non c’era più nient’altro, neppure le sue mani che battevano sui tasti della macchina da scrivere, o il paesaggio fuori dalla finestra, dato che non aveva modo di vederli. Restava solo quella scena – di volta in volta una diversa. Restava solo Holt, la cittadina in cui tutte le scene erano ambientate, fin dal suo primo romanzo, e le persone che vivevano lì. Soltanto loro, al centro del mondo. Intorno a loro, dappertutto, il buio.
Quando si trasferì a Salida con la seconda moglie – le cose gli andavano bene, ormai – Haruf prese a lavorare in un capanno costruito accanto alla casa, ma continuò a scrivere con un cappello calato sugli occhi. È quello che ha fatto fino alla fine, fino a Le nostre anime di notte.
Era un uomo degli altipiani: gentile e riservato, per nulla incline al narcisismo, come i suoi personaggi. Non gli piaceva molto parlare di sé, non gli piacevano granché le interviste – uno scrittore dovrebbe scrivere, non parlare di quello che ha scritto, diceva. E comunque aggiungeva: “Siamo diventati pazzi, in questo paese, riguardo alla fama”. Non dava peso all’appartenenza a circoli letterari. Gli piaceva vivere in Colorado con sua moglie, stare con la famiglia e con gli amici e scrivere, seduto nel capanno.
Con quel cappello sugli occhi tornava ogni giorno sulle High Plains, nell’angolo a nord-est del Colorado – lo stato a forma di rettangolo – dove aveva trascorso la propria giovinezza, in quella terra all’apparenza di nessuno, in quella provincia della provincia, quella porzione piatta e arida del mondo. Continuava, lentamente ma senza sosta, a costruire Holt e la contea di Holt e quelli che vi abitano, allora e per sempre, per nostra fortuna: Tom Guthrie e i suoi due figli, Dad Lewis, i fratelli McPheron, Victoria Roubideaux e la sua bambina, D.J., Edith, Jack Burdette.
La vocazione è una chiamata senza appello, a cui dobbiamo arrenderci. Spesso si mostra nella sua durezza, col prezzo che ci chiede di pagare (la dedizione, appunto, a cui di frequente, se ci pensate bene, abbiniamo l’aggettivo “assoluta”, nel senso che sentiamo che non importa come andrà a finire, se e quanto successo avremo). Spesso non sappiamo come fare a rispondere a quella chiamata nel migliore dei modi né se saremo in grado: non sappiamo esattamente neppure perché dobbiamo farlo.
“It’s a struggle”, ha detto Haruf, parlando di scrittura.
Una battaglia, per chiunque lo faccia seriamente. E lui lo faceva molto, molto seriamente. Perciò si calava quel cappello sugli occhi, dimenticandosi di sé e di ciò che aveva intorno per ritornare a Holt, perché non c’era niente che contasse di più di quella terra polverosa, battuta dal vento, di quegli altopiani e di quei personaggi – no, diciamolo bene: quelle persone – a cui era stato chiamato, che erano il senso della sua vocazione.
Quando, nel 1962, uscì nella sale Il buio oltre la siepe, il film tratto dal suo romanzo pubblicato due anni prima, Harper Lee (nata a Monroeville, in Alabama, nel 1926) disse a un reporter del Mobile Register che avrebbe voluto scomparire. Disse proprio questo: scomparire.
Il punto era stato, per lei, raccontare la storia di una bambina, Scout, del fratello Jem e del padre, l’avvocato Atticus Finch, la vita nell’Alabama rurale negli anni ’30 in quell’America così profonda, così lontana da New York. Il punto era stato raccontare, grazie a loro, l’infanzia perduta di ciascuno di noi, le nostre coscienze e l’innocenza, le nostre linee d’ombra, la comprensione della complessità del mondo oltre le nostre belle e rassicuranti siepi. Era questa la sua vocazione: cosa poteva mai contare tutto il resto – la fama, per esempio, le interviste? E allora non era meglio scomparire? Non era forse necessario far perdere le proprie tracce, rimettersi silenziosamente al lavoro, tornare là, in quel mondo, o almeno tentare di farlo?
Harper Lee, nata diciassette anni prima di Kent Haruf – per sempre una ragazza dell’Alabama – avrebbe capito il suo capanno e il suo cappello calato sugli occhi. Dobbiamo dedicarci soltanto ai nostri personaggi, forse gli avrebbe detto, ecco perché capisco. It’s a struggle.
È la forza misteriosa della letteratura, questo riuscire a farci percepire noi stessi dentro la vita di persone che non abbiamo mai incontrato, con le quali non abbiamo mai nemmeno scambiato due parole. È la grandezza della letteratura, questo rispecchiamento, questo trovare qualcosa di noi in Madame Bovary o in Scout o in Anna Karenina, in Milton oppure in Stoner o in Gatsby. Sono soltanto personaggi, non esistono, potrebbe ribattere qualcuno (le persone che non leggono). E invece esistono eccome: erano nella mente e nell’immaginazione di uno scrittore o di una scrittrice, e sono diventati nostri. Sono diventati noi. Così, esistono Dad Lewis e i fratelli McPheron, esiste Victoria Roubideaux, esiste Tom con i suoi figli, esistono Edith e Lyman. Esistono tutti i personaggi di Kent Haruf. E chiaramente esiste Holt, sulle High Plains del Colorado, tra strade dritte come righelli. Holt, che non è altro che la somma di chissà quanti posti diversi, alcuni guardati bene, altri magari visti soltanto di sfuggita. Holt è il loro distillato, la loro traduzione più nitida e nello stesso tempo sempre ambigua.
Quest’esistenza è il frutto di una vocazione, un frutto raccolto grazie alla dedizione. È il risultato di un lavoro paziente, testardo e silenzioso. È il tentativo di afferrare almeno per un po’, almeno per il tempo delle pagine di un libro, il senso sfuggente di quella cosa che chiamiamo vita, mentre lo si traduce in storie – perché soltanto nelle storie possiamo provare ad afferrarlo.
Dobbiamo mettere da parte noi stessi. Dobbiamo essere ciechi per vedere davvero: è questa la lezione. La vita è una faccenda semplice, fatta di poche cose davvero essenziali, ma nello stesso tempo non lo è. Quel che è sicuro, comunque, è che non abbiamo altro tranne che la vita, questo semplice enigma. Il resto non ha molta importanza: conta soltanto rimettersi al lavoro e ritornare là, in Alabama o sulle High Plains, per tentare di afferrarne il senso.
È accanto a quel capanno che una delle sue fotografie “pubbliche” ci consegna Haruf, bloccato nel tempo. Ha indosso una giacca rossa e un cappellino in testa. In un’altra è dentro, seduto alla sua scrivania: si intravede un bambino piccolo sulle sue ginocchia, e c’è una luce accesa. Intorno, alberi, colline e cielo. Siamo a Salida, in Colorado, ma nello stesso tempo siamo a Holt, e possiamo sentire il canto di quelle pianure, il loro crepuscolo, la loro benedizione, le nostre anime di notte, mentre la Storia continua ad accadere e sembra che le nostre storie, davanti al suo marciare inesorabile, non contino poi molto.
Le nostre storie invece contano: è questo quello che dice Haruf. Conta ogni nostro sguardo, ogni silenzio e gesto, ogni più piccola parola pronunciata. Conta la polvere sopra le nostre scarpe e il vento che ci fa vacillare, contano la luce e il buio in cui viviamo tutti. Ed ecco perché conta Holt.
Nel frattempo, siamo arrivati al 2020. Sta per incominciare un nuovo anno. Ma certe cose non cambieranno mai.
Una tra tutte? Be’, siamo anche noi gente degli altipiani, in fondo, semplici ed enigmatici. Una parte di noi riconosce al primo colpo d’occhio quel mondo creato a occhi chiusi. Siamo Tom Guthrie e i fratelli McPheron, siamo D.J. e Victoria Roubideaux. Le loro vite sono la nostra vita: è tutto ciò che abbiamo. E quella verso Holt – riuscite a vederla? – è la strada di casa.
Note a margine di oggi.
Harper Lee, di cui vi parlerò, non pubblicò più nulla – ci sono vite che vanno così – ma Il buio oltre la siepe vale per tutti i libri che avrebbe potuto scrivere in seguito.
Kent Haruf, con il suo romanzo La strada di casa, è il vincitore della nona edizione della Classifica di Qualità de La lettura. A volte, quel che dovrebbe succedere succede, e questo non può che riempirci di gioia. Alzo il mio calice per NN e per la voce di Haruf, che continua a parlarci, con quel cappello sugli occhi, ovunque lui si trovi adesso.
Elena Varvello
E tu cosa ne pensi?