“In fondo io mi sono sempre identificata con le mie protagoniste”

(A Banti)

Dietro Artemisia, il romanzo più conosciuto di Anna Banti, c’è un desiderio di scrivere che non si contiene più; la frustrazione, perché la prima redazione di questo romanzo, con cui Banti quasi vinse il premio Strega, era andata distrutta sotto i bombardamenti che colpirono Firenze, e il ricordo di un canto, del romanzo appunto. Ci sono anche una donna dall’aspetto molto sobrio, con il giro di perle e una specie di reticenza, moglie del critico d’arte Roberto Longhi fino alla fine e oltre la fine (Un grido lacerante), severa (superba anche) e cortese nella cornice borghesissima di villa Il Tasso, e la stessa donna che nelle pagine di Artemisia vediamo accoccolata in singhiozzi. Disperata, assolutamente disperata nel giardino dei Boboli. È il 1944.

Susan Sontag autrice di una bellissima prefazione all’edizione inglese del romanzo (raccolta in At the same time), intuisce un doppio movimento che tiene legata Anna Banti alla sua Artemisia, che non è solo un personaggio, è molto di più: in un certo senso è proprio lei, Artemisia Gentileschi, la pittrice del Seicento, figlia di Orazio Gentileschi, pittore contemporaneo di Caravaggio. Lei, la sua storia, che è stata anche la storia di una violenza -inaudita perché a tredici o qualche anno in più, oltre ad essere violentata da un amico del padre, suo maestro di pittura, dopo, nel processo contro il violentatore, fu sottoposta a tortura per dimostrare che quello che diceva era vero- ma soprattutto di un grande coraggio e di una grande solitudine. È il suo fantasma con i capelli biondi o quasi neri, che ha la concretezza di quel nostro dentro fantasmatico. È proprio lei, Artemisia, così come il rosso sulla tela di Oloferne è sangue e quel dipinto è un’uccisione (“io l’ho dipinto, è come se avessi ucciso un prepotente”). Banti aggredisce e riscatta, cura, salva Artemisia. “Her novel is a cruel game as well as an act of love, an expiation as well as a deliverance” (ci dice Sontag).

Ma, in fondo, questo doppio movimento è quello che forse Banti nutre verso quella parte di sé che si porta dentro, la donna che abbiamo appena visto accoccolata in singhiozzi: la donna che continuerà a credere che forse ha sbagliato tutto, patetica; che avrebbe dovuto continuare a fare la critica d’arte, sempre un passo dietro al suo maestro dai tempi del liceo, divenuto poi suo marito, la romanziera che ha prodotto un’opera minore, forse mediocre, che ha pubblicato sempre con lo pseudonimo di Anna Banti, invece del suo vero nome, Lucia Lopestri, perché Anna Banti era più misterioso (era il nome di una sua zia nobildonna) ma soprattutto per concedersi un margine di errore se la strada di romanziera si fosse rivelata sbagliata. Banti dà voce allo sconforto e alla frustrazione ma poi lenisce, riguadagna terreno, il senso e la forza delle sue ambizioni: non piangere, perché sa, nonostante quel mare di insicurezza, che la strada di romanziera è l’unica che le permette di raccontare davvero sé stessa, di esprimere tutto quello che Longhi non avrebbe mai potuto raccontare. L’unica in cui non sarebbe rimasta nella sua ombra (come osserva Sontag). Ma soprattutto quella che le avrebbe permesso di raccontare quella parte di sé viva, a cui le cose possono sembrare vere e poi false (come accade ad Artemisia) fino all’ultimo momento, quello in cui tutto è già accaduto.

Ed è nella continuità ellittica con questa parte di sé sfiduciata, insicura delle proprie ambizioni letterarie ma viva che nasce la parola scritta, l’opera di Banti: Artemisia, i racconti pubblicati tra gli anni Cinquanta e sessanta (Le mosche d’oro, la raccolta Il coraggio delle donne, per citarne alcuni), Un grido lacerante, romanzo autobiografico uscito nel 1981, dopo la morte di Longhi e Noi credevamo.

Assiema a Longhi, Banti fondò negli anni Cinquanta la rivista “Paragone” (dove scrivevano gli allora giovani Garboli, Arbasino Eco, Calasso), in cui si incrociavano arte e letteratura, con cui Longhi portava avanti quella sua rivoluzione della storia dell’arte come narrazione di quello che vediamo sulla tela (“il corto circuito tra parola poetica e comprensione dell’arte” scrive Alessandra Sarchi nel suo articolo “La felicità delle immagini, il peso della parola”). Fondano Paragone, lei si occupa di letteratura; lui di storia dell’arte, eppure nelle interviste del tempo Longhi continua a ripetere a proposito della rivista “Io l’ho fondata”, una “mia invenzione”, che “nasce dal mio profondo scontento”. Banti continua a perdersi nelle parole del marito. E la rivista continua oggi ad essere presentata come fondata dal “maestro”.

Ma Banti era lì, c’era anche lei dietro “Paragone”. In realtà la compenetrazione tra arte e letteratura, quel passo avanguardistico lo realizza proprio lei, con Artemisia: raccontando Artemisia e assieme ad Artemisia anche sé stessa e tutto il resto, in un viluppo inedito. E apre la strada a romanzi che verranno dopo. Ginzburg con Manzoni, Dacia Maraini con Marianna Ucría, ma anche Melania Mazzucco con Tintoretto… a tutto quel “lessico femminile” intermittente, che mancava, che porta il presente nel passato e il passato nel presente, in una confusione di corpi, ruoli, veleni e ambizioni. Banti sta facendo un’operazione nuova: dar voce alla pena di Artemisia, e alla sua pena. Sta violando un genere, un confine: tra romanzo e autobiografia; tra autore e personaggi; tra arte e letteratura; tra io, Artemisia e la terza persona; tra l’io che scrive e l’io che scrive per davvero. Tra le ambizioni confessate e quelle inconfessabili. Tra storia e presente, documento e narrazione. E lo fa da lì: da quel posto che Tiziana de Rogatis, (Elena Ferrante, Parole chiave) chiama a proposito di Ferrante e Morante (alte due autrici che fanno i conti con sé stesse): “il confine della tradizione”, sull’interdetto, su quel gradino più basso in cui le scrittrici sono state collocate.

E questa ricreazione originale l’ha compiuta non solo come romanziera, ma anche nel suo lavoro di critica (duecento testi, tra critica letteraria e cinematografica, apparsi su “Paragone” e su altre riviste, nell’epoca del cinema neorealista e del dibattito intenso legato al neorealismo). Perché nel passo dalla critica d’arte alla critica cinematografica c’è di nuovo quel tassello in più, lo stesso che unisce Artemisia, la pittrice riscoperta assieme a Longhi -di cui Longhi però apprezza piuttosto la resa pittorica dei drappi, della luce- e Artemisia come personaggio i cui segreti, invece, fuggono i colpi di luce. Banti si schiera, con quel suo modo garbatissimo, contro la critica di professione, si dice “nemica di catalogazioni e ricette”. In realtà non si considera una critica, i suoi sono sfoghi, interventi appassionati: lei vuole solo coinvolgere, soprattutto quel pubblico femminile così trascurato. E Banti ancora una volta sceglie una “terza via”: in cui andare oltre il documento, oltre la fotografia della realtà (nel cinema e nella letteratura), in cui il documento (documentario, film storico o romanzo storico, romanzo realista o neorealista) si arricchisce della dimensione creativa e deformante di chi scrive, inevitabilmente; niente mimesi; in cui c’è un solo tempo, quello del verosimile, dove la chiave di un’opera non è la ricostruzione storica ma  quella che lei chiama “le costanti della vita e del sentimento”, quelle che rendono una storia verosimile e degna di essere letta. Anche se Banti resta legata ad un ideale di riscatto, “resistenza”, di necessario impegno (umanitario più che politico) nella vocazione letteraria appena meno piena di sé e ad un moralismo che non si è ancora abituato al disincanto postmoderno.

Il gesto critico di Banti è proprio questo: la letteratura, (come la critica) non deve essere una fotografia (soprattutto nel romanzo storico), non può esserlo, ma è sempre un atto di memoria, una nota, un’interpretazione. Ed è probabilmente questa necessità di spogliare la critica che forse attirerà poi Susan Sontag in quella sua lettura originalissima in cui il doppio destino non è solo quello di Banti-Artemisia ma anche il suo, di Sontag e di Banti, in una geologia critica ancora più complessa.

Il manoscritto di Artemisia brucia o si perde sotto le macerie di quel giorno in cui i nazisti misero a ferro e a fuoco Firenze, e di colpo diventa preliminare di una scrittura futura. Artemisia non nasce solo dall’instabilità delle dinamiche narrative (che sono poi riflesso delle nostre crepe, quelle della voce narrante) ma proprio dal crollo del romanzo perduto, a voler sottolineare quanto l’edificio del romanzo sia costitutivamente instabile (contro ogni idea artificiale di interezza). In questo momento, grazie anche a questa fatalità, Artemisia, ovvero la scrittura, irrompe per davvero nelle pagine, facendone un romanzo unico. L’oggetto, proprio perché fisicamente perduto, è diventato doppiamente sfuggente, più sfuggente di qualsiasi intuizione o apparizione, ed è qui che entra ancora più prepotente e la scrittura si compie. In questo sbilanciamento, tra euforia (di scrivere) e disforia, si compongono Artemisia e la storia di Anna Banti. Qui dove l’incipit della storia (quella doppiamente perduta di Artemisia) è un frammento nel disordine dei frammenti. E la scrittura quel tratto che li associa.

Artemisia non è solo una visione, un personaggio che visita la scrittrice. È una ragazzina che fugge per i campi, irrequieta, spettinata, che ti arriva da dietro, e ti coglie di sorpresa. Corre Artemisia; eppure, si porta sempre appresso quella casa in cui il padre dipingeva, dove la pittura era la lingua delle loro conversazioni, con tutto quel suo mondo di pittori, maestri, mercanti, servi, mezzane, donne e madonne, uomini e bifolchi. Un ambiente deforme e perverso, di movimenti untuosi, sghignazzi, discorsi sporchi, trappole per portarla dall’uomo che la violenterà, un ambiente che solo vuole corromperla. Un mondo dove l’unica libertà per una vergine era il suo corpo integro. Artemisia sta lì accanto a Banti; eppure, in quel punto lontano risucchiato nel cono temporale, già colpevole, già macchiata, già corrotta: una puttanella. Dopo, dopo il processo, quando tutti l’avranno già giudicata e condannata, la sua innocenza o la sua colpa la leggerà solo negli occhi del padre; lui, Orazio resterà l’unica misura necessaria della sua integrità. E l’ingiustizia subita si ingrossa di quella subita dal padre per colpa sua. Lui, il padre, il pittore, il vero maestro, il primo da cui Artemisia ha bisogno di essere riconosciuta, è capace di vederla come pittrice – “Tu sei un pittore” – ma solo nell’attimo prima, troppo breve, prima che sia di nuovo solo la figlia femmina. Nell’attimo prima di partire, e lasciarla di nuovo sola in casa a Firenze con una serva che la sorveglia.

Artemisia non è una visione è fatta di fuoco e di cenere. È lì, sospesa tra un passato che non le avrebbe reso giustizia e un presente (narrativo) che sarebbe stata solo una finzione. Lì in quest’andirivieni caotico (come la psiche umana), lontana eppure vicinissima. Ed è proprio questa dimensione temporale insolita ed originale, scelta da Banti, a fare del suo racconto, una storia contemporanea. Assieme agli elementi metanarrativi, che vanno dal libro nel libro (il manoscritto perduto e quello che stiamo leggendo), al buco nel muro attraverso cui Artemisia spia il marito e i suoi familiari, lo stesso buco immaginario attraverso cui Banti spia Artemisia. Oltra allo sdoppiamento della voce narrante, alla cronologia regressiva (con le deformazioni che ne vengono fuori), in cui il tempo ci fa e ci disfa mentre noi lo facciamo e disfacciamo, e l’antirealismo ogni volta che Banti scende nel fondo delle emozioni ed angosce di Artemia e delle sue e l’Artemisia che viene fuori è ancora più reale proprio perché ancora più manipolata.

Tasso, l’uomo che l’ha violentata, che l’ha ingannata, sedotta, viene prosciolto dalle accuse. Artemisia è reclusa in casa. Dipinge con i battenti chiusi e poi alla luce della lucerna, i suoi modelli sono pupazzi, avanzi di cibo, ali rotte di piccione grandiose come ali d’angelo e le stoffe del suo corredo. Il padre e i fratelli trascorrono le loro giornate fuori e rientrano di notte. Dentro in quest’ambiente chiuso in penombra, al buio, c’è Artemisia; dentro è reclusa, eppure si dice: vedrete chi è Artemisia; dipinge, eppure ha deciso che stenderà la sua vendetta sulla tela; in silenzio prepara i bagagli per partire a Firenze col padre, eppure non può fare a meno di sbattere i tacchi.

In realtà Orazio vuole ancora salvarla col matrimonio. La porta con sé a Firenze per darla in moglie. Artemisia lo sa, glielo legge nella fronte corrugata e ombrosa. Si sposa con un abito nero perché non sa che quel giorno il padre ha combinato il matrimonio con un parente, perché non sa con chi sta per sposarsi. Si sposerà con Antonio, un mercante, un uomo mite, che dorme come un innocente. Con lui conoscerà l’unica unione possibile, anni dopo Firenze, quando si trasferirà a Roma per raggiungerlo: quell’unione in cui lui le aveva fatto tutti i doni e girato e rigirato la mano stupito, mente lei osservava e spiava il suo sonno, in cui si erano rispettati. Prima che lei abbandoni lui e lui lei.

Artemisia non è una visione. È una donna “sbandata” che non è all’altezza delle dame nonostante l’insolenza che mostra ed è troppo familiare con le serve. È tenera e violenta, vittoriosa e triste, impassibile e fragile. Disinvolta solo per dominare le lacrime che non bagneranno le guance, le parole che non cadranno come denti dalla bocca, le emozioni che sono arti spezzati di cui gli altri non vedranno nemmeno la polvere. Così, spavalda, si fa sostenere scompostamente sul ponte di funi (è una donna, con un ampio vestito di broccato) mentre si imbarca sul galeone che la porterà in Inghilterra. Ultimo atto. E in fondo a quella spavalderia c’è una “donnina pallida, che respirava a fatica, di cui nessuno avrebbe avuto visione e conoscenza”.

 Artemisia si muove in una continuità (anche narrativa) di donna a donna, di parola a parola, non tra i profumi di una femminilità da copertina, ma in un reale “tanfo di acido sudor femminile”. Una continuità con cui Artemisia fa la guerra e si riconcilia. Qui le opere di Artemisia si fanno scene, si sente la trementina, e le sue Lucrezia e Giuditta si fanno di carne, curiose, interessate, sciocche, intelligenti, segrete. Tutte quelle dame che si rifugiavano dalla pittrice per imparare a dipingere. E l’assediavano, mentre lei preparava l’Oloferne, “a volte miserella, quasi schiacciata dall’opera; a volte maestosa, arditissima”. Tutte in qualche modo sotterraneo in cerca di vendetta. Quando parte per Napoli, incinta di Porziella, quel filo si riallaccia alle serve, comari e sibille, che covano con lei quella gravidanza, tra chiacchere umili e senza malizia, serie e silenziose nell’atto di prendere la nascitura. Fino ad Annella De Rosa, la giovane pittrice napoletana, uccisa dal marito, che Artemisia sta ritraendo in quel suo stanzone alla corte d’Inghilterra dove il giorno dura troppo poco per dipingere. “Ritratto o no, una donna che dipinge nel milleseicentoquaranta è un atto di coraggio, vale per Annella e per altre cento almeno fino ad oggi “Vale anche per te”.

Dopo Oloferne, la vendetta è consumata, la rabbia si acquieta, il desiderio di fama appagato, e “gli uomini ritornavano uomini”: Banti immagina una specie di indulgenza per gli uomini, che in fondo sono anche loro dei poveretti “travagliati di arroganza e di autorità, costretti da millenni a comandare e a cogliere funghi velenosi, queste donne che fingono di dormire al loro fianco” piene di recriminazioni, voglie nascoste, segreti progetti. Artemisia è diventata una donna “proprio quello che una fanciulla non ha voglia di diventare”, della ripugnanza per quei servi e personaggi che da ragazzina l’hanno raggirata resta solo la mancanza di pietà.

Artemisia rivive in una dimensione temporale che è fatta del rapporto tra Banti e la pittrice, tra voci narranti e narrate. Una tensione tra autore e personaggio che è continuamente svelata e combattiva. Artemisia ruba la voce a Banti, e, quando non è Artemisia a sorprenderla per le spalle, è Banti a trascinarla per i capelli nei luoghi in cui visse. Artemisia le rovescia sul foglio un’intera boccetta d’inchiostro, ma poi si allontana, lascia Banti per apparire “nella luce remota di tre secoli fa”. E in quella distanza brutale l’intero racconto sembra così arbitrario. E in questa distanza brutale, le due donne sono come due oggetti entrambi abbandonati nell’angolo di una tela. Una continua mise en abîme in cui Artemisia vuole cancellare quel ritratto non somigliante, e Banti questo suo libro-dipinto di Artemisia. E sulla pennellata delle due donne si congiungono le loro mani.

Artemisia attraversa le sue età: la fanciullezza in cui la violenza è raccontata tutta in quel “fece anche questa volta quello che voleva”, in quel “dopo, tutte le volte facevo sangue”, attraverso brevi immagini che hanno fretta di essere cancellate; la giovinezza a Roma e a Napoli, con una fama sempre discussa; e la maturità (a quarant’anni Artemisia si sente già vecchia) quando salpa per la corte di Londra, per svuotarsi come una conchiglia. E porta con sé  quel grido che si condensa e si scioglie:  “si vedrà cosa sa fare la Gentileschi”. Quel grido non la fa indietreggiare, calibra la forza che imprime al pennello, da volume a quelle donne che dipinge, sempre più maestose, affonda le ombre. La fa trionfare all’accademia (insolente contro le insolenze dei cavalieri e ciarlatani) e le permette di vedersi sempre in controluce, di vedere quanto sia goffa in quel mondo che gli uomini hanno creato “a loro uso e consumo”. Quel mondo in cui lei voleva solo dipingere ma ha dovuto forse vendicarsi di essere donna.

Silvia Acierno