Ero all’ultima pagina e non lo sapevo. Ho proseguito cercando lo sviluppo della storia, e ho trovato i ringraziamenti dell’autore. Sono tornata indietro pensando di aver saltato qualcosa, sbagliato a girare pagine, ho riletto l’ultimo capitolo, ho proseguito cercando lo sviluppo della storia, e ho trovato la fine.

Ho pensato due cose: che ero comunque disposta ad andare avanti, a cercare che cosa sarebbe successo al Ragazzo (maiuscola mia, nel libro è, semplicemente, “il ragazzo”), a scoprire il suo futuro, se sarebbe stato quello voluto, quello immaginato, quello disposto dal destino o chissà che altro ancora; che, pur insoddisfatta, potevo comunque accontentarmi di quel brusco troncare, perché probabilmente non molto altro si sarebbe aggiunto a una storia tutto sommato semplicissima.

Paradiso e inferno di Jón Kalman Stefánsson

Ci sono, infatti, dei pescatori islandesi che sui loro legni affrontano il mare tempestoso di quelle parti; ci sono brevi ritratti di personaggi che si fanno compagnia e lavorano su barche di cui ti viene suggerita la fragilità a ogni onda; e personaggi dei quali vediamo uno scorcio di vita e poi più nulla; ci sono villaggi costieri che sembrano fermi a un passato remoto difficile da identificare, perché i riferimenti temporali, cronologici, sono veramente lievi, e ci si deve basare su quanto viene descritto o suggerito della vita quotidiana, e anche questo non basta; ci sono tragedie personali più o meno grandi, una su tutte, raccontata da una voce (un “noi” collettivo) che passa, sfiora, tocca e abbandona un luogo dopo l’altro, una persona dopo l’altra, e ritorna poi su sé stessa a raccontare del Ragazzo.

Paradiso e inferno di Jón Kalman Stefánsson si sviluppa nella prima parte in mare, nella seconda sulle terre aspre dell’Islanda: in entrambe, pochi tocchi a mostrare donne che sembrano sapere, e guardano perciò quello che accade in maniera più lucida e forte, e anche, nella seconda parte, ironica e saggia.

Così, alla fine, il libro mi è piaciuto, nonostante la lentezza a volte esasperante, soprattutto nella prima parte; quel flusso di pensieri in cui non accade niente e le riflessioni si attorcigliano su sé stesse nella testa di persone che vivono in condizioni minime, elementari, e tra le quali, pure, brillano considerazioni che si desidererebbe annotare e ricordare. Mi sono piaciuti i temi affrontati mentre si snodava questa non-storia fatta di: andare a pesca, vivere, morire, tornare, amare, leggere; mi è piaciuto il coraggio con il quale Stefánsson si disinteressa di ciò che va per la maggiore e che anch’io cercavo in queste pagine: una trama precisa, degli accadimenti che si rincorrono e che qui lasciano il passo a un andamento lento di vita e di pensiero. E, una volta adattatami al libro, mi è piaciuta la scrittura, che ricorda il passato di poeta dell’autore, anche se a volte preme un po’ troppo il pedale del linguaggio lirico, ricco di anafore, pittoresco, in netto contrasto con la durezza del paesaggio e del quotidiano dei pescatori.

L’avrei letto se non fossi stata costretta? Probabilmente no. Sono contenta, alla fine, di averlo letto? Sì. Avrei comunque voluto sapere qualcosa di più del Ragazzo? Sì, ma scopro che c’è un seguito (La tristezza degli angeli e Il cuore dell’uomo).

Che cosa mi è piaciuto di più? Il verso dal Paradiso Perduto citato più volte (nulla mi è delizia, tranne te) e pietra d’inciampo per un personaggio che prometteva una definizione a tutto tondo e al quale è stato facile affezionarsi.

Annalisa Ferrari