Voi ci credete al potere trasformativo delle parole? Io sì. Ho sempre pensato che le parole siano pozzi magici da cui tirare fuori il continuo mutamento dei nostri mondi. E non ho potuto fare a meno di notare come, in questi ultimi anni, l’attenzione al linguaggio – inteso come strumento utile a migliorare la realtà quotidiana – sia cresciuta. Dal bullismo alla questione di genere, fino a una definizione sempre più allargata di diritti civili, la parola è diventata una delle chiavi di volta potenti per fare germogliare una mentalità collettiva nuova, più inclusiva. Sono ormai tanti i casi che osservo in questa direzione.

Per esempio, il bell’articolo di Vera Gheno, sociolinguista e traduttrice, uscito il 24 marzo su Il Post – partendo dalla storia della petizione su Change.org avviata per modificare la definizione di “donna” contenuta nell’Oxford English Dictionary – riflette sul ruolo sociale dei vocabolari. Senza togliere il piacere della lettura dell’intero articolo, riporto qui un estratto che trovo significativo:

“Il dizionario per me deve continuare a fotografare la nostra lingua, anche nella sua parte schifosa, volgare, sconcia, riprovevole, maschilista, gretta, xenofoba, omofoba eccetera. L’importante – e su questo fronte si può senz’altro migliorare – è che i termini e le accezioni schifose, volgari, sconce, riprovevoli, maschiliste, grette, xenofobe, omofobe eccetera vengano chiaramente indicate, in modo che chi le usa possa avere piena consapevolezza del loro significato. Nella speranza, peraltro, che la nostra società si evolva al punto di rendere molti di questi usi obsoleti (cosa di cui i dizionari terranno ovviamente conto)”.

Condivido la visione del vocabolario come custode del passato, che ci ricorda da dove arriviamo, e aggiungo che lo considero anche un cannocchiale sul futuro, che anticipa come possiamo cambiare in meglio la realtà/società in cui viviamo, adoperando parole nuove o non adoperandone più delle altre.

La parola descrive la realtà esistente, ma può anche anticiparne una futura, trasformandola in meglio.

Un caso che trovo esemplificativo in questo senso è quello del termine disforia di genere, entrato in uso nel 2018 per indicare quella condizione esistenziale in cui la persona si sente in un genere diverso da quello biologico. Maddalena Mosconi, responsabile dell’Area Minori nel Servizio per l’Adeguamento tra Identità Fisica e Identità Psichica (SAIFIP) presso l’Azienda Ospedaliera San Camillo Forlanini di Roma dal 2005, mi spiega che questo termine rappresenta un grande cambiamento e una grande conquista.

“Inizialmente negli anni Cinquanta questa condizione si indicava con il termine transessualismo. Ma siccome è fuorviante e crea confusione, nel tempo nei manuali diagnostici dei disordini mentali è stato abbandonato e sostituito con il termine disturbo dell’identità di genere, a sua volta criticato dalle associazioni perché etichetta erroneamente la condizione come malattia mentale: non si tratta di una condizione psichiatrica, la percezione del genere fa parte della variabilità umana. Per questo si è giunti nel 2018 alla definizione di disforia, che pone l’accento sul disagio del genere percepito”. L’evoluzione della parola che racconta questa condizione non è ancora conclusa: “a gennaio 2022 – prosegue Maddalena – nel prossimo ICD-11, il manuale diagnostico usato dall’OMS, verrà ufficializzato il termine incongruenza di genere e verrà inserito in una categoria legata agli aspetti della sessualità”.

Uno degli effetti positivi di questo percorso linguistico è, per esempio, quello di aver rassicurato le famiglie e i soggetti interessati, perché ha eliminato la percezione/paura della malattia mentale. “Ora stiamo facendo un lavoro con le scuole per evitare che sia necessaria la consegna della diagnosi per procedere al cambio di nome nel registro, per esempio”. Il processo trasformativo è stato biunivoco, si è instaurato un circolo virtuoso per cui i cambiamenti sociali nel tempo hanno portato a un uso di termini diversi, che a loro volta hanno nutrito una percezione sempre meno discriminante di questa condizione. Sottolinea Maddalena: “oggi si parla molto di più di disforia di genere, è più accettata dalla società, con la conseguenza che è sempre più precoce l’età in cui i soggetti si rivolgono a noi, si sentono più in diritto, c’è meno vergogna”.

Sono possibili ancora passi avanti? “Siamo sempre in evoluzione – risponde Maddalena – ci sono alcuni che stanno lottando per togliere questa condizione dai manuali, conquista che al momento non si concilia con il problema delle assicurazioni sanitarie. Stiamo facendo grandi passi avanti nelle scuole: oggi si presentano da noi bambini di prima elementare con il genere percepito che hanno già cambiato il nome sul registro e non ci fermeremo qui”.

La testimonianza di Maddalena evidenzia il ruolo fondamentale della scuola nella trasmissione di cultura, soprattutto quando i temi sono innovativi e legati a una realtà dinamica, futura. La scuola è il miglior terreno per seminare il cambiamento anche attraverso l’uso corretto delle parole ed è su questa convinzione che ha lavorato Marzia Camarda – imprenditrice culturale, editor, saggista, esperta di strategia, innovazione, didattica e gender balance – per presentare una proposta di legge che accompagni le case editrici al processo di adeguamento dei testi scolastici affinché si usi un linguaggio inclusivo e si introduca un maggiore riconoscimento del contributo femminile nelle varie discipline. “Ciò che non rappresenti non esiste: questo è un principio fondamentale della linguistica. Noi leggiamo la realtà attraverso il filtro del linguaggio e crediamo che la realtà sia quella descritta dalle parole, mentre è molto più complessa: per esempio spesso le parole definiscono per antitesi (uomo/donna, giovane/vecchio), semplificando arbitrariamente la realtà, che è molto più fluida. Ne consegue che le persone che non si riconoscono in categorie troppo schematiche lottano affinché anche la loro realtà venga accettata e di conseguenza nominata. Il primo passo di questo processo è appunto il riconoscimento attraverso la lingua: se continuiamo a dimenticare di rappresentare una fetta di popolazione è come se ne negassimo l’esistenza”. La scommessa della legge proposta da Marzia è proprio finalizzata ad abbandonare la rappresentazione della realtà attraverso stereotipi ormai obsoleti. Un obiettivo che trova resistenze anche da parte di insospettabili. “La resistenza al pregiudizio è molto trasversale, corrisponde al modello educativo che si è ricevuto e a un’identità a volte fragile, che si teme di mettere in discussione. Per esempio, un uomo che riconosce con serenità il contributo della donna nella società non ha difficoltà a usare i termini declinati al femminile come ingegnera, architetta. Ci sono invece donne che hanno problemi a definirsi con i termini al femminile perché li considerano meno autorevoli, dando giustificazioni come ‘è brutto’, oppure ‘non serve’, preferendo di fatto nascondere di essere donne pur di avere accesso a una parte del potere e dell’autorità attribuita alle professioni maschili. Questa resistenza dipende dalla convinzione spesso inconscia di avere meno autorevolezza di un uomo: bisogna quindi ‘assurgere al suo livello’ attraverso un mascheramento, una negazione anche delle semplici regole della declinazione della lingua italiana. Per misurare quanto l’argomento sia pretestuoso basta rovesciarlo e osservare la reazione di un uomo di fronte all’idea di farsi chiamare per esempio dottoressa per capire quanto la declinazione del nome su un solo genere, che viene passata come neutra, in realtà non lo sia affatto”. Per questo il lavoro nelle scuole, e non solo, diventa prezioso. “Etichettare nel modo giusto è fondamentale” prosegue Marzia. “Tuttavia non basta: se non si effettua un lavoro in profondità rispetto ai canoni, tutto si riduce a una sterile questione di adeguamento formale che non mette realmente in discussione i modelli”.

Confidare nel potere trasformativo delle parole significa portare tanta pazienza, perché si tratta di un processo lento e graduale. Un processo che però contiene in sé la stessa forza della goccia che scava la roccia: con delicatezza, con costanza, la parola plasma e smussa per descrivere/creare una realtà sempre più fluida.

Daniela Giambrone