Non mi piace scrivere. Scrivere mi fa sentire troppo dolore. Per esprimermi, fin da piccola, ho deciso di ballare. Quando ballo, sono felice. Che per me significa non pensare alla morte. Se ballo, sono viva. Se ballo, sento solo il mio corpo: le braccia allungate, il collo dritto, i muscoli delle cosce tesi, il collo del piede flesso, la schiena forte, le anche aperte. La mente è concentrata, le mie paure sono svanite. L’angoscia non può sopravanzare.

Pina Bausch non l’ho mai conosciuta. Non l’ho mai vista danzare dal vivo. Avrei potuto in un lontanissimo 2006, i biglietti li avevo comprati, anche quelli del volo, ma per un problema di lavoro non presi più l’aereo per Bruxelles. Era in scena Café Müllerun’opera tra le più importanti e rappresentative della danza contemporanea del secondo NovecentoLei aveva 66 anni, sarebbe morta tre anni dopo.

Torniamo all’inizio. Siamo nella primavera del 1978, è il 20 maggio quando Pina Bausch – dal 1973 direttrice del Tanztheater Wuppertal Pina Bausch (è lei a ribattezzare così il corpo di ballo di Wuppertal)  – presenta sul palcoscenico della cittadina della Germania occidentale Café Müller.

I danzatori si muovono in uno spazio in penombra occupato da qualche sedia e tavolino, la scena è disposta in maniera disordinata. Sul fondo, una porta girevole che sembra un vortice nel quale i danzatori vengono risucchiati prima di entrare in scena. Tre donne e tre uomini, il colore bianco delle sottovesti e il nero dei completi eleganti maschili dominano la scena, facendo stagliare i corpi in movimento nel disordine del bar. 

Stiamo assistendo a uno sogno, forse, dove sembra impossibile incontrarsi e comunicare. Fra silenzi profondi e contrappunti musicali da “Dido and Æneas” di Henry Purcell, stiamo osservando corpi in perenne ricerca del contatto, dell’amore. Dolenti, instabili, precari. Stiamo guardando oltre la pelle dei danzatori, affondiamo nei loro ricordi, nelle loro memorie. Corpi imperfetti. La danza supera il balletto e diventa vita.

Pina Bausch, Malou Airaudo e Meryl Tankard, la danzatrice con i capelli rossi. Dominique Mercy, Jan Minarik. E Rolf Borzik, l’uomo con gli occhiali, destinato a spostare continuamente le sedie che intralciano i percorsi delle danzatrici che si muovono, come sonnambule, a occhi chiusi. È la prima volta che sul palco di una danza non capiamo se stiamo guardando una persona o un personaggio, quel gesto ripetuto di togliere di corsa le sedie è troppo spontaneo e comune e umano: come può essere parte della coreografia? Ma d’altronde, come può non esserne parte? I corpi ci vengono mostrati per quello che sono: piedi nudi, capelli, pelle, rughe, non sono corpi belli, non aspirano a esserlo, sono umani.

Tra quei corpi, c’è anche quello di Pina Bausch, in uno dei pochi ruoli che creò per sé stessa. In un’impalpabile sottoveste bianca, una donna avanza a occhi chiusi, a piccoli passi, incerta, le braccia magrissime protese in avanti che spostano leggermente il baricentro del corpo; i palmi verso l’alto, il volto pallido, le ossa visibili sullo sterno, le braccia che si aprono come ali e volteggiano, cercano di accarezzarsi il volto ma poi si allontanano e fendono l’aria. Il suo corpo urta contro i muri, contro le sedie. La donna poi si ferma improvvisamente, la mano destra afferra leggermente il braccio sinistro, che poi viene sospinto di lato e in alto, in un movimento continuo, e così assistiamo a uno dei più bei port de bras della storia della danza. Poi riprende il movimento. Sola.

Questo ricordiamo di Pina Bausch. Un corpo muto e cieco che avanza tra le sedie, in cerca dell’altro. Nel frattempo, intorno a lei, l’uomo con gli occhiali sposta le sedie per non farla inciampare, un altro correndo cade, una donna con un impermeabile scuro si agita sui tacchi percorrendo il palco, forse insegue qualcuno, forse si nasconde, un danzatore solleva una donna per pochi instanti e poi si separano. In uno dei momenti più celebri dello spettacolo due danzatori, un uomo e una donna, tentano invano di restare abbracciati. C’è un altro uomo che cerca di riportare la coppia nella posizione di partenza, uno di fronte all’altra, ma la donna inesorabilmente cade a terra, scivolandogli via dalle braccia. Tutti si stanno cercando, tutti si sfuggono, in quell’incolmabile desiderio di esseri amati.

Quello spettacolo alla fine lo vidi anni dopo, nel 2013, senza di lei, al San Carlo di Napoli. 

Oramai conoscevo molto bene quel senso di solitudine, struggimento e assenza che la pièce aveva messo in scena, ma sapevo anche che quella era la storia di una ricerca – quella che facciamo costantemente – per portare i corpi a comunicare tra loro prima delle parole: per dire il desiderio di essere visti, trovati, amati.

Sono cresciuta leggendo di lei, cercando nei teatri le sue coreografie, studiando nei documentari il suo rivoluzionario modo di concepire il corpo in movimento e dunque la danza.

Vado in analisi da dodici anni, sono una danzatrice da quando ne ho tre, anche se non ho mai provato a farlo da professionista. Non ho mai saputo smettere. Con il mio corpo ho un rapporto che prevede una negoziazione continua, che senza la danza diventa impossibile. Vengo sopraffatta dalla tensione. Da quasi due anni con la mia analista rifletto sul rapporto tra la mente e il corpo, su come alcune emozioni influenzino il mio stato fisico alterandone alcune funzioni. Il corpo ha sempre qualcosa da dire. Non puoi silenziarlo troppo a lungo. Pina Bausch lo sapeva.

Ripenso spesso a lei in questo periodo, al suo Tanztheater. Alla sua capacità di far interagire la nostra vita psichica con il movimento. La danza è una lingua, il gesto è il suo segno. Per preparare i suoi Stücke, Pina Bausch chiedeva ai danzatori di trasformare i ricordi, le emozioni, le sensazioni in movimento. Poneva loro delle domande, a volte giocose a volte difficili; consegnava descrizioni di vita quotidiana o scene surreali e i performer dovevano “rispondere” con movimenti, parole o entrambi i linguaggi, un gesto, una breve frase o una lunga sequenza fisica. A volte, Bausch chiedeva ai suoi danzatori di unire alcune “risposte” o di mettere in relazione il proprio lavoro con quelle dei compagni per formare le singole scene. È così che i danzatori diventano veri e propri creatori, rompendo con la tradizione: da semplici esecutori, assumono una parte fondamentale del lavoro ideativo. Sono loro che, anche a partire dagli stimoli della coreografa, concepiscono le partiture di movimento e verbali e le relazioni di tali sequenze con quelle dei compagni per formare le singole scene. Alla fine era lei a fare una rigida selezione delle loro reazioni. Quindi, si iniziava a lavorare su quelli scelti, e la pulizia veniva fatta insieme a chi aveva creato la sequenza.

Pina Bausch faceva domande che potevano aprire abissi, gli interpreti a volte erano costretti a scavare nella memoria, a soffrire, a tornare bambini, a tuffarsi in un ricordo e riaffiorare con il corpo. Era quasi una forma di terapia collettiva e di autocoscienza. Non so se Pina Bausch era interessata a un’indagine psicologica dei suoi interpreti, quel che è certo è che affondare nell’io dei danzatori era la base per costruire i suoi lavori e la sua poetica.

Lo spettacolo veniva solo dopo l’indagine. Se sono i nostri corpi a parlare, nulla potrà essere ingannevole e falso. Spesso rimaneva poco delle forme gestuali e verbali iniziali, lo spettacolo era molto diverso dalle prove iniziali, rimaneva poco della partitura definitiva del singolo o della coppia nell’incontro con l’altro e con la musica. Quando la coreografia si chiudeva e lo spettacolo era pronto per andare in scena, nulla era lasciato al caso o all’improvvisazione. Tutti i movimenti erano fissati nei minimi dettagli. Ma il punto di partenza erano quelle domande, cui dovevano rispondere i corpi.

Questo breve racconto su di lei e sul suo lavoro mi ha fatto scrivere e scavare nella mia memoria di danzatrice classica, di ragazzina disciplinata, integerrima nello studio, alla ricerca del movimento perfetto, della grazia e dell’armonia del gesto. La serietà delle espressioni che emergono nelle foto che ritraggono Pina Bausch mi riportano indietro nel tempo: rivedo Edith alla sbarra, la mia insegnante. Mi riportano al silenzio dell’aula, agli chignon tirati stretti. Guardo fuori dalle vetrate, e c’è Latina. La mia provincia soffocante.

Ero felice in quella stanza poco illuminata. Le tavole di legno a terra, il pianoforte nero contro il muro, le mie compagne riflesse nello specchio. Eravamo belle in quella concentrazione spensierata.

Lo sono ancora oggi, felice dopo trent’anni, quando mi vedo riflessa con le mani poggiate alla sbarra. Non c’è più il piano, non c’è più Latina. Ci sono le rughe. Ci sono i ricordi. Io non sono una danzatrice, e ancora non mi piace scrivere.

Francesca Mancini

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