Nel corso della mia vita di lettrice, non ho mai avuto la fortuna di credere al valore terapeutico della poesia. La poesia ha su di me lo stesso potere della filosofia: genera crisi e dubbi, spesso inquietudini; alcune poesie hanno aperto spiragli di luce, altre hanno contribuito ad accrescere in me la consapevolezza di quella malattia che, per dirla con Svevo, “inquina la vita alle radici”. Piuttosto, credo al valore conoscitivo della poesia, alla sua funzione di strumento di ricerca dell’autenticità delle cose. Perciò, qualche volta mi sono lasciata convincere dall’immagine adoperata da Lucrezio nel proemio del De rerum natura: il poeta è come il buon medico, che cosparge di miele (la bellezza) il cucchiaio con cui somministra l’amara medicina (la verità) al paziente.

Eppure non posso negare che il libro di Graziella Di Grezia, Quaranta (Graus Edizioni, Napoli 2022) abbia avuto su di me un effetto lenitivo, rigenerante. Leggere questo libello, tanto breve quanto intenso, è come ascoltare con gli occhi chiusi Chopin in un pomeriggio di pioggia: sentire, prepotente, la vita tremare, pur dentro la malinconia.

L’autrice, non a caso, è medico e pianista. Entrambe le esperienze traggono forza dalle dimensioni dello sguardo e dell’udito; entrambe vivono della cura di qualcosa di profondo, spesso invisibile, che si annida nel corpo e nell’anima. Entrambe le esperienze, come la poesia, generano bellezza e vita, anche nell’oscurità – o forse proprio grazie ad essa.

È questa l’impressione più forte che Quaranta lascia: il senso del recupero di una speranza, seppur provvisoria, nelle crisi del quotidiano; il valore della ricostruzione di una vita “vera”, denudata di ogni maschera, anche a partire dalle macerie; l’idea del possibile. Si tratta di fugaci, ma dense, illuminazioni, dalla velocità epifanica; ad esse corrispondono forme brevi e concise, le cui chiuse, come i destini, spesso sconvolgono gli incipit, con la forza dell’aprosdoketon, dell’inaspettato, già caro alla poesia epigrammatica greca.

La raccolta, come afferma l’autrice stessa nella nota introduttiva, trae origine dal desiderio di celebrare i suoi primi quarant’anni, un punto di svolta. Ma questo è solo il pretesto per accompagnare il lettore in un carosello di quaranta immagini che, in un ritmo serrato nel quale anche gli spazi bianchi acquistano valore, lo catapultano nella complessità delle relazioni, della vita, delle sue distonie e dei suoi accordi intonati.

Non si tratta solo di “indorare la pillola” con la dolcezza dell’arte: dal fondo di tutto il volume emerge l’istanza della libertà da ogni forma di schiavitù imposta all’io dalla società o da se stesso. Prevalgono, per questo motivo, immagini che rinviano al campo semantico della prigionia e della liberazione, dell’attesa e del riscatto: stanze libere, finestre aperte, tetti divelti sul cielo, porte che si aprono o che, al contrario, restano irrimediabilmente chiuse; lo strappo nel buio, che diviene strumento per far entrare la luce; la pioggia, che qui, anziché ricordare il sentimento di spleen baudelairiano, si muta in segno di purificazione (Ventisette: Stasera vorrei che piovesse. / Per uscire al caldo / bagnato e / togliermi di dosso / l’odore del terrore). Forte è anche il senso del dolore, quasi fisico, l’algos dei Greci, che a volte può investire anche l’anima, inondandola di nost-algia.

Non mancano i consigli perentori del medico: curarsi con l’arte (Quattordici: Curatevi d’arte, / medicatevi / di versi. / I medici che / vi curano, /si curano / con l’arte); “predicare l’omelia dell’amore”; “sfilare gli strati” di sé stessi e leggerli, uno a uno; rendere proprio il posto in cui ci si ritrova, per caso o per scelta; curare, infine, la malattia con l’amore. E vivere a “luci accese” e senza intermittenza, lì dove le parole possono diventare veri e propri medicamenta, per sé stessi e per gli altri.

Otto

Abitavo
in una vita
con un soffitto
di ghiaccio.
Si è sciolto
solo per amore
del cielo.

*

Quindici

Ero chiuso
in un pensiero.
Mi aprii in un
desiderio.
Mi spensi
In una delusione.
Deludetevi subito
per avere
la strada libera.

*

Trentanove

Vivere a luci
Accese
Non alternate.
A sentimenti
Intermittenti.
Ad amori fulminati.
Vivere come
a mezzogiorno,
d’estate,
a sedic’anni.

Maria Consiglia Alvino