“La fiaba è il luogo della nostra nascita”

Alain

Poi succede che incontri qualcuno e quella storia d’amore, sì d’amore, ti risucchia. E allora le città separate da oceani e voli intercontinentali non sono più ostacoli, ma aria, solo aria che inspiri ed espiri assieme all’amore; tappe intime che non possono più essere profanate da nessuno. E il tempo non ha più senso, o non ha più durata come si dice nell’epigrafe. E allora quattro giorni o sempre.

Quando Vittoria, giovanissima expat, incontra Elettra a New York, nel week-end per il matrimonio di un’amica comune, non ce ne accorgiamo quasi che quella ragazza in tubino celeste in seconda fila è già entrata negli occhi (e nel corpo) di Vittoria che la cercano tra la folla del Pacha bar e la perdono di nuovo. Non ce ne accorgiamo quasi ma per Vittoria tutto si è già compiuto, anche l’addio. In questo caso il risucchio ha la forma dell’ovale di uno specchio, quello famoso di Alice in Wonderland (Trough the Looking Glass), dove tutto è dove non doveva essere, straniante eppure così vero: “finalmente sono solo io, Vittoria”. “Oltre lo specchio” è infatti una specie di codice, una formula magica per le protagoniste del romanzo. Alice, che poi è una storia dove il tempo scorre in modi alternativi, e che forse resta nel fondo un invito a tuffarsi nelle avventure, anche per territori fuori dalle mappe, dove la società e le sue convenzioni sono solo un tavolo da gioco, di domande giuste e risposte troppo logiche. Vittoria, del resto, è impulsiva e curiosa come Alice e come Alice (se Camille Paglia, nella sua introduzione a quello che resta il suo libro preferito, ha ragione) è un Bad Ass, in Converse però. Elettra, la ragazza del tubino scrive favole per bambini. E questa è una specie di favola, con i cuori, anche negli scrigni, i sacrifici e la mancanza di innocenza, soprattutto, che grattando (come fa Anne Sexton) è la sostanza di quelle favole con cui siamo cresciuti. Ma soprattutto dello specchio -che è anche l’oblò di un aereo da cui ci capita di guardare la vita, sotto, sopra-, restano i frantumi, “i pezzi frantumati d’amore e di morte”, e le lacrime, e le parole che non contano, che sono piuttosto olfattive, sonore e visive. Tutto quello che raccoglierà la figlia di Elettra, Alice appunto, la protagonista dell’ultima parte del romanzo di Sabrina Gabriele. Ma anche le scaglie di un amore che resta conficcato.

“Era regina e madre e sposa, era l’assoluto più fragile e il cuore tutto aperto, senza filtri. Avrebbe potuto uccidere con un soffio”.

Il cuore aperto è il tessuto di questa storia che corre. O solo spasima e si contrare come le nostre vite in una ellissi che tutto sommato è meravigliosa.

Il cuore che figura sulla copertina; il cuore che Vittoria ed Elettra si passano come una lettera, un braccialetto, uno slip dopo il sesso, o un anello che è una specie di fede. È un cuore moderno, molto pop, in fiamme però come da iconografia cristiana offerto da una delicata mano rinascimentale. Un cuore che pompa sangue, che subordina la mente, si insinua nella mente di Elettra e di Vittoria come una spia (non una pulce né un verme in una mela). E poi si rimpicciolisce perché così vuole Elettra, perché l’aveva detto sin dall’inizio, sin da Manhattan, prima di salire sul taxi: “non posso”. Si rimpicciolisce senza diminuire però solo per trovare comunque spazio in una vita che ha già deciso le sue priorità. Quel cuore che sta tra le intermittenze che non sono “del cuore” (come per Proust) ma stanno fuori, si intromettono o vorrebbero intromettersi. Fuori della stanza dell’albergo di Trieste con la carta da parati color pastello. Fuori dove può succedere anche l’apocalisse.

Che poi l’amore è quella cosa stretta tra la speranza e il dolore; la speranza di Vittoria di rivedere Elettra, che quella proposta di matrimonio non sia un rifiuto, e il dolore, quello dell’ultimo incontro, dell’ultima lettera, e della fine che incalza. L’amore che viene sempre prima e sempre dopo. Love—is anterior to Life—Posterior—to Death—, scriveva Dickinson, conficcando le parole tra le immagini. “E l’amore e la morte, come le vergini del melograno, si perdevano in chiacchiere. Padrone e regine”, conclude Sabrina Gabriele.

Un cuore dickinsoniano vulnerabile ed espiantato. “Il mio cuore su un piattino Per stuzzicarle l’appetito Come un frutto di bosco o un pasticcino Ovvero un’albicocca” (“My Heart upon a little Plate Her Palate to delight A Berry or a Bun, would be, Might it an Apricot!”), recita sempre Dickinson.

Scrive Camille Paglia a proposito della poetessa: “Tenere il cuore in mano sarebbe stato troppo convenzionale per il nostro poeta, che preferisce schiaffarlo su un piattino da frutta e spedirlo in strada come una pizza a domicilio”.  Il cuore offerto come gli occhi di santa Lucia è uno tra i multipli elementi di un catalogo sadomasochista di sevizie, ferite di punta e di taglio, il corpo un portaspilli, trafitture, infilzamenti e fratture, cuore, cervello, polmoni. Perché Paglia con il suo anticonformismo (e sensazionalismo) è stata la prima a non credere ad una Emily Dickinson sentimentale ed innocente e a restituircela ninfa spietata, con tutto il suo sadomasochismo decadente e la sua assoluta e complessa modernità. Vittoria dona il suo cuore ad Elettra. Ed in cambio Elettra porterà al dito l’anello regalatole da Vittoria che a sua volta in un opposto gesto di antropomorfizzazione è organo del corpo, un organo vitale. “Sono cresciuta pensando che fosse parte del suo corpo, al pari degli occhi o di un piede, ne avvertivo la sacralità pari a quella di un organo vitale, qualcosa da proteggere e di cui essere gelosa”. E l’immagine delle due amanti che si scambiano passione e orgasmi si sovrappone, restaurandola alla iconografia cattolica, alla Vergine del melograno di Botticelli, in cui la Madonna e il bambino si scambiano la melagrana, proprio quel Botticelli che con la sua Venere non celebra la femminilità ma, come ha osservato Paglia rivoluzionando ogni prospettiva, cancella, sopprime la vischiosità femminile sotto quella sua decorosa nudità. Elettra e Vittoria sono le vergini della melagrana, meravigliosamente scomposte e umide.

Cosa resta dopo quest’espianto, dopo il cuore, con tutto quello che conteneva, anche autoerotismo, morbosità, rinuncia, abbandono orgasmico? Resta la scrittura che può forzare l’ineluttabilità della morte; se la rinuncia e poi la morte appongono sigilli su sigilli, con questo romanzo Gabriele invece apre la lettera rimasta chiusa nel cassetto di Elettra, la busta sigillata: “Era già finita … “. La scrittura, che come quel cuore sulla copertina continua a simboleggiare, è anche il gesto di mettersi a nudo, di toccare le proprie emozioni, che è quello che prova a fare l’autrice, dando forma a se stessa e alla propria sessualità.

Intervistato da Chiara Tagliaferri e Maria Luisa Frisa, nel podcast Sailor, Alessandro Michele ritorna alla sfilata di Gucci in cui presentò una minaudière luminosa a forma di cuore. Quel piccolo oggetto morbosissimo che la modella lanciava in aria è “tutto quello che mi è stato donato, una restituzione”. Ed anche questo romanzo di Gabriele, come quel cuore aperto, è un gesto di restituzione “delle parole sempre troppo sfacciate, delle loro vite così poco attente, così brevi, così spietate”.

Silvia Acierno