“It is the author naked which the modern audience demands”
Susan Sontag

Ci sono delle parole e delle emozioni che non si riescono a dire o che diciamo sempre nello stesso modo e invece quanto vorremmo dirle diversamente. Allora pensiamo che sia un problema della nostra lingua materna che conteneva tutte le possibilità, ma finisce sempre per strutturarle e limitarle. Allora ci illudiamo che cambiando paese ed imparando una nuova lingua quelle parole finalmente potranno dirsi. E a volte con quella nuova lingua, dopo lo spaesamento iniziale, abbiamo l’impressione che possiamo raccontarci davvero in modo inedito, con una specie di ebbrezza e quel desiderio così umano e a tratti ottuso di ricominciare tutto daccapo. Alcuni arrivano proprio a cancellarla quella lingua madre, non solo a metterla a tacere nell’angolino della seconda scelta. Alcuni (non gli immigrati italiani di una vota, né quelli di oggi, che dovevano e devono solo integrarsi a tutti i costi) arrivano a rivolgersi ai loro figli in una lingua neutra, altra, francese (la erre moscia è sempre molto chic) o inglese (bisogna cominciare da subito). Con fluidità (parola oramai passpartout) e una sottile vena di onnipotenza, credono di essere i protagonisti di una nuova frontiera linguistica molto posh, bilinguismo, trilinguismo, e non vedono che è sempre una questione di grembo materno. Ma poi, piano piano, arriva (forse non a tutti) la nostalgia della lingua materna, una specie di stanchezza e tanta confusione. E allora, dopo aver fatto il giro, arrivi alla conclusione che quelle parole che non potevi dire nella “tua” lingua non riuscirai a dirle in nessun’altra lingua, che prima o poi bisogna fare i conti anche con quelle parole che non venivano fuori o venivano fuori malamente. E per fare i conti bisogna tornare lì da dove vieni, da dove sei partita. “Perché c’è da tornare indietro”, scrive Caterina Venturini.

È un po’ quello che succede a Carla, la protagonista e voce narrante di Quchi, anche se lei, in un certo senso, lo sa fin dall’inizio che è inutile parlare l’altra lingua, anzi si rifiuta con una certa perseveranza di farlo, perché poi alla fine, dopo tutto il giro, sei di nuovo al punto di partenza. Lì dove ci sono tua madre e tuo padre, il loro desiderio di diventare migliori e le loro maledette proiezioni. Un’italiana che è andata a vivere a Los Angeles per un motivo che sembra sfuggirle continuamente: per il marito ancora sconosciuto mentre dell’ex ha visto l’anima, per il bambino non previsto, per l’amica, Lù, che sarebbe stata l’unica capace di trattenerla, per tenere lontani genitori e fratello, per ribellione, per compiere fino in fondo il suo destino di scrittrice (qui Carla e Caterina Venturini, si confondono, anche per il passaggio dalla terza alla prima persona), sempre più chimerico, tra promesse editoriali che restano promesse, e un “no” sgarbato che snobba il tuo libro e assieme al libro anche la persona; perché lei è abituata a lasciare tutto proprio quando sta per mordere la mela; perché fallire all’estero ha delle attenuanti; per sadomasochismo;  perché è meglio tirare fuori quello che c’è, piuttosto che pretendere quello che non ci sarebbe mai stato; perché lei Carla è disposta a tutto, a qualsiasi umiliazione, anche ad ingoiare il boccone altrui, quello che una professoressa americana in un party, in cui lei si sente fisicamente adeguata ma intellettualmente minorata, le sputa sul labbro, nella sua incontinenza e voracità da nativa.

C’è un po’ di tutti questi motivi nella decisione di lasciare l’Italia anche se Rita, la psicologa con cui Carla ha delle sedute online, sarà sempre pronta a farle vedere l’altra metà del vaso. Perché al di là delle ragioni che l’hanno portata lì, Carla si ritrova in quel momento (saranno anche i quarant’anni) in cui le emozioni, i ricordi, i motivi, le persone hanno preso la forma di un giorno come un altro. Quel momento informe per il quale passiamo tutti.

Questo romanzo è anche una specie di lunga seduta dallo psicologo; con l’effetto di ascoltare gli scambi sul lettino in cui la paziente analizzata la sa più lunga della psicologa, finisce per analizzare anche i traumi dell’amica psicologa, che, essendo, nient’altro che un personaggio, non esiste affatto. Come in un film di Woody Allen, solo che Woody Allen finalmente è una donna con un umorismo-surreale ma senza troppo romanticismo. Una commedia dell’inadeguatezza sessuale, linguistica ed esistenziale che ha per protagonista una donna, quella che invece normalmente fa sentire inadeguato il maschio, e che invece ora si muove sul palco inciampando e attorcigliandosi col filo del microfono attorno al corpo, facendoci ridere e sorridere. Carla vive tra zone di non senso, dove è goffa e autoironica, annaspa in sensi di colpa sempre più grandi, portandosi dietro il suo provincialismo assieme alla crostata fatta in casa con cui si presenta immancabilmente alle cene; si muove in metropolitana perché ha paura di guidare soprattutto in autostrada; non riesce mai a sedurre il professore americano che parla l’italiano in modo così meticoloso; entra nella classe d’inglese con un sorriso inebetito perché è riuscita a guidare per dieci minuti in autostrada, la highway, senza perdersi, mentre la sua insegnante sta raccontando il suo dramma familiare; rassetta ossessivamente una guest room che il marito le ha messo su al piano di sotto così che lei possa avere un suo business (non è forse questa quella famosa stanza tutta per sé?) in cui si sente una regina. Racconta la storia del suo naso, del prima e del dopo. “Siete degli idioti, non avete capito niente, è un pezzo d’antiquariato quello che lei si porta dietro”. E finalmente incontra quella famosa editor in chief, così elegante e sprezzante, in una stanza d’albergo in cui lei, l’unica scrittrice, -perché l’altra, quella con cui l’editrice sta per firmare il contratto, è un instagrammer-, è una specie di fantasma; la scrittura, nel senso di mestiere di saper scrivere, è diventato un accessorio.

La critica letteraria torna a parlare senza mai aver smesso di farlo di generi di appartenenza di un’opera letteraria, dove la classificazione di un’opera serve ai lettori (sempre più critici) per orientarsi e per non essere poi delusi dalla recente lettura. Oggi questo discorso si svolge attorno ai resti del romanzo autobiografico puro (se vogliamo mantenere la finzione che il romanzo sia la trasposizione esatta dei fatti vissuti) che sarebbe oramai contaminato da forme (apparentemente spurie) quali l’autofinzione o il memoir. Sottogeneri o nuovi generi, ma restiamo nell’ambito sterile della classificazione, della piramide, seguendo una distinzione abbastanza ingenua tra verità e bugia, morale, e amorale. L’autofiction è un genere che si attira molte critiche, quasi disturba quei lettori in cerca di autenticità, prove e fedeltà. L’autobiografia (quella di tradizione francese) funzionerebbe come una specie di super-ego che riduce, ridimensiona, nega gli eccessi dell’io fittivo, e riconduce nei binari l’autofiction; in un equilibrio precario in cui l’io fittivo, la controfigura (scrive Walter Siti) deve alla fine di questo “struggling” (direbbe Venturini) emergere e predominare perché in fondo è più coraggioso dell’io autobiografico: l’unico capace di perlustrare il fondo dove ci sono le cose che non diremo mai e che per questo vanno dette, gli scarti, le mele marcie, tutto quello che hai ingoiato.

Con Quchi, Venturini entra di largo in questo dibattito e spariglia le carte mettendo sulla pagina una protagonista, Carla, che passa da personaggio di una narrazione omnisciente, ad io narrante di una narrazione autofittiva per compiere ancora un altro salto verso un altro io narrante, che è sempre Carla Longhi, ma una Carla più vicina a Caterina Venturini, la scrittrice che mette in scena la scrittura del suo terzo ed ultimo romanzo, e che parla con la sua agente letteraria di questo romanzo che lei sta scrivendo mentre noi lo leggiamo e nessun editore lo vuole pubblicare, e di Carla, questa sua protagonista così poco convincente. Così Venturini forza ulteriormente e in modo diverso quella corda di ironia (ed autoironia) che in altri romanzi lega l’autore all’io narrante posticcio che prende corpo nelle pagine.  Per dirci, forse, attraverso questa scissione o piuttosto moltiplicazione, e soprattutto nel passaggio continuo da una struttura narrativa ad un’altra, non quanto questi due “io” siano lontani, uno credibile e l’altro solo verosimile, ma piuttosto, quanto siano vicini, tanto vicini da confondersi perché siamo nel campo della finzione dove la realtà è manipolabile e fallace e la verità dell’opera non è da cercare certo nella perfetta aderenza tra voce narrante, io narrato e scrittore. Ma piuttosto lì dove l’io va oltre le sue sublimazioni. Perché l’opposto della verità non è necessariamente la menzogna.

Sotto la lingua, sotto la scusa della lingua, quella di partenza e quella d’arrivo, quella che è “tua” e l’altra, galleggia la maternità subita e agita, che ti ingrossa e ti svuota, desiderata e non desiderata. Quella maternità “che viene da una distanza maggiore”, meno raccontata, che non deve essere per forza “mostruosa”, che non è il pancione esibito assieme alle smagliature, alle occhiaie e alla solitudine, ma è un’esperienza piena di senso e di intensità che è stata osannata e accantonata, liquidata in un’immagine onnipresente eppure spesso così banale. Maternità che è piuttosto sentirsi passare tra le gambe la vita e anche la morte: quel pezzo di carne che tu proprio non vuoi lasciare andare perché non ti sei accorta che non respirava più, mentre il ginecologo ti conforta dicendoti quella frase fatta che dice a tutte le altre, che è la natura, che la natura è saggia, mentre tua madre e il padre della bambina ti assistono rassegnati e tu di quella rassegnazione non vuoi sapere proprio niente, lì sul gabinetto dove sei finita e la vita e la morte scivolano via in quel sangue e in quei grumi e ti sembra di morire dissanguata. Venturini ha trovato le parole per raccontare tutti i nostri aborti, come le avevano trovate la Fallaci di Lettera a un bambino mai nato o Dacia Maraini (per citarne due). Venturini ha scelto una parola straniera, in quella lingua che quella parte di sé che in America non voleva andare, non vuole parlare. Miscarriage: “che questa mancata performance sia dimenticata al più presto”.

Sotto la lingua, c’è la scrittura che per Venturini è anche un aborto (“il suo terzo libro è stato un aborto: anche lei non è mai nata per la società letteraria”), uno scarto tra scarti che sulla pagina, al contatto con l’aria, avranno in qualche modo già smesso di significare, un’ombra che si allunga troppo lunga sui desideri e le aspirazioni: un pezzo di carne che non vuoi lasciare andare.

Sotto la lingua, c’è la vita che è sempre una storia di confine e di passaggi, quella striscia permeabile tra felicità e depressione; la vita che è sempre un tradimento.

Silvia Acierno