“The project finally is self-devouring”
(S. Sontag On Photography)
In questo saggio, Guia Soncini cerca di ricostruire e di dare una forma a quel materiale umano (tra desiderio e paura, istinto e riflessione) che spinge la società contemporanea a frequentare ed abusare dei social media. Da saggista con un passato da autrice televisiva, Soncini collega l’attuale esibizionismo da social ad un passato abbastanza recente di programmi televisivi e format italiani (da Amici a Uomini e Donne ai più recenti realities, dalle televendite di Mike Bongiorno a quelle di Giorgio Mastrota) che aleggiano su questo presente imperscrutabile come delle oscure predizioni. E personaggi iconici del cinema italiano degli anni Settanta, Ottanta da quelli interpretati da Vittorio Gassman del Sorpasso a Ugo Tognazzi, passando per il Sordi di Lo sceicco bianco ad un carattere (abbastanza e tristemente italico) di sbruffone e narcisista che anima il nostro immaginario collettivo e che fornisce un esempio ante litteram dell’italiano contemporaneo alla costante ricerca di un sé fittizio da esibire sui social. In questa ricostruzione i blog, Instagram e le altre piattaforme social diventano una specie di vetrina, uno “zoo di vetro” in cui mercifichiamo le nostre identità, siamo tutti “bottegai” di noi stessi, tra sponsor che permettono agli influencer (i bottegai più sapienti) di fare soldi mentre gli altri, poveri (poveri davvero) disgraziati, scimmiottano i loro idoli digitali tra like, cuoricini, faccine e messaggi di odio, in un mimetismo dove purtroppo si continua a distinguere il falso dall’originale (che di originale non ha più niente), il ricco dal povero, il raffinato dal cafone.
Non vendiamo più prosciutti o libri ed altri “prodotti” artistici che, nell’omogeneizzazione del capitalismo, oramai non valgono più di un prosciutto, ma vendiamo noi stessi nell’era dell’”economia del sé”. L’idea che i social siano l’ultima frontiera del capitalismo e del narcisismo, l’ennesimo pezzetto di umanità che il capitalismo sta divorando ad una velocità inaudita, che lì mettiamo in vendita noi stessi (o piuttosto un’immagine di noi) mentre esibiamo la nostra vita privata (che di privato non ha niente), non è inedita. Così come è abbastanza evidente per tutti che Chiara Ferragni sia la “bottegaia” numero uno. Soncini ripercorre i passaggi che hanno portato quella che chiamano “imprenditrice digitale” (in questo proliferare di nuovi mestieri fai da te) al successo (che si misura in numero di followers), “smascherando” tutta l’operazione Ferragnez. Ma le ragioni per cui Chiara Ferragni e i suoi omologhi occupano il posto che occupano nell’immaginario del popolo digitale restano sfuggenti. La vanagloria, la popolarità, quella che già Warhol pronosticava tutti avrebbero avuto almeno per quindici minuti?
C’è una domanda fondamentale che va oltre la nostra piccola e breve realtà di italiani che ricordano la pubblicità di Mastrota o lo scandalo Lewinsky (Soncini giustamente crede che la famosa stagista di Clinton avrebbe avuto oggi altre armi a sua disposizione per reagire a quello scandalo che la trovò impreparata): perché abbiamo così facilmente affidato tutte le nostre informazioni personali e segreti (e, peggio ancora, quelli dei tuoi figli) a questa enorme scatola di “data” che sono le piattaforme social? Questa storia, che non è solo di esibizionismo, non comincia dalla televisione italiana, né da Mastrota, né finisce con Kim Kardashian. Feuerbach ne The Essence of Christianity già scriveva (o prediceva) che la nostra società “prefers the image to the thing, the copy to the original, the representation to the reality, appereance to being”. E Susan Sontag, aggiungeva in una delle sue riflessioni lucide e sintetiche, che una società diventa moderna nel momento in cui una delle sue principali attività è produrre e consumare immagini che hanno un potere straordinario (On photography). In fondo prima della sociologa Zuboff, Sontag aveva scritto chiaramente che una società capitalista ha bisogno di un apparato culturale basato sull’immagine; che ha bisogno di fornire un apparato di intrattenimento per stimolare continuamente all’acquisto e per tenere sotto controllo ed anestetizzare il malessere prodotto dagli svantaggi di classe, sesso e razza di appartenenza (a cui si sono aggiunte tutte le altre discriminazioni che abbiamo scoperto all’ultimo minuto. Le immagini sono di per sé consumabili e infinitamente moltiplicabili e quindi generano un bisogno continuo di e potenzialmente inarrestabile di consumarle, sono l’antidoto e la malattia, ci consentono di dominare la realtà di manipolarla, di ricostruirla ma al prezzo altissimo di divorarla e di renderla continuamente obsoleta.
Soncini si mette dalla parte del noi, noi che veniamo dal mondo “del prima” (prima che tutto fosse instagrammabile, prima dei social), noi che conserviamo un poco di giudizio, che resistiamo e non apriamo account o li apriamo solo per studiare il fenomeno, e gli altri i poveri imbecilli che vendono se stessi sulle pagine instagram, gli altri, la massa amorfa di followers che elemosina un gesto di confidenza, di “amicizia” da chi segue o ne fa il bersaglio di tutto il suo malessere. Forse dovremmo metterci finalmente tutti dentro: tutti umiliati, vittime di una strategia di “sorveglianza” che ci ha portato alla deriva, una deriva in cui il nostro futuro è un algoritmo. Tutti pedine di un gioco che si gioca altrove. Burattini nelle mani di una strategia politica ed economica che attraverso la tecnologia sta modificando i nostri comportamenti sociali e alterando la nostra umanità. In cui l’odio social, che tanto ci scandalizza, da cui cerchiamo di proteggerci, è solo l’eco di un malessere più esteso che si fa violenza, fondamentalismo, l’altra faccia di quella che Zuboff chiama “l’era del capitalismo della sorveglianza”: il grido d’allarme più vero, quello con cui dovremmo davvero empatizzare (piuttosto che bloccare con un clic). Quello su cui al di là di ricostruzioni simil-storiche dovremmo riflettere.
Per umanità intendo la nostra percezione di noi stessi, quella capacità necessaria, ingegnosa e primitiva di relazionarci con gli altri e con il mondo, che è anche riproducibile, che possiamo ritoccare, tagliare, vendere ma fino a un certo punto. Quale? Forse quello in cui con un post di più o l’ennesimo paio di occhiali, gli ultimi sponsorizzati da Chiara Ferragni, quel mondo lo stiamo rifiutando e con lui anche noi stessi. Quando, in questo perverso gioco tra realtà e immagine, tra partecipazione e depersonalizzazione, che fa parte della postmodernità, ci rendiamo conto che siamo andati oltre, alienati, in una parodia della realtà in cui il significato si è così sminuzzato in tanti “penzierini” da perdersi, e in cui più mostriamo di noi stessi e più la persona che sta dietro non dice niente di sé. Quando in questo continuo riciclo di immagini abbiamo perso una, quella più vicina a noi, quella che solo ognuno di noi può vedere con i suoi occhi, quella sfocata, in cui non sei venuto bene, quella che scarteresti o ritoccheresti. “If there can be a better way for the real world to include the one of images, it will require an ecology not only of real things but of images as well”, concludeva Sontag.
Silvia Acierno
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