Il video è tratto dal film Alta Fedeltà, che è a sua volta tratto quasi letteralmente dall’omonimo libro di Nick Hornby. Credo che chiunque sia appassionato di musica, o lo sia stato anche solo per un periodo, abbia letto questo libro e visto il film, rigorosamente in quest’ordine. Perché gli appassionati di musica, si sa, sono dei super nerd, maniacali e feticisti. E in Alta Fedeltà ci sono tantissimi feticismi/manie condivisi dalla community dei fan musicali, dal criterio in cui ordini la tua discografia alle citazioni a memoria delle canzoni più sconosciute, fino alle famose top five, le liste delle migliori tracce per…

Citare questo libro è un un buon modo per calarsi nelle atmosfere dei quattro volumi che sto per raccontarvi, dedicati a quattro aspetti diversi dell’universo musicale, ma tutti in qualche modo legati ai feticismi condivisi di cui sopra. Per lo meno, ai miei sicuramente.

Alzi la mano chi, in qualità di appassionato di musica, non ha desiderato almeno una volta di:

  • diventare critico musicale per la rivista di ultranicchia che ci piace tanto, tipo Rumore per citarne una non a caso (“così posso ascoltare un sacco di musica gratis, conosco migliaia di band nuove e mi pagano pure”);
  • diventare universalmente riconosciuto da amici e conoscenti come la fonte enciclopedica e insindacabile riguardo le case discografiche (“a citare titoli di album e canzoni sono capaci tutti, è l’etichetta che fa la differenza, è lì che si riconosce il vero intenditore”);
  • risolvere una volta per tutte l’eterna lotta fra musica italiana ed estera (“diventare filobrit per sempre o cercare di abbracciare le mie origini?”)
  • mollare tutto per aprire un negozio di dischi e vivere felice e contento (“ma vuoi mettere? Diventare un mito come il protagonista di Alta Fedeltà!”).

Mettetevi comodi, scegliete il vostro accompagnamento musicale preferito e immergetevi con me nelle note di queste pagine.

Lo Mele

Diventare critico musicale

Edito da minimum fax, Scrivere di musica. Una guida pratica e intima di Rossano Lo Mele vuole essere proprio quello che dichiara. Una guida per scrivere bene di musica. Come si legge nella quarta di copertina “Nasce dall’esperienza profonda e varia del suo autore, direttore di uno storico mensile di musica e cultura, docente di Linguaggi della musica contemporanea, e membro fondatore di un gruppo rock, i Perturbazione, che ha segnato almeno due generazioni di ascoltatori. Senza semplificazioni dannose né fumisterie ancora più dannose, Lo Mele discute e illustra con esempi significativi i vari fronti su cui il giornalista musicale si trova oggi impegnato, mantenendo un occhio attento al contesto tecnologico ed economico profondamente mutato negli ultimi venticinque anni, ma non dimentica mai che chi scrive di musica, anche professionalmente, lo fa prima di tutto per passione”. Perché se non c’è la passionemissione a sostenerti, presto si scopre che recensire dischi su dischi a un ritmo che non è il proprio non è affatto semplice: tanta concentrazione, tanta fatica, necessità di rispettare le consegne serrate tolgono molto alla figura romantica del critico musicale. [Ed è per questo che io, alla fine, non lo sono diventata]. Lo Mele racconta il lavoro di tutti i giorni, ma anche le esperienze premianti come le interviste, i concerti da descrivere, la capacità di recensire in modo accurato: “Recensire significa ricostruire un sistema di segni, nello spazio e nel tempo. Perché dietro a un segno come i baffi di Freddie Mercury c’è un mondo”. Non è solo questione di esprimere le proprie preferenze, quanto piuttosto di saper comunicare ai lettori il valore della musica, tecnico e artistico, ma ancora prima culturale.

Vita

Diventare un conoscitore enciclopedico

Sapere tutto. O comunque saperne tantissimo. Credo sia un altro dei sogni/feticismi degli appassionati di musica. Ed è stato anche il mio ovviamente. Il libro di Vito Vita è la materializzazione di questo desiderio. Come si legge nella prefazione di Giangilberto Monti: “Non uscite a cena con Vito Vita, vi sfinirà di musica. Pare sappia tutto… e chissà se poi è vero, ma quando voi pensate di saperne di più su un cantante, un disco o una canzone, lui aggiunge un particolare, un frammento, un si dice”. Insomma, quasi l’incarnazione di una divinità. Leggere Musica solida. Storia dell’industria del vinile in Italia, edito da Miraggi Edizioni, è un po’ come trovare il Sacro Graal. “Ci sono nomi noti e meno noti, fatti che non trovereste in nessun articolo della rete, e soprattutto personaggi che tutto questo l’hanno vissuto e toccato con mano, e che non si erano mai confidati prima”. Tanta conoscenza che scorre in modo semplice, preciso, minuzioso. E soprattutto ordinata per e t i c h e t t a d i s c o g r a f i c a, un criterio di selezione che io ho sempre trovato privilegio di chi è un vero pro, un po’ come le case editrici per i libri. Le etichette discografiche rappresentano un mondo, uno stile, riuniscono artisti mossi da comuni intenti, in alcuni casi sono state voci rivoluzionarie. Nel titolo si cita “musica solida” perché si riferisce a quella su supporto fisso (che sia ceralacca, vinile o cd), il libro infatti racconta la storia della musica in Italia fino all’avvento dei compact disc, per un range temporale che va dalla fine dell’Ottocento agli anni Novanta del secolo scorso, ovvero un bel pò di tempo. Gli appassionati, però, sanno che il vinile occupa una grande fetta di questo range e che rappresenta un grande feticismo di ritorno. Dopo l’entusiasmo che ci ha colti per la purezza del suono su cd, dopo l’entusiasmo che ci ha colti per il bacino infinito di archivi digitali come Spotify, non possiamo non tornare a guardare con cupidigia quel disco nero, ad avere nostalgia di quel fruscio che fa tanto vintage e che scalda le serate insieme a un bicchiere di vino da meditazione. Così infatti scrive Vito: “Il mondo discografico, alle soglie del terzo millennio, rimane in fermento. Diverse microetichette si affacciano sul mercato e altre proseguono l’attività, anche se le ultime major dominano ancora la stampa dei supporti, che tuttavia si assottigliano in favore della musica immateriale. Nonostante questo, il vinile riprende perfino fiato e un numero rispettabile di appassionati e curiosi, in tutto il mondo, lo acquista con rinnovato entusiasmo”. La musica solida torna a prendersi il suo spazio all’interno di una dimensione gassosa, come la definisce l’autore. Per questo secondo me il libro di Vito Vita va letto: al di là degli aneddoti e della mole di informazioni golose, il volume resta un appassionato resoconto di un supporto (il vinile) che ha caratterizzato un lungo periodo musicale del nostro Paese e che non è scomparso. Al contrario, nutre un piacere che si è fatto gourmet, come quello per il vino a regola d’arte o per un libro cucito a mano.

Tomatis

Musica italiana: o la ami o la odi

Questo era il mio pensiero di giovine ascoltatrice. Io sono nata nel 1972, pertanto ero adolescente in pieni anni Ottanta, dove il fascino di personaggi come Duran Duran prima [ero davvero giovane], U2 e tutto lo spleen della dark wave di Cure, Joy Division e affini avevano molto più appeal di figure tipo Alberto Camerini, Claudio Cecchetto, Shalpy. Negli anni più prolifici dei miei ascolti musicali sono stata orgogliosamente esterofila, con larghe preferenze per la musica britannica e qualche eccezione made in Usa [il grunge non si poteva ignorare e nemmeno il post rock]. Leggere Storia culturale della canzone italiana di Jacopo Tomatis per Il Saggiatore mi ha fatto capire una cosa fin dalla quarta di cover: “Tutti sappiamo – o pensiamo di sapere – che cos’è la canzone italiana. Ne parliamo con gli amici guardando Sanremo, la ascoltiamo su Spotify o su vinile, la cantiamo sotto la doccia, la amiamo, la odiamo, o tutt’e due le cose insieme. Ma che cosa rende «italiana» una canzone? «Felicità», siamo tutti d’accordo, suona come una tipica «canzone italiana», al punto che potremmo definirla «all’italiana». E allora «Via con me» di Paolo Conte, coeva eppure lontana miglia e miglia dal successo sanremese di Al Bano e Romina, non lo è? O forse lo è meno, con quello swing americano e quella voce roca? Jacopo Tomatis parte da qui, dal ripensamento delle idee più diffuse sulla canzone italiana («canzone italiana come melodia», «canzone italiana come specchio della nazione», «canzone italiana come colonna sonora del suo tempo»), per scriverne una nuova storia”. Fino a questo libro sono sempre rimasta ancorata a un pregiudizio sulla musica italiana, senza realizzare due cose: la prima è che la musica che nella mia testa chiamavo italiana non è quella della mia generazione, ma di un arco temporale precedente, quindi non ho potuto apprezzarne il valore culturale ed espressivo, nè riconoscermici. La seconda è che negli anni Novanta, quando sono arrivati gruppi come Afterhours, Bluvertigo, Marlene Kuntz, ma anche le Posse o il pop un po’ particolare di Elisa e Tiziano Ferro, mi ci sono ritrovata eccome, ma chissà perché non l’ho mai inserita nella categoria mentale musica italiana. “Molte band che esordiscono in questi anni, nei nuovi festival o con le nuove etichette, rimangono a lungo in attività: gruppi come Afterhours, Marlene Kuntz, Massimo Volume, Csi – Consorzio Suonatori Indipendenti, Bluvertigo, Subsonica delineano le coordinate che ancora oggi forniscono i punti di riferimento stilistici ed estetici per il rock indipendente italiano”. E più avanti aggiunge: “[…] l’emergere di una nuova musica giovanile in Italia, la trap. Era da tempo che non si aveva a che fare con una novità così dirompente, con un’etichetta di genere così pervasiva e diffusa, in grado di costruire nel giro di poco un immaginario tanto ricco. È stato, quello della trap, un emergere prepotente, forse inatteso dalla stessa industria musicale, che si è trovata (suo malgrado) a dover inseguire fenomeni nati sul web e diventati rapidamente popolari tra i giovanissimi. I trap boys italiani, come i loro modelli americani, si sono costruiti un pubblico prima ancora di centrare un singolo passaggio in radio o in televisione, o persino di registrare un disco nel senso tradizionale. La trap ci racconta di un modo diverso di produrre e fruire musica. Un modo non privo di paradossi – a partire dall’importanza che un social network visuale come Instagram ha avuto nella diffusione del genere – ma che ci suggerisce che, un giorno, osserveremo questi anni come una nuova epoca nella storia della popular music e della canzone italiana”. C’è bisogno di un libro come quello di Tomatis per riconoscere il valore culturale della nostra musica, restituendo dignità al contesto in cui si è sviluppata. Per dirlo ancora con le parole della quarta di cover: “Storia culturale della canzone italiana ripercorre i generi e le vicende della popular music in Italia ribaltando la prospettiva: osservando come la cultura abbia pensato la canzone, quale ruolo la canzone abbia avuto nella cultura e come questo sia mutato nel tempo – dal Quartetto Cetra agli urlatori, da Gino Paoli al Nuovo Canzoniere Italiano, da De Gregori a Ghali. Con la consapevolezza e l’ambizione che fare una storia della canzone in Italia non significa semplicemente raccontare la musica italiana, ma contribuire con un tassello importante a una storia culturale del nostro paese. Del resto, quando parliamo di musica non parliamo mai solo di musica”.

Blatto

Mollare tutto per respirare musica

È quello che ha fatto Maurizio Blatto, come racconta lui stesso nell’intro del suo ultimo libro per Add Editore Sto ascoltando dei dischi: “[…] vorrei soltanto dire che ho cercato di farmi aiutare. Medici, amici, polizia, centri d’ascolto, le ho provate un po’ tutte. Niente da fare. La mia ossessione non passa. Ho mollato una carriera da avvocato per lavorare in un negozio di dischi. Ma non è bastato. Allora ho pensato che la cosa migliore fosse scriverne, denunciarmi in pubblico. E lo faccio da quasi quindici anni, con una rubrica intitolata MyTunes, su «Rumore» (che è una rivista di musica e non di psicologia). Quelle sedute di autoanalisi rock’n’roll sono il mio «capirmi» e svolazzano allegre, ma non sempre, tra le pagine che seguiranno”. Quello di mollare tutto e vivere grazie a un negozio di dischi è un po’ un mito per tutti gli appassionati, anche se non tutti gli appassionati sono disposti a buttarsi in un gesto che costa coraggio, perché ci vuole un fisico bestiale e una passione che divora. Mario Calabresi, in quarta di copertina, commenta: “Maurizio Blatto vive immerso in un universo parallelo, in cui ogni sentimento, ogni luogo e ogni oggetto è definito da una canzone. Vive immerso nella musica, cittadino di un mondo a parte pieno di vita e di colori, dove ogni cosa è immortale. Una malattia da curare? Alla domanda posta in questo libro ha trovato una sola risposta: ‘No, è una salvezza’. Perché i sogni realizzati ci salvano la vita”. A tutti gli altri appassionati che non hanno fatto una scelta tanto radicale non resta che godersi il libro di Blatto: una lunga playlist fra ricordi personali e aneddotica rock che racconta migliaia di canzoni, citazioni, curiosità. Un po’ come quando trovi un amico ossessionato quanto te e cominci a parlare per ore di musica davanti a una birra infinita, passando in rassegna i concerti che avete visto, elencando i dischi che avete comprato, fino alle canzoni del cuore condivise. Un po’ come fa “un coccodrillo ammalato di musica” [spoiler: citazione dotta che si capisce solo se si legge il libro].

Daniela Giambrone