Ho finalmente terminato il secondo e nuovo romanzo di Natalia Guerrieri Sono fame, Pidgin Edizioni, e non vedevo l’ora di concludere questa lettura. Perché è una lettura che fa venire il mal di pancia, soprattutto a una trentenne di oggi. Non è certo una storia da godersi sotto l’ombrellone, di quelle da leggere tutte d’un fiato per immedesimarsi nelle avventure dei personaggi che le animano.

L’autrice, infatti, tocca un tema che in narrativa non era ancora stato affrontato (o davvero molto poco), ed era finalmente l’ora che qualcuno iniziasse a farlo poiché si tratta di una realtà attuale e terribile che riguarda, purtroppo, tanti, troppi di noi: il tema del precariato e delle difficoltà lavorative dei millennials.

Guerrieri lo fa con una crudezza e una sincerità quasi spiazzanti, avvalendosi di una scrittura efficace e senza fronzoli, utilizzando un genere al limite del pulp, descrivendo crimini, sesso tutt’altro che piacevole e situazioni strambe. In questo modo ci cala dall’alto nel marciume più profondo di una grande città, una capitale come la definisce lei senza specificare quale, a restituirne un’immagine universale: brutta, sporca, decadente, specchio, forse, dei giovani precari che la abitano.

Per strada c’è un odore nauseabondo di immondizia, marciume, sangue. Non proviene solo dai cassonetti, dai tombini, dai mucchi di spazzatura accatastati sull’asfalto lurido, ma da ogni angolo della città, da tutta la città, è l’odore della capitale stessa.”

L’autrice riesce quindi in toto nel suo intento: straniare il lettore, scioccarlo, fare propaganda di quello che sembra essere un racconto distopico invece è “solo” la verità, la realtà dei giovani di oggi a cui è stato tolto il futuro in favore di uno sfruttamento che una volta chiamavamo “schiavitù” e che oggi coincide con (e non solo) la parola “rider”. 

La protagonista, Chiara Lai, è una neolaureata in filosofia che, dopo aver brillantemente affrontato uno stage in una casa editrice viene mandata a casa senza un contratto. Chiara è delusa perché le premesse non erano quelle e i patti erano chiari: a fronte di una grande dedizione nel lavoro avrebbe potuto ottenere il ruolo. Il problema è che Chiara l’impegno ce lo mette, anche troppo aggiungerei, ma viene sfruttata da superiori e colleghi che si approfittano di questa sua (nostra? Vostra?) situazione. Una freddissima responsabile delle risorse umane la liquiderà alla leggera ignara del fatto che stia gettando le basi per il fallimento di un’intera società.

“Che meraviglia.” Ha ricominciato a scrivere a computer. “Hai avuto l’occasione di imparare così tanto in soli tre mesi. Ora te ne vai felice, vero?”

A questo punto, Chiara, spinta anche dai problemi familiari – un padre assente, una sorella con problemi mentali e una situazione economica umile – si trasferisce nella capitale affittando una stanza/sgabuzzino in un appartamento fatiscente che sarà costretta a condividere con altri quattro coinquilini alle prese con lo stesso tipo di precarietà. Chiara accetterà un lavoro ben al di sotto delle sue possibilità intellettive, un lavoro che la renderà schiava perché essere “rondine” – così vengono chiamati i rider delle consegne a domicilio della ditta per cui lavora – significa non solo essere pagate poco e non avere diritti, ma anche ricevere lo stipendio sulla base del numero di consegne effettuate. Chiara non farà, quindi, altro che correre con la sua bicicletta, da un’estremità all’altra della capitale, ignorando il dolore alle cosce, i crampi alla pancia e il sangue che cola e dovrà affrontare questi ostacoli personali con un’altra paura: quella delle morti di altre “rondini” per mano di un pazzo di cui non si hanno indizi.

“Ci hanno detto che siamo liberi, ci hanno detto di prenderlo come un gioco, che il potere è nelle nostre ali.”

I capitoli sono scanditi dai racconti delle consegne di Chiara, che ci mostrano un’umanità allo sbando, sempre più sola e cieca e dai messaggi che lei scambia con Mario, il tutor di Envoyé, che la incalza a prendere sempre più ordini, a inforcare la bicicletta e pedalare e, come una sorta di Grande Fratello, controlla la sua vita ed esprime giudizi personali se lei rifiuta una consegna. Guerrieri spinge al limite una situazione attuale già fuori controllo. Mario esiste, è tra noi e, come a Chiara, la nostra forza ci sta piano piano abbandonando.

Per quanto riguarda il titolo Sono fame: la protagonista sembra prendere le distanze a poco a poco dal proprio corpo. Non è interessata al cibo se non al doverlo portare nelle case della gente. Continua a ingurgitare birre sottomarca e a raderlo continuamente come a voler grattare via il marciume a cui è costretta ad assistere ogni giorno e anche quello sottopelle di chi sembra, a un certo punto, volerle offrire un lavoro da articolista come lei sognava, invece le ruba la voce e l’incanto lasciandola prosciugata e disillusa.

Un corpo giovane e forte, quello di Chiara, che per rimanere tale ha bisogno di mangiare, di riposarsi e di scendere ogni tanto da quella bicicletta per non trovarsi come “una corda di carne” alla mercé di chi se ne vuole approfittare.

Veronica Nucci