Trailer del film The cut runs deep

Ben è un ragazzo come tanti, nella New York di oggi, vive lavorando in uno squallido ristorante cinese, vive in un sottoscala. Poi l’incontro con J.D., capo di una gang coreana; è una scena, un attimo, una scelta, un gesto e la vita cambia. La violenza diventa quotidiana, la droga, il sesso facile, il vivere di notte, i traffici, gli amici fraterni nemici, una donna diversa dalle altee, e poi la paura di morire… anche il suo ultimo gesto è una scelta… lasciare aperte le porte al futuro… anche se tragico… anche se ignoto… forse da vivere ancora…

Il film The cut runs deep ha riscosso grande favore al Festival Linea d’Ombra (Salerno, 2000, ndr). Racconta una situazione di violenza, disperazione e solitudine vissuta da molti giovani appartenenti a minoranze etniche, nei ghetti delle metropoli americane, perché la scelta di raccontare questa realtà della società americana?

Non penso che sia un soggetto «particolare». È l’arrivo del dramma di un’età (non mi viene la parola per dire che è un film su una particolare età!) dal gusto etnico. Credo che non ci sia nessuna differenza tra i film italoamericani o afroamericani. Entrambi parlano di minoranze etniche. Ho sentito che i Coreani sono circa l’1 per cento della popolazione degli Stati Uniti. Questo significa 2 milioni su 200 milioni di persone. I coreani non sono conosciuti così bene, né sono così popolari come i cinesi, che hanno una storia di immigrazione più lunga. Ma penso che col tempo i coreani avranno una rappresentanza appropriata in America. Non che io sia la persona giusta per dare un’appropriata rappresentanza ai coreani. Solo penso che essendo coreano, posso fare un lavoro migliore. Voglio sottolineare che non mi sono avvicinato a questo materiale con intenti socio-politici. Volevo solo raccontare una storia.

I personaggi del film vivono l’incontro/scontro tra la cultura americana, di adozione e le filosofie orientali, di appartenenza. Era tua intenzione sottolineare questo contrasto?

Sì, volevo sottolineare il contesto culturale. Ma il film non è sul contrasto culturale come, per esempio, il film Wedding Banquet di Ang Lee. È più legato a un senso nascosto, o qualcosa sottocorrente. La seconda generazione di coreani vivono il contrasto culturale a vari livelli: con le generazioni precedenti, con gli altri gruppi etnici, e infine con la grande
strana società multiculturale chiamata «America». Poi, non credo che questo tipo di fenomeno presenti delle differenze negli altri gruppi etnici. Ma col tempo arriva la terza generazione, il contrasto culturale diventa meno evidente. Diventano tutti americani.

Lei definisce i personaggi dei film degli «antieroi moderni». Perché?

Ricordo di aver menzionato il personaggio di J.D. come «moderno anti-eroe». J.D. per me non è realmente un eroe. È il capo di una piccola gang senza nome di coreani. Protegge il bordello. La sua gang estorce soldi guadagnati con fatica dai commercianti coreani. Sta rubando alla sua stessa gente. Ha un capo che gli ordina di usare le sue nuove reclute (Ben, il protagonista del film n.d.t.) per uccidere delle persone. Questo è il punto in cui la sua salvezza entra in gioco. Si sacrifica per Ben. Mentre sacrifica se stesso, J.D. non rimpiange di morire, nonostante la sua più grande paura sia la morte. Questo fa di lui un eroe a tutti gli effetti. Le parole «anti-eroe» e «antagonista» sono chiaramente differenti, ma il significato della parola «anti-eroe» spesso lascia perplessi ed è difficile da definire. Credo che sia più semplice pensare a quei personaggi esistenzialisti come Vladimir o Estragon in Aspettando Godot o Emil Sinclair o Max Demian in Demian che in realtà, non hanno mai portato a termine molto. Non compiono un atto eroico. Ma internamente, passano attraverso qualcosa che potrebbe essere percepito come eroico.

La realtà che lei racconta è molto visibile nei ghetti americani; ma i rituali di iniziazione, i valori, i traffici delle gang sono spesso segreti. In quale modo lei si è calato in una realtà così chiusa dall’interno, per i non appartenenti, come quella delle gang giovanili?

Io non sono mai stato coinvolto nelle attività di una gang. Tuttavia, ho alcuni amici e conoscenze e ho incrociato le strade di uomini che erano coinvolti in gangs in un modo o nell’altro. Mentre frequentavo l’Università di New York, ho una volta lavorato in un bar che veniva estorto regolarmente da una gang cinese. I gangsters visitavano il bar due volte al mese. Ho anche ascoltato raccontare molte storie di gangsters dalle persone. Alcune erano storie inventate, altre erano dicerie, alcune erano solo puramente miti. Tuttavia, erano sempre interessanti ed eccitanti. Ho persino una cugina teenager, di Chicago che una volta è scappata di casa con il suo ragazzo gangster per andare a Los Angeles. Così ho capito sin dal principio che questo tipo di cose non sempre succede nelle altre città, o stati, o negli altri paesi. Succede proprio dietro l’angolo. Succede a quelli che sono soli e hanno bisogno di aiuto. E quando ho iniziato a scrivere la sceneggiatura, ho intervistato gli agenti infiltrati, e gli agenti di polizia, e molte altre persone che sono implicate nel lato oscuro della società. E non ho ignorato gli articoli dei quotidiani. Alcuni eventi nel film sono basati su storie vere.

Il rischio e la paura di morire sono sempre presenti nella vita dei giovani gangsters, nel tuo film. Pensi, come si vede al termine del film, che c’è per loro una possibilità di scappare da tutto ciò?

Il film ha un finale aperto. Volevo astenermi dal trarre conclusioni. Penso che Ben ha ancora una lunga strada da percorrere. È giovane. Non voglio dire «Ha ucciso delle persone, si è fregato da solo ed ora è fregato per il resto della sua vita.» La gente cambia. E Ben passa attraverso molti cambiamenti durante il film e ha ancora una lunga strada da fare dopo il film. Ha solo 16 anni. Non credo che la sua paura della morte scompare completamente alla fine del film. Ma penso che non sarà neppure la sua paura più grande e senza fine nel futuro. La paura della morte è intermittente. Ti colpisce di quando in quando. Ti segue ovunque e barcolla nell’angolo oscuro, bisbigliando piano. A volte senti la sua voce e il più delle volte non la senti, perché sei troppo occupato. Scappare dalla paura non è la strada giusta, credo. Devi confrontarti con la tua paura faccia a faccia. Ben l’ha fatto, ma ha avuto una sorta di effetto contrario.

Intervista a cura di Teresa Zitarosa

BIOGRAFIA DI JOHN H. LEE AL 2020
John H. Lee nasce nel 1971 a 12 anni si trasferisce negli Stati Uniti. Dopo gli studi alla New York University, esordisce con il film The cut runs deep ma si fa notare al grande pubblico con la direzione di A Moment to Remember (2004) che diviene un grande successo commerciale sia in Corea del Sud che in Giappone. Nel 2010 realizza il film di guerra 71: Into the Fire cui seguono il romantico The Third Way of Love (2015) e Operation Chromite sulla battaglia di Inchon che nel cast vede la partecipazione dell’attore irlandese Liam Neeson.

Linea d’Ombra Festival è un festival cinematografico che si svolge da venticinque anni nella città di Salerno. L’intervista al regista coreano John H. Lee fu realizzata durante la quinta edizione del Festival che si svolse dal 3 al 7 maggio 2000, tra il Cinema Teatro Augusteo e il Teatro Verdi.  A giudicare le opere in concorso fu chiamata la giuria formata da Cristina ComenciniGuillerme Breaud e Alessandro D’Alatri. Due le novità della quinta edizione: la prima, l’apertura di una sezione dedicata ai video-clip curata da Francesca Roveda, Carlo Tombola e Cristino Del Pozzo, la seconda, un omaggio a un’eroina del videogioco: Lara Croft.