Quasi alla fine dell’ultimo capitolo di questa storia, Shady Hamadi scrive: “quando faranno una nazione mediterranea mi potrei dichiarare un suo appartenente”, ricordando Braudel e soprattutto Predrag Matvejević e il suo Breviario Mediterraneo. Ma già da subito, alla fine del secondo capitolo, aveva sottolineato come si sentisse “un figlio del Mediterraneo…”. “La Nostra Siria grande come il mondo” è un viaggio di ritorno ed è assolutamente una storia mediterranea, ho pensato dopo aver letto tutto il libro. E poi mi è capitato di rileggere alcuni passi di quel Breviario e le parole di Matvejević non fanno che confermarlo: “Scegliamo innanzitutto un punto di partenza: riva o scena, porto o evento, navigazione o racconto. Poi diventa meno importante da dove siamo partiti e più fin dove siamo giunti: quel che si è visto e come. […] Alcuni naviganti prima o poi tornano, gli altri partono per sempre. Si distinguono le navigazioni dopo le quali guardiamo le cose in modo differente, in particolare quelle dopo le quali guardiamo diversamente anche il nostro passato, e persino il mare. Tali percorsi stanno all’inizio e alla fine di ogni racconto sul Mediterraneo.”

I due naviganti in questo libro, Mohamed e Shady, padre e figlio, dialogano dandosi il cambio ad ogni capitolo. Ognuno porta la sua personale testimonianza ed esperienza della Siria. Un “lettore comune”, tanto per citare Virginia Woolf, si aspetterebbe che i loro ricordi siano molto simili, essendo membri della stessa famiglia, discendenti degli stessi antenati (e sappiamo quanto conti la discendenza nel cosiddetto “mondo arabo”), avendo ricordi comuni degli stessi luoghi, definendosi entrambi siriani. Invece, si scoprono due testimonianze totalmente diverse. L’unico punto in comune nella vita di entrambi è l’essere perennemente alla ricerca, in viaggio verso una destinazione che entrambi non sanno ben definire. Può forse essere ancora chiamata Siria? Esiste una stessa Siria per il padre e per il figlio? E per tutti i padri e i figli siriani sparsi per il mondo?
In questa lunga traversata del Mediterraneo cristiano e islamico, nel corso del lungo “viaggio verso l’ignoto” di entrambi, l’unica certezza è che uno dei due non farà mai ritorno al porto di partenza, sebbene lì ci sia una madre che l’aspetta e l’aspetterà invano per sempre, mentre l’altro farà più volte il viaggio, senza però trovare la stessa mèta che andava cercando.

In questo libro si sente forte il respiro di questo “mare nostro”, un fil rouge lo percorre ed è lo stesso che accomuna la vita di moltissimi siriani, libici, egiziani, palestinesi alle nostre vite di italiani ed europei e le lega indissolubilmente. Vi si sente lo slancio panarabico; io lo definirei piuttosto uno slancio “pan-mediterraneo” e, allargando ancor di più il concetto, “pan-umano” perché quella visione utopica, quel senso di unità, che non crolla neppure quando crolla tutto il resto intorno, non dovrebbe riguardare più soltanto gli stati arabi, ma l’intero scibile umano.

Nel libro ci sono due generazioni a confronto e per entrambe persiste lo spirito che ha accomunato le “primavere arabe”, quel grido di libertà che ha scosso fortemente un po’ ovunque la regione a partire dagli anni ‘60. Solo che, nel caso del padre, quello spirito si è tradotto in politica, in attivismo, in denuncia e ha finito per segnare la pelle e l’animo di ferite profonde che non possono rimarginarsi. Vedremo, allora, che i ricordi di Mohamed, che per anni non sono stati svelati, finalmente emergono dall’abisso dov’erano relegati e, nel libro, trovano posto come un segreto scomodo e oscuro che forse era meglio tenere nascosto per sempre. Nel caso del figlio il tutto si è tradotto piuttosto in parole, in libri, in presentazioni di libri, o in articoli di giornale sottopagati, col rischio enorme che ad ogni rigo il racconto muti in retorica o, anche peggio, che ogni singola parola finisca nel dimenticatoio, né ascoltata né letta.

Nelle pagine de La nostra Siria grande come il mondo, però, se sappiamo ascoltare e leggere, si sente forte la denuncia di tutto questo oblio ed essa si accompagna alla delusione che i siriani continuano a provare sia difronte al loro Paese, la cui dittatura ha finito per renderne milioni esuli a vita, proprio come Mohamed, sia difronte al mondo che continua ad ignorare il problema: “i siriani oggi abitano il mondo, ma il mondo non abita più la Siria” denuncia Mohamed in un passo del libro. La delusione è altresì dovuta al soffocamento di qualsivoglia tentativo di ridefinizione pacifica dei concetti di cittadinanza, diritti, senso del sé e della propria identità di cittadino. Concetti e questioni che per un occidentale sembrano scontati. È qui che Hamadi quasi ci rimprovera, sottolineando come più volte manchi la comprensione delle dinamiche di ciò che accade in questa parte del mondo, in particolare le ragioni storiche dei conflitti che qui si sono consumati e si consumano: “Questioni che vanno ascoltate e affrontate per evitare che il silenzio possa sfociare nel disastro che sta vivendo la nazione dei miei nonni”. Se è vero che “Sul Mediterraneo è stata concepita l’Europa” – Matvejević docet- allora non si può semplicemente girarsi dall’altra parte e fare finta che la cosa non ci riguardi.

Se oggi ci dicessero che la Siria era una Paese libero, aveva una capitale, Damasco, ricca e raggiante, raccontata anche in letteratura, non sapremmo neppure immaginarla usando la fantasia. Perché purtroppo quando pensiamo alla Siria non pensiamo di certo alle rovine di Palmira, ai caravanserragli di Aleppo, al sapone profumato che cura la pelle, non possiamo pensare alla cura, è piuttosto l’incuria che ci viene in mente. O ancora peggio, qualche sinonimo, come “disinteresse” o “indifferenza”.

Se così non fosse Shady Hamadi non avrebbe dovuto scrivere addirittura tre libri (nel 2013 La felicità araba e nel 2016 Esilio dalla Siria) per “illuminarci”: “Oggi so che la mia battaglia può andare avanti solo da qui, attraverso le parole e la denuncia. La parola che informa, che supera la censura, è davvero più forte di un’arma”. Questa storia che, una volta per tutte dovremmo leggere, non è la versione romanzata della vita dell’autore e di suo padre: è la verità! Se Shady ce la racconta, se il padre mette a nudo un po’ di sé, è perché la destinazione Siria, conosciuta e allo stesso tempo ignota, ha bisogno di ancora altri viaggi di ritorno.

Antonia Frascione

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