Arricchito da un prezioso glossario formulato dall’autore stesso per un pubblico “digiuno di scacchi”, Un re non muore è più che un semplice saggio sulle regole e sui trucchi del tanto amato gioco degli scacchi. È un vero e proprio corso letterario, un inno all’immaginazione, a quell’estro creativo racchiuso nello spazio temporale che precede e segue ogni mossa.

Con un linguaggio vivido, Porpora riesce a dare voce al non detto, a delineare nitidamente i contorni delle emozioni indotte dalla sfida, a transcodificare i pensieri nascosti nella scatola nera della mente in quella sensazione tattile che lo spostamento strategico di semplici pezzi di legno genera sulla scacchiera.

“Ti stupisce il silenzio da camera anecoica; le frequenze basse sono il respiro e il cuore, quelle alte il sistema nervoso. Senti il suono dei bulbi oculari che si muovono nelle orbite, le ossa che sfregano sulle cartilagini, il pulsare del cuore. Senti il rumore della tua deglutizione, lì dentro. Ti accorgi presto che il mondo fuori lo potresti chiamare la realtà, quello dentro la tua anima”.

La sintomatologia da scacchi si verifica in quella terra di mezzo che è l’attesa ed è proprio in quell’attesa che si realizza l’opera d’arte. Descritta come un’esperienza incorporata e multisensoriale, l’autore definisce l’arte degli scacchi come musica del pensiero. Schopenhauer rappresentava l’architettura ricorrendo alla metafora estetica della gefrorene Musik (o musica congelata), rivelando la profonda connessione cosmica tra la natura incorporea dei suoni e la tangibilità delle forme architettoniche. Se il pentagramma è assimilabile alle fondamenta di una costruzione architettonica, allora la scacchiera è il foglio bianco dello scrittore e gli scacchi non sono altro che “poesia in legno”, quei ferri del mestiere che traducono la fantasia in azione.

Bianco come il foglio recita il titolo del primo capitolo. “Il problema del foglio bianco non è che non sai cosa scrivere, ma che la guardi, quell’enorme distesa bianca, ventinove centimetri e rotti per ventuno, margini cinque quattro quattro, e non riesci a sentire cosa ti stia dicendo. Ogni rumore è compresso nel silenzio della neve e ogni traccia d’inchiostro sono suole sporche sulla neve”.  

Il silenzio, da un lato, e le tracce d’inchiostro simili ad orme nella neve, dall’altro. Sono queste le due immagini sensoriali che si dipanano nel corso dell’intero saggio, tessendo un illuminante e visionario parallelismo tra l’arte dello scrivere e il gioco degli scacchi.

Nella cultura giapponese esiste un detto Iwanu ga hana, che letteralmente significa Il non dire è un fiore, perindicare il limite della parola e la profondità del silenzio. Non essendo circoscritto, il silenzio è uno spazio sconfinato, aperto all’esplorazione e alla ricerca, è un pensiero in divenire. Allo stesso modo, se prendi una scacchiera e togli i pezzi e i pedoni ciò che resta è il mare, l’ineffabile e la sospensione esistenziale. Gli scacchi sono un’arte della contrapposizione silenziosa, perché è nei respiri celati e nei pensieri latenti dei giocatori che si svela l’essenza umana. Bisogna scavare per cogliere quella sfocatura, quel pulviscolo inafferrabile o quella scivolata di violino che rendono una mossa originale e quindi vincente. Se al posto dell’imperfezione ci fosse la precisione, non ci sarebbe strategia ma solo mosse uniche: nel mondo degli scacchi ogni mossa smette di essere giusta o sbagliata e diventa incalcolabile.

Quella flânerie che permette al giocatore di perdersi tra le regole degli scacchi è la medesima che accompagna lo scrittore nel suo processo creativo, in cui frequenti sono le occasioni di serendipità. Occasioni di scoperta che aprono spiragli nuovi da cui osservare la realtà.   In questi termini l’arte smette di essere fedele imitazione e diventa l’espressione originale di una prospettiva o di molteplici prospettive.

Ceci n’est pas un écrivain: “IO, uno scrittore lo sa, non esiste; ne esistono decine di io, che zampillano fuori da un Io primordiale come gocce da una fontana, che non riconosci”. Gocce che racchiudono l’infinito, che danno voce alle parti più recondite dell’anima, che sono tra il dentro e il fuori, ti appartengono ma allo stesso tempo ti sono estranee. È in questa terra di mezzo che risiede l’oscurità e in questa oscurità prende forma il lato artistico dell’opera. Come Porpora, anche il poeta inglese Ted Hughes con il suo stile icastico descriveva la scrittura come un processo creativo, quel pensiero-volpe che, nell’oscurità e nel silenzio della foresta, lascia le sue tracce sulla distesa bianca di neve.

Cold, delicately as the dark snow
A fox’s nose touches twig, leaf;
Two eyes serve a movement, that now
And again now, and now, and now
Sets neat prints into the snow
Between trees, and warily a lame
Shadow lags by stump and in hollow
Of a body that is bold to come…
The window is starless still; the clock ticks,
The page is printed.

(The Thought Fox, Ted Hughes, 1957)

Claudia Melcarne

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