Nel suo monologo di notte fonda a Sanremo, l’attrice Chiara Francini ci ha detto che bisogna metterci rabbia, una vena d’odio per combattere le ingiustizie. Non amore. L’amore non si costruisce con l’amore ma con la rivolta, l’insofferenza. Forse questo è il vero messaggio rivoluzionario della performance della Francini. Basta buonismo, ci vuole anche un pizzico di ferocia. Di rabbia che poi è solo la profondità delle nostre emozioni, il respiro profondo che ci portiamo chiuso in bocca quando scendiamo sott’acqua, prima di riemergere. So bene che per scrivere di maternità, dovrei recuperare quella rabbia lontana, quella profondità di respiro, che ho espresso, tenuto a bada, e poi rinchiuso da qualche parte, perché gli anni passano e i figli crescono. So che dovrei anche dimenticare quel monito del politicamente corretto, che quasi non ci lascia più parlare, un nuovo bavaglio sulla bocca. Dovrei cominciare a dire senza pentirmi che c’è una deriva, una deriva identitaria, una deriva del femminismo, una deriva in cui almeno il linguaggio con la sua libertà espressiva, si salva, per fortuna. Superato l’ostacolo della volontà, quella rabbia, la ritrovo intatta, assolutamente viva: direttamente proporzionale ad ogni tentativo di quella che oramai tutti chiamano cultura patriarcale di invadere allora la mia libertà di donna, di compromettere le mie scelte di giovane madre; soprattutto di farmi dubitare dei miei gesti e del loro cammino istintivo. Quella cultura parlava per bocca delle persone che mi stavano più vicine, ginecologo, marito, suocera, mia madre stessa. Ricordo ogni frase, ogni accerchiamento, ogni attacco. E quel sapore misto della vittoria, la mia, stremata, indebolita, comunque sconfitta. Il ginecologo che mi esclamava ed ammiccava: non vorrai mica fare come una leonessa distesa con i suoi cuccioli alle mammelle?; il ginecologo, che mi persuadeva ad allattare secondo la regola d’oro delle tre ore (che significava svegliare il neonato quando dormiva e dargli il latte quando era sazio). Ricordo mia suocera con il suo forse non dorme perché ha fame, prova con il biberon, pronto per l’uso; ricordo mio marito non avere nessun idea al riguardo, solo quell’eterno sguardo giudicante, quell’è colpa tua; ricordo lo sguardo di mia madre di assoluta incomprensione mentre mi osservava allattare al seno i bambini accovacciata come una zingara… questi ricordi mi fanno ancora male. Sono un bagaglio scomodo. Sì perché la maternità, nelle sue molteplici e legittime versioni, vissuta o meno, reale o immaginaria, anche nel suo racconto più moderno, si nutre comunque di sentimenti manchevoli, deboli, di occhiaie e di rimorsi. Di sogni erotici ma anche di incubi. Il dubbio, quello che qualche giornalista all’indomani del monologo dell’attrice, ha deriso, è invece la misura della nostra umanità. Irrinunciabile. Oltre ad essere il seme della metafora e del linguaggio, la goccia di vita. E questo sono sicura che valga anche per quella fetta di donne che non si sono riconosciute nel monologo, così sicure delle loro scelte, senza rimorsi, neppure un sottile stordimento, le donne che non si sognerebbero mai di parlare ad un passeggino all’inglesina vuoto, per carità. O forse no, non vale anche per loro che appartengono ad un’altra umanità: androidi come l’abito scultura della maison Schiaparelli, il primo indossato nell’ultima serata di Sanremo da Chiara Ferragni. Un mezzo busto in metallo, luccicante e duro come una corazza, lasciato scoperto da una spallina che scivola giù in una raffinata citazione di Fouquet, che in quelle tautologie così care a Schiaparelli, riproduce la forma del seno sul seno. Ma il seno dorato è un seno asciutto, infertile, che non alimenterà nessuno. L’abito (lo spiega la nota a piè di pagina diffusa dalla Ferragni) voleva rappresentare il superamento dello stereotipo che imprigiona la donna nel corpo della madre, e che la farebbe sentire continuamente e ingiustamente inadeguata rispetto a quel ruolo. Tutto vero. Vero anche che il sistema moda è una meravigliosa operazione di senso costruita sul vuoto, sull’insensatezza, sul gingillo, il bibelot (ce lo ha insegnato Barthes). Qualcosa salta però nella traduzione dal concetto all’abito, dall’intenzione al risultato, dall’immateriale al materiale, dalla trasparenza alla forma. Del resto Umberto Eco ci ricorda che la nota a piè di pagina è sempre un’ammissione di sconfitta per il traduttore. Nonostante le intenzioni liberatorie quella rappresentazione continua ad essere un’altra versione dell’iconografia classica (dal color lapislazzuli, al bamboccio dorato in grembo che non è stato mostrato sul palco di Sanremo). Quel corpo che voleva essere libero, è ancora più imbalsamato nel concetto che voleva rappresentare, dissociato; continua a non sapere che la coda è tutt’uno con la testa.  Alan Watts ne La saggezza del dubbio si chiedeva: come impacchettare l’acqua, come mettere il vento in una scatola? Come rinchiudere in uno slogan il movimento della vita?, aggiungo io. Mi chiedo se per questo superamento abbiamo davvero bisogno di rinunciare alla maternità, se abbiamo bisogno di corazze, della sempiterna retorica della guerra e delle guerriere, di abiti-slogan, di citazioni dotte. Forse abbiamo solo bisogno della profondità del respiro che ci ha accompagnato in quel momento complesso in cui abbiamo tutte scelto o ci siamo semplicemente trovate ad essere o non essere madri.

Silvia Acierno