Il gioco era bellissimo, dicevamo, e me l’ero cavata indicando, senza nessuna spiegazione, 10 libri e 10 dischi che amo, elencati nell’ordine cronologico del testo letterario, in modo da formare una lista di dieci cose per fondamentali più altre dieci cose fondamentali, un “10/10 – scrivevo, – come diottrie bene affilate per vederci meglio in questa fitta nebbia di guai e mediocrità, che si ostina a farci ciechi”. Ma, si sa, alla fine niente resta impunito. E, allora, ecco le spiegazioni. Ma vi avverto: l’avete voluto voi.
Absolute Beginners (Colin MacInnes) – The Lexicon of Love (ABC)
Pensi ad Absolute Beginners e, se non sei in fissa con la cultura mod, e con quella specie di omonimo inno firmato dai Jam, ti viene subito in mente David Bowie e una delle sue canzoni più fortunate, quella che, ripresa più di una suggestione dalla versione per Alladin Sane della sua The Prettiest Star, sarà trasformata nell’intro del tema principale della colonna sonora dell’omonimo film musicale del 1986 di Julien Temple. La pellicola, pur con qualche rilettura discutibile (la mielosa Suzette della pellicola, cui da corpo la bella Patsy Kensit, sorta di Doris Day finalmente erotica, nulla ha a che fare con la Crêpe Suzette del romanzo, personaggio ben più ambiguo e compromesso – e perfetta metafora di un mondo che cercava di fare disperatamente i conti con la fame economica e morale del secondo dopoguerra, – e per questo straordinario), resta un momento importante per capire in che modo la cultura popolare dagli anni Sessanta in poi ha assolto anche una funzione critica e catartica che fino a qualche anno prima (diciamolo: prima della nascita merceologica dei giovani, con il rock come colonna musicale e la struttura mitopoietica del cinema americano quale modello etogenetico) era appannaggio della letteratura. Il romanzo di Colin MacInnes esce nel 1959, a cavallo tra un mondo e un altro. Ed è un piccolo capolavoro dove la vitalità del racconto di formazione incontra la malinconica consapevolezza che essere giovani è sempre stato un lavoro durissimo, soprattutto quando tutto intorno hai un mondo che muta veloce e la solitudine è la tua unica vera compagna. MacInnes adotta un protagonista che grazie al suo lavoro, il fotografo, dà vita a una funzione-metafora, che gli permette di fermare le rutilanti trasformazioni di Londra di quegli anni in vividi quadri dove il pittoresco del colore locale comincia a tramutarsi nella decontestualizzazione del kitsch, e l’alea delle aspirazioni espressive individuali si animano e si scontrano con il cinismo del potere (dal bulletto al boss: di tutto il potere), attraverso una teatralità diffusa, che, tra jazz e il nascente rock and roll, porta sull’asfalto delle proprie strade i drammi di una lotta per la sopravvivenza, cui stanno ormai troppo stretti gli interni delle tavole dei palcoscenici (e non è un caso che il quartiere londinese dov’è ambientata la storia si chiami… Napoli). Ed era proprio da questa capacità di MacInnes di fermare la vivacità di certi momenti in scorci di grande potenza visiva, sineddoche di interi mondi, che diligentemente partiva il lavoro registico di Julien Temple. E, allora, che cosa c’entra il capolavoro di Colin MacInnes con il meraviglioso esordio dell’82 degli ABC di Martin Fry?
Intanto è bene ricordare come ci sia stato un tempo in cui gli anni Ottanta sembravano ancora non doversi vergognare di essere gli anni Ottanta. Un momento in cui, per esempio, in Inghilterra, spenti uno dopo l’altro gli altoforni delle acciaierie in piena crisi, era la fucina di giovani talenti musicali a illuminare a festa una città triste e grigia come Sheffield quale centro del nuovo immaginario pop britannico e non solo. E così, tra i tanti nomi possibili, se sarà la breve parabola dei The Future, sublimando la storia industriale del luogo, a dar vita tanto ai clangori da catena di montaggio dei Clock DVA quanto al pop sintetico di Human League e Heaven 17, toccherà agli ABC scrivere la pagina definitiva del pop del decennio, che spostava nuovamente, dopo la Liverpool dei Beatles, lo scettro di capitale dello spettacolo da Londra alla swinging Sheffield, mettendo su uno straniante musical, cerebrale eppure sensualissimo, e senza né teatro né cinema per giunta, in grado però di tenere insieme tanto Hollywood quanto Broadway, i Roxy Music e la Motown, cuori di giovani romantici spezzati e sorrisi da guascone, Bacharach e la sinfonica, l’operetta e il Glam, raccontandoci di come i sogni di felicità della gioventù di forgiano sempre e solo nelle frecce avvelenate delle disillusioni.
Ma queste sono solo chiacchiere e la verità è che non mi viene in mente un altro libro così perfetto come Absolute Beginners o un disco come The Lexicon of Love per tenere sottomano se non un dizionario vero e proprio, almeno un abecedario perfetto in grado di ricordarci, a prescindere di quanti anni abbiamo, di come davanti alle cose importanti della vita, l’amore, per esempio, siamo tutti, ogni volta, dei semplici principianti assoluti, e di come non possa esistere un amore che sia stato grande davvero, che non ci abbia spezzato almeno una volta il cuore.
Atom Heart Mother (Pink Floyd) – Cuore di tenebra (Joseph Conrad)
Certo c’è quella parola, Heart, in entrambi i titoli, che di per sé già risolve il gioco, ma le cose sono sempre più complesse di quanto vogliano apparire. Innanzitutto quel titolo, Atom Heart Mother che, per quanto la storia ci dica che, a parte un velo di situazionistica ironia, nulla di esplosivamente edipico nascondesse, nella mia vita è strettamente legato al ricordo di mio padre. Perché quando ero bambino, certe volte lui, che nel suo studio dipingeva tutto il giorno con il sottofondo della sua amata musica sinfonica, a casa ascoltava anche i Pink Floyd qualche volta e spesso, prima che io andassi a letto, mi metteva sul piatto dello stereo la prima facciata di Atom Heart Mother e la lasciava suonare fino a che io non mi fossi addormentato. Posseggo ancora quella vecchia copia in vinile di stampa francese, che mi aveva regalato lui e ogni tanto la prendo tra le mani per perdermi in quella copertina Hipgnosis così bella e strana (che è ancora una delle mie preferite di sempre), e pur continuando ad ascoltare spesso dischi in vinile, non metto più quel disco sul piatto da tanti anni, e mi accorgo che è per una sorta di pudore, il pudore di trovarci, non nella musica, ma in quel vecchio gracchiare di quei solchi, nel singhiozzo della polvere sulla testina, nei piccoli petardi della carica elettrostatica che esplodevano tra quei corni e quei violini, mentre io da bambino scivolavo nel sonno, il brusio di un’assenza. Quella, cioè, di mio padre. Eppure torno spesso al suono senza fruscii del digitale del cd o dello streaming, edulcorato, pulito, come una memoria che non vuol ricordare. La suite del lato A di Aton Heart Mother si intitola Father’s Shout, il “grido del padre”, e certe volte, solo a pensarci, sorrido. Ma altre no, non sorrido e inghiotto quel grido, come se fosse per due. E Cuore di tenebra, allora? Intanto, è in assoluto il mio libro preferito, ma poi il fiume che Marlow sale in battello non è forse un unico lungo solco, che se non gratta musica, raschia almeno l’ignoto delle nostre paure e di tutti i nostri fantasmi? E non è forse una copia in inglese di Heart of Darkness che quella ragazza lì, tanto tempo fa, prima che ripartisse e andasse per sempre via, lontano, abbracciandomi forte, mi regalò come dono di addio?
Che tu sia per me il coltello (David Grossman) – Each Man Kills the Thing He Loves (Gavin Friday and The Man Seezer)
La lettera come frammento letale di un discorso amoroso (e Roland Barthes, muto, ma chi può dargli torto se è vero che tutti prima o poi si sono tagliati fino a sanguinare con la lamella sottile e spietata di un foglio di carta?) Lettere d’amore, allora, dove l’amore è una lama che scatta al moto di un gioco perverso che, come ci insegna Grossman, è appeso al caso (ma, pensando al Wilde dietro a Friday, mi chiedo: chi sa dirmi qual è la differenza tra la galera dove espiare una condanna ingiusta e un giusto e folle sentimento, che ti imprigiona il cuore?). Ognuno uccide ciò che ama, certo, il codardo lo fa con un bacio, il coraggioso con la spada, ma chi ama davvero, nella cella della propria disperazione, lo fa con l’attesa dei fendenti letali di un primo acquazzone. Dove ogni la(cri)ma di pioggia non è solo stilla fredda, ma una voce che grida: ti amo ancora.
Confessioni di una maschera (Yukio Mishima) – Torture Garden (Naked City)
Naked City era un progetto di John Zorn nato sul finire degli anni Ottanta, con Bill Frisell alla chitarra e altri musicisti newyorchesi, che si prefiggeva di esplorare le potenzialità più estreme del free jazz facendolo collimare con la velocità e la violenza di sonorità vicine all’heavy metal. L’omonimo esordio reinterpretava alcuni tra i più noti temi musicali di altrettanto celeberrimi film, mascherandoli in chiave hardcore fino a trasformarli in mostruose parodie (e del resto, che cosa c’è, nel Novecento, di più immediatamente riconducibile alla potenza metaforica della maschera se non il cinema? Cinema che è pur sempre l’arte che nasce dal “taglio” del montaggio, gesto violento e vitale come la recisione di un cordone ombelicale, che ci rivela al mondo strappandoci la maschera amniotica della placenta). Ma è nel loro secondo lavoro, Torture Garden dell’anno successivo (1990), che i Naked City svelavano l’anatomia profonda della loro ricerca sonora ancora completamente post-moderna, dove ogni suono si caricava, sulle suggestioni letterarie del Giardino dei supplizi di Octave Mirbeau, di una morbosità sensuale che esplicitava come non esista interpretazione di un testo che non presupponga un “rapporto erotico” con la fonte. L’album, che, almeno nella mia stampa britannica su etichetta Earache Records, girava nell’anomalia dei 45 giri, ci rivela così un mondo morboso dove sin dai nomi delle due facciate del vinile (“Sado side” e “Maso side”) scoprivano i poli sadiani del discorso: è un suono, il loro, che nella morbosità della sua brutalità rivela l’estasi del piacere, ma che non rinuncia a dirci che il piacere è solo l’altra faccia della morte. Rivelatori, in tal senso, anche gli indizi visivi del disco, che, più della grana grossa dell’immagine bondage in copertina, si palesano nel gatefold con due truculente e spietate illustrazioni di Suehiro Maruo (tra i più grandi artisti di questi anni), chiarendo i debiti del loro hardcore con l’immaginario dell’ero guro giapponese, che tanto, nell’osare di rendere almeno sensorialmente reale e delizioso l’innominabile immondo dei nostri più profondi e violenti impulsi, a sua volta deve tutto alla commistione di sublime e di weird di un genio assoluto come Katsushika Hokusai. E, intanto, se la delizia della piaga del corpo ferito ha nel San Sebastiano uno dei suoi più sconvolgenti prototipi, come tacere, tra le innumerevoli, già la sola rimembranza perturbante di quelle pagine di Confessioni di una maschera di Yukio Mishima, in cui il giovane Kochan, estasiato, ancor più che dalla candida veste del martire dipinta da Guido Reni, che gli scende dai fianchi fino a scoprire un pube imberbe, da quei polsi attaccati stretti sulla testa, che costringono le braccia a scoprire la conca arresa delle giovani ascelle, e da quelle costole trafitte da falliche frecce (a giudicare dalla reinterpretazione che lo stesso Mishima fece del dipinto posando per una foto di Eikoh Hosoe, dove il corpo è trafitto da tre dardi, il dipinto è quello della versione conservata ai Musei Capitolini), che lo sprofondano nella pena di un inevitabile e inappagato autoerotismo? E sin dal nome, Kochan ci dice della disperata tenerezza (stavo per scrivere pasolinianamente “vitalità”) che finanche la più spietata violenza, che è propria di ogni essere umano, costretto, suo malgrado, alla pantomima di un’esistenza in maschera, è una farsa, dove sia la ricerca del vuoto (interessante ricordare come Paul Schrader per la colonna musicale del suo Mishima – Una vita in quattro capitoli, tra i suoi film più sottovalutati, scegliesse Philip Glass e la rarefazione zen dei suoi passaggi sonori per alludere alla esiziale esigenza alla rarefazione dei codici) sia l’entropia dell’overdose compressa di segni e rimandi, come, per esempio, nei suoni dei Naked City, ci sia la tortura di sapere alfine di essere nulla.
Il disprezzo (Alberto Moravia) –La Vals à mille temps (Jacques Brel)
È difficile, pensando al Disprezzo, dimenticare la vertigine del tetto a gradini di Villa Malaparte dov’è ambientato e, ancor più, la vertiginosa piega del broncio sensuale della Camille di Brigitte Bardot nel film del 1963 di Godard. Ma se si torna al romanzo di Alberto Moravia si fa chiaro che il vero turbamento della storia risieda nella ridiscussione radicale dei ruoli sociali che l’allontanamento sentimentale di Emilia da suo marito Riccardo, pur in un ostinato mutismo, in effetti disegna. Inoltre, se partiamo dalla mancata messinscena dell’Odissea, così centrale nella storia sia nel romanzo sia nella pellicola, ci si chiarifica che il disprezzo della protagonista, pur in una trama su cui inevitabilmente pesa l’approssimazione di quegli anni di una scrittura che si risolve sovente in stereotipi di genere francamente imbarazzanti, soprattutto nel tratteggio approssimativo della liceità di una natura imperscrutabile del desiderio femminile, mette profondamente in crisi il prototipo omerico del focolaio con Penelope in supina attesa del mobile Ulisse, il quale determina gli spazi domestici partendo dalle misure e dalle esigenze del suo talamo, ossia dalle istanze della sua sola visione del mondo. Ma, pur se ancora nell’Italia del 1954, è nell’Emilia di Moravia che c’è già tutta la mercuriale ribellione che la controcultura e i movimenti femministi proveranno, sul finire degli anni Sessanta, a ridisegnare, di lì cioè, a una sola generazione, i ruoli e gli equilibri sociali, cominciando a scardinare prima di tutto la patriarcale conformazione dei rapporti amorosi. Eppure, sebbene Riccardo non colga nell’indisponibilità di Emilia non solo la fine di un amore, ma un epocale cambio paradigmatico, è difficile non immaginare che dalla sua bocca senza più i suoi complici baci, pur se la celeberrima canzone di Jacques Brel uscirà solo cinque anni più tardi, le parole di Ne me quitte pas, contenuta in La Vals à mille temps, quelle frasi di supplica a un controcampo già lontano, perché la donna sa ormai bene che anche se stilnovisticamente la angelichino ancora, sono il canto di una sirena, che serve solo per demonizzarne, e in maniera più subdola, qualsiasi necessaria aspirazione emancipatoria. Ed è questo trucco, non certo all’amore, che lei non darà più valore (che è il significato etimologico del disprezzo, del resto).
Furore (John Steinbeck) – Darkness in the Edge of Town (Bruce Springsteen)
Ma, questa cosa qui, mica devo veramente spiegarla, giusto? A ogni modo sarà sufficiente ricordare che la disillusione del dopo Born to Run, renderà Bruce Springsteen meno istintivo e più riflessivo, portandolo a cominciare a interrogarsi sul lato oscuro del cuore umano così come del Sogno americano. Ed è a quel punto che, messa da sempre in discussione l’autorità dei padri, comincerà a scardinare quella dei mitici padri fondatori, e così, tanto con in mente i vinti ritratti da John Steinbeck (e ben prima di dedicare a Tom Joad un disco intero) quanto i perdenti e romantici assassini della Rabbia giovane di Terrence Malick, si renderà conto di come le Dust Bowl non sono semplicemente un letale fenomeno naturale di un paesaggio che ti si ribella, e che ha segnato una delle pagine più deprimenti della storia americana, ma uno stato dell’anima: tempeste di polvere che attraversano violente le nostre vite, alimentate da sconfitte e risentimento e dai sedimenti instabili eppure mai domi dei nostri sogni, che si alzano dai nostri cuori male arati e cercano di resistere lo stesso a quel vento di vetro.
Kaputt (Curzio Malaparte) – Station to Station (David Bowie)
Non ci giriamo intorno: Kaputt di Curzio Malaparte è il romanzo più importante del tardo Novecento italiano. E gli sta stretto. Station to Station, l’album della svolta cerebrale di David Bowie, ossia un momento determinante nella storia dell’umanità. Entrambi parlano di macerie morali e di distruzione. Malaparte lo fa con la deflagrazione di una lingua esplosiva, un esperanto fatto delle schegge di un italiano alto, della fulminea chiarezza dell’inglese, del colore del francese, della marziale eleganza del tedesco, le lingue, cioè, in lotta tra loro in quegli anni amari, cercando, in quell’impasto polifonico nato dalla polvere delle rovine della seconda guerra mondiale, una sorta di riscatto per un canone estetico se non ancora etico di una nuova Europa, che riuscisse ad redimere in qualche modo gli orrori della mattanza. Ma in Malaparte, alla fine, non c’è nessuna sublimazione possibile e la sua lingua, qui e altrove, arriva fino alla narrazione dell’impossibile, ossia alla fascinazione per il dolore (le pagine iniziali con le teste dei cavalli morti in acque improvvisamente ghiacciate è lo scorcio sulla gipsoteca definitiva del Novecento, e non dimentichiamo che in altre pagine, quelle della Pelle, pur se sfiorandola nell’ambiguità del simbolo, lo scrittore darà vita a una scena tanto straordinaria quanto terribile, quella del banchetto a base di “sirena” all’acquario Anton Dohrn di Napoli, che di fatto è addirittura una disperata cronaca sull’antropofagia – e, a tal riguardo, si confronti nelle Voci di dentro di Eduardo l’incubo di Rosa Cimmaruta…). Allo stesso modo il Bowie di Station to Station, pur tra le troppe suggestioni di un sincretismo malato e tossico e le affascinanti scemenze di un Aleister Crowley, nella ben nota omofonia tra “canon” e “cannon” dell’omonima canzone, ci ricordava che, con buona pace di un Harold Bloom, non esista canone – europeo o no– che, già nell’utopia della formulazione di regole inappellabili, non sia l’esiziale segno di una ferita a fuoco del senso. “It’s to late”, canta Bowie. Davanti non aveva le macerie dell’Europa distrutta, di cui Malaparte era testimone. Ma forse ce le aveva dentro.
Lontano da casa (Walter Tevis) – Lost in the Stars: The Music of Kurt Weill (a cura di Hal Willner e Paul M. Young)
Amo gli scrittori imperfetti e Walter Tevis è il più perfetto degli scrittori imperfetti e, sia detto subito, la raccolta Lontano da casa non è certo la sua opera migliore. La serie di racconti dà ragione di circa trent’anni di scrittura, e più che la fantascienza (genere che comunque l’avrà sempre in gloria e anche solo per il fondamentale L’uomo che cadde sulla Terra), ci si imbatte in un fantastico surreale, con qualche sapore apertamente borgesiano (in All’altro capo della linea, per esempio). Dato fondamentale è che all’interno di queste storie ritorna la costante in Tevis di un protagonista sopraffatto dall’ineluttabile destino della sua condizione esistenziale, così come accade nei suoi scritti maggiori, dove o che sia un alieno su un pianeta ostile (con chiaro il paradigma di Straniero in terra straniera di Robert Heinlien di appena due anni prima, il mitico Newton dell’Uomo che cadde sulla Terra del 1961, reso immortale dall’interpretazione cinematografica di David Bowie); uno spaccone su una tavolo da bigliardo in un mondo alla fine sempre più cinico di lui (chiedere a un certo Paul Newman); un cyborg in un corpo invincibile di un massiccio nero, che non vorrebbe altro che essere felice almeno per un momento e poi morire (e, ferma restando la primogenitura di Anatole France, prima e meglio di qualunque angelo sopra Berlino), come accade in Solo il mimo canta al limitare del bosco (in Italia conosciuto anche come Futuro in trance), che anche se con una matrice fin troppo derivante dalle distopie di Orwell e del Bradbury di Fahrenheit 451, ci regala pur sempre uno dei finali più emozionanti della letteratura degli ultimi decenni (con un’eco addirittura della scena della morte di King Kong); o, infine, una dotatissima campionessa di scacchi in un ambiente manovrato dittatorialmente da un aspro maschilismo, come nella storia della giovane Beth, a cui una recente miniserie Netflix ha donato una tardiva quanto enorme fortuna, i personaggi di Tevis sono tutti enormi perdenti. In tal senso i racconti di Lontano da casa sono la perfetta cartina di tornasole per indagare l’eziologia delle ossessioni profonde dello scrittore americano, tra le quali, oltre alla struggente e malinconica dichiarazione di dipendenza etilica (una costante assoluta della sua letteratura), si scorge una nemmeno troppo velata confessione d’impotenza sessuale e una ancor più fatale incertezza identitaria, che a leggere racconti quali Una visita di mamma, Papà e il fin troppo eloquente Seduto nel Limbo, sarebbero riconducibili a un irrisolto e gigantesco complesso edipico (e a questo punto, lontano dal suo pianeta-madre e da una moglie-mamma, quanto si fa chiara l’efebica fragilità dell’icariano alieno Newton!). E, pubblicata nell’81, la raccolta è anche una piccola fucina di appunti su quanto stava producendo in quel periodo e che si svilupperanno in forme editoriali più corpose (leggere il racconto Eco, per esempio, significa ritrovare i prodromi sia del protagonista di Solo il mimo canta al limitare del bosco sia la radice delle metafore alla Lewis Carroll sulla scacchiera come metafora del mondo, che egli articolerà, poco prima di morire, nella Regina degli scacchi).
E in tutto questo, che cosa c’entra Lost in the Stars di quel genio di Kurt Weill prodotto da quell’altro genio di Hal Willner, che, ahimè, il Covid ci ha strappato via troppo presto? Forse niente. Ma intanto, la raccolta Lost in the Stars (così eterogenea per le tante voci e i diversi approcci musicali di cui è tessuta) è uno dei miei dischi preferiti e non mi sarei mai perdonato di non averlo inserito in una lista del genere. Ma poi, a bene vedere, Lost in the Stars, già nel titolo del disco (che è anche quello del tema principale dell’omonima opera che Weill scrisse con Maxwell Anderson, la cui versione definitiva, con tutta la venerazione per la straordinaria interpretazione di Lotte Lenya e con tutto il rispetto possibile per la magnifica versione che qui, guidati da Willner, ne davano qui Carla Bley e Phil Woods, resta naturalmente quella di Frank Sinatra), è la dichiarazione (come quello della raccolta di Tevis, no?) di un’incolmabile “lontananza da casa”, ossia dal nucleo centrale di ogni affetto, di donne e di uomini persi tra le stelle o negli inesplorabili misteri di sé stessi. E, allora, tanto gli eroi epici del teatro brechtiano, travolti dalle contraddizioni della lotta di classe e da una condizione umana che non sa rivoluzionarsi, e a cui Weill dà letteralmente anima e colori, quanto gli edipici perdenti di Tevis, sono lo specchio di Calibano in cui si riflette anche le nostre disfatte.
Moby Dick (Herman Melville) – Swordfishtrombones (Tom Waits)
Poco si capisce di Moby Dick se non si parte dall’inizio quando, ancor prima dell’incontro con quella enorme lezione sulle diversità scritta sul corpo e negli usi di Queequeg o delle dantesche metafore del Pequod (e poi, certo, di tutto il resto…), accompagnati dall’io narrante Ismael, ci ritroviamo in una ombrosa bettola, La locanda dello sfiatatoio, a una cui parete c’è un dipinto che, incrostato dagli anni e dal fumo, rivela a fatica le forme di una balena. È in questa sottile mise en abyme, che anticipa il tema centrale della fabula, che Herman Melville già chiarisce come non esista mito, ossia parola che si faccia ragione e carne, che non nasca dal titanico sforzo di chiudere un intero mondo in un’unica e fulminante rappresentazione (quella che Freud tempo dopo radicalizzerà nelle ragioni sessuali della definizione di “scena primaria”). Poi, certo, comincia il viaggio, e l’avventura più grande di tutte, che è quella di ritrovarci. O salvare in qualche modo la pelle e non sfugga a questo punto come l’enorme ironia di Melville, alla fine, faccia coincidere la scialuppa di salvataggio del nostro eroe, che lo porta lontano dalla furia del mostro e dei marosi, con il portato inequivocabilmente simbolico di una bara. Ed è forse questa stramba ironia che mi fa da sempre accomunare uno dei più grandi scrittori americani a Tom Waits, dotato, anche nei momenti apparentemente più drammatici, di un suo irrinunciabile tono burlesco, o è il fumo della Locanda dello sfiatatoio probabilmente, lo stesso che viene fuori da tanti bar cantati da Waits, dove l’acre sapore di gin scadenti si sostituisce alle lame di sale delle tempeste di mare. Ma i visi segnati dall’alcol e dal tempo delle storie di Melville e di Waits sono in fondo gli stessi, tutte figure consumate dal grottesco vaudeville di un’esistenza spesa a fare la contadi quel che ti resta da ogni viaggio o a catalogare, come nella fredda tassonomia di un referto, gli oggetti appartenuti a qualcuno che ora non c’è più (cimeli di un marinaio o le poche cose di un soldato, in fondo è lo stesso). E, poi, non nascono entrambi, come da un fantastico bestiario medievale, tanto il cetaceo-metafora Moby-Dick quanto quei mitologici tromboni a forma di pesce spada, dall’abisso ittico delle nostre paure?
Ok, ma a chi voglio prendere in giro? Queste sono solo chiacchiere e la verità è che Swordfishtrombones non è altro che il malinconico disco che ascoltavo a ripetizione tanti anni fa, struggendomi per la ragazza che avevo nel cuore e che, all’epoca, me lo schiantava, il cuore. E poi, sai com’è, seppure dopo un sacco di tempo, quando mi trovai a cominciare con lei una relazione vera e propria, una volta, era la notte di una Befana di millenni fa, le misi di nascosto dei dolcini in una vecchia calza sotto il letto e ci attaccai vicino una copia proprio di Moby-Dick, quella Newton-Compton di duemila lire, taccagno io… Ma che vuoi farci? Era quello il libro di cui a quel tempo le parlavo con ossessione. E le ossessioni o ti portano al manicomio o cerchi subdolamente di condividerle con chi ti è intorno. Ed è tutto qui, ecco. Ed è tutto sempre e solo un ricordo.
Outland Rock (P. D. Cacucci) – Clandestine Anticipation (Krisma)
Nel 1988 avevo vent’anni tondi tondi e me la ricordo bene: una recensione su Tutto libri, che riportava la leggenda: Federico Fellini che vede in una vetrina Outland Rock, il libro d’esordio di Cacucci e, incuriosito da quel gorilla in copertina, lo comprai e se ne innamora. E io che mi dicevo (e, senza sbagliare, ancora mi dico): se piace a Fellini, piace anche a me. E poi, già nell’illustrazione di Eraldo Carugati in copertina, con quello scimmione così furioso e stralunato, ce n’era abbastanza perché cominciasse il culto, per me, che cercavo solo , giusto in quel periodo, quel deflagrante punto di congiunzione tra l’amore per la scrittura e la mitologia del rock. Ventiduemila lire (più o meno una stecca di Camel, all’epoca) e il Santo Graal fu presto mio. Figlio tanto del thriller contemporaneo britannico (esplicitato dalle iniziali P. D., dove la D. era un’invenzione che omaggiava la D. della grande P. D. James) quanto dell’hard-boiled classico alla Chandler, Outland Rock capitalizzava, ben prima dei “giovani cannibali”, l’esperienza di rilettura dei generi che in Italia aveva ruotato per anni intorno al genio di Valvoline prima e di Frigidaire poi, mettendo in fila cinque storie così veloci e divertenti, che per trovarne di altrettanto gustose, avrei dovuto aspettare qualche anno più tardi, una sorprendente raccolta di racconti di un sorprendente Almodóvar. Fu, quella, a ben pensarci la spinta definitiva nella mia vita per cominciare a scrivere, con fortune e meriti che, di lì a poco, saranno definitivamente dissolti dal fatale incontro con Lolita (non c’è niente di meglio per un giovane aspirante scrittore che leggere Nabokov se vuole smettere di scrivere per sempre). Ma le storie, anche quelle più forti, si sa, passano, mentre le immagini no. Ed è così che, anche più di questo esilarante pugno di racconti, è la copertina che resta indelebile nella mia vita, svettando come una delle più belle a mio avviso mai apparse nel panorama editoriale italiano. Insieme forse a solo altri due tomi, sempre, come l’esordio di Cacucci, per i tipi della Transeuropa (mitico editore bolognese, che negli anni Ottanta trovava in Pier Vittorio Tondelli il suo deus ex machina): le due antologie dedicate a scrittori under 25, Belli e dannati (immacolate foto suggestive di donne fatali in prima e il lay-out con le informazioni paratestuali genialmente in quarta). E i Krisma e il loro capolavoro dell’82 che ci fanno qui?
Premesso che amo la formazione di Maurizio Arcieri e Cristina Moser sin dai tempi di Lola tratta dal loro straordinario esordio a 33 giri Chinese Restaurant firmato Chrisma, vera e propria venerazione che, ehm, soprattutto nei confronti della metà muliebre della ditta troverà il suo apice in una chiacchierata che avevo nel backstage di un loro concerto più di una dozzina di anni fa (oh, Cristina, quella frase!), è utile ricordare che il loro quarto album, Clandestine Anticipation, una miscela – parola opportunissima visto che il tema centrale di tutti i brani era l’acqua – di elettronica e sperimentazione mai così lucida nella loro pur lucidissima carriera, uscì nel 1982 e poco dopo, grazie alla combriccola di Mister Fantasy, regalerà all’Italia, con le immagini austere eppure terrribilmente sensuali girate a Bali per tre brani (Miami, Samora Club e Water, una specie di contraltare avantgarde alle uscite esotiche dei Duran Duran di Rio), uno dei primi e più interessanti videoprogetti pop alla maniera delle star internazionali che, complice MTV, stavano cercando, attraversa le potenzialità espressiva e promozionali del videoclip, una sinergia sempre più creativa tra musica leggera e audiovisivo. Ma più che i videoclip, a me fulminò, come sempre, la copertina del disco che, lasciando da parte le edizioni limitate, presentava un ritratto di Cristina su sfondo bianco risolto con linee veloci e spezzate soprattutto coi colori primari, che ne compongono, con rara eleganza, l’altera fisionomia del viso alla maniera del Suprematismo sovietico. La grafica era del solito studio di Mario Convertino, il nostro Storm Thorgenson, per intenderci, che con Gianni Sassi e la sua Cramps, condivideva l’idea che l’immagine di un disco fosse un motivo fondamentale del fascino e del significato di un album musicale. Altri tempi. Quando un faccione di gorilla dalla copertina di un libro e, prima ancora, un viso stilizzato di sensuali geometrie, mi dicevano che lì fuori c’era un mondo favoloso che, incrociando tutte le cose che amavo (la musica, le avanguardie, la grafica, il video, le bionde) mi avrebbe solo stupito e dato gioia. Ma, che vuoi farci, avevo vent’anni e, sperando che Nizan mi perdoni, non avrei permesso a nessuno di dire che quella era l’età meno bella della vita.
Corrado Morra
Tra i fondatori della scuola di cinema Pigrecoemme di Napoli, Corrado Morra si occupa di cinema e arti visive. Giornalista e sceneggiatore (ha partecipato, tra gli altri, al film di animazione Gatta Cenerentola), ha lavorato alla produzione di diversi documentari su artisti contemporanei, tra cui “Still in Life” di Raffaela Mariniello, ora nella collezione permanente del museo di arte contemporanea Madre di Napoli. Diversi i suoi campi d’interesse saggistico, tra i quali ricordiamo gli interventi: “Call Me. Fantasmi e desiderio nel discorso amoroso del cinema di Paul Schrader”, in Paul Schrader. Il cinema della trascendenza (Mimesis, 2016); “Darkness on the edge of tunes. Per un’iconologia di Bruce Springsteen”, in Il cinema secondo Springsteen, (Mephite Edizioni, 2012); “The men who fell to Earth. Ascesa e caduta del corpo della rock star”, in Rock Around the Screen (Liguori, 2009). Attualmente cura corsi di sceneggiatura e di Analisi del film in giro per l’Italia e da sei anni fa il maestro elementare, cosa che lo porta al momento a lavorare in una scuola di Roma. Intanto, in attesa del suo esordio letterario previsto per quest’anno, pandemie permettendo, ama ancora camminare molto.
E tu cosa ne pensi?