Solo un ragazzo di Elena Varvello, Einaudi 2020

Solo un ragazzo di Elena Varvello
(Hanno letto e scritto del libro: Emma Dovano, Antonella De Biasi, Palmina Colella, Sissi Patruno, Maria Pilolli, Anna Rita Cappabianca, Chiara Galignano, Mayra D'Aprile, Manuela Montanaro, Chiara Damico, Modestina Cedola, Giusi Tagli, Micaela Di Trani, Marica Ciccarelli)

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Buona lettura!

“Tell all the truth but tell it slant” Frammento 1129, Emily Dickinson

Solo un ragazzo, l’ultimo romanzo della scrittrice torinese Elena Varvello, comincia dall’esergo, un frammento di Dickinson che apre il mistero narrativo dando un avvertimento al lettore: “Dì tutta la verità ma dilla obliqua”. Se dovessimo raccontarlo in una frase questo frammento sarebbe sufficiente, anzi avanzerebbe pure qualcosa. Perché se state cercando un romanzo “spiegato e spiegabile”, pronto a essere ripetuto a macchinetta a chi vi chiederà: “ma di che parla?”, ecco non è questo il caso. E meno male. Solo un ragazzo racconta il mistero dell’esistenza, senza svelare ogni cosa. Questo è ciò che succede dentro la scrittura della Varvello che illumina con le parole il buio e le ombre dei boschi, dei capanni abbandonati, delle camere da letto fredde, delle auto accaldate, delle vecchie botteghe impolverate. I luoghi in questo romanzo respirano.

Ma dove si trova la verità? Chi ha diritto al perdono e chi ha l’obbligo di perdonare? Sono le domande che all’inizio del romanzo si pone Sara, madre di un adolescente come tutti, anzi, il più buono, sorridente e garbato di tutti. Se un figlio custodisce dentro di sé un grumo indistricabile di segreti, così profondo da celarlo agli occhi di tutti, allora di chi è la colpa?

Il mistero si scopre alla fine della lettura ma la attraversa tutta, un evento deflagrante che travolge i personaggi, relegandoli al ruolo di superstiti inermi sotto una pioggia incessante che scuote le loro vite. Le case smettono di essere luoghi sicuri, una volta che vengono violate, come se il bosco che le circonda volesse assorbirle nel suo buio. Cave, il paese di fantasia che ospita la vicenda, assume l’aspetto di un luogo dove si insinuano il sospetto e il risentimento. Per Sara nessuno, nemmeno lei, ha il potere di cambiare quanto accaduto. Questa consapevolezza diventa la sua verità, il motore che le consente di trascorrere quel che resta della sua vita in una pace dove trovano spazio il perdono e l’ascolto, dove il dolore allenta la presa e lei può tornare a respirare. Chi rimane ricompone nuovi sussurrati equilibri. Dalle finestre della casa di Sara entra un sole timido, non c’è clamore. Le nuove lacrime lavano via le vecchie, non donano sollievo al dolore delle perdite, ma ne rendono più sopportabile il peso.

A Cave fa sempre freddo, una brina cronica brizzola l’anima dei personaggi. Fa freddo sulla faccia di Sara, fa freddo tra le braccia di Pietro, il marito. Il gelo vìola le labbra di Vittoria, la donna in cui Pietro rifugia il suo dolore senza mai riuscirci veramente; una donna che lo spinge verso la vita e contemporaneamente la rifugge come la pioggia fredda che sparpaglia la rabbia. Eppure tutto il verde e tutta la legna umida e tutto il cielo duro e lucido sembrano avvolgere e schiacciare solo il ragazzo. Quello che va, viene, muore, vive, ama, uccide, scopre, raccoglie, conserva, annusa, costruisce. Per tutto il tempo la presenza diafana del protagonista costruisce il mondo narrativo a sua immagine senza sconti e senza redenzione.

Non dirmelo mai più, – avrebbe gridato Sara, un giorno di fine ottobre. Non usare mai più quella parola. Amore. Non con me. Non la sopporto più.”

Solo un ragazzo è un viaggio di andata e ritorno da Cave, la Castle Rock di Elena Varvello, in compagnia dei fantasmi silenziosi degli abitanti di un luogo ai confini dell’irrealtà. Le strade che attraversano la valle e che collegano Cave, Ponte e Rivafredda sono i fili di lana di un gomitolo impossibile da sbrogliare. Ovunque tu sia, giri in tondo e resti avviluppato tra le spire di percorsi chiusi, circoscritti, invalicabili. Vedi la casa di Sara e Pietro lì, sulla sinistra, con il garage di fianco; costeggi la scuola davanti alla quale intravedi Pietro – è dentro una finestra e chiacchiera con Vittoria intenta a sollevare le sedie da terra – e ti fermi per le compere nella bottega di Gemma. Se è bel tempo, poi, puoi arrischiarti fino alla Spiaggia, la radura dove stendersi a prendere il sole sfiorati dalle acque del lago in cui nuotare e raggiungere l’isolotto, meta delle bracciate degli adolescenti e isola felice del ragazzo. Il ragazzo calza il cappuccio della sua felpa sulla testa, ci nasconde il suo sguardo o ci nasconde al suo sguardo e ci accompagna nella scoperta del mistero che vela le parole dei personaggi del romanzo. La loro è la lingua dei non-detti. Si incontrano senza bisogno di salutarsi, si salutano senza commiati, si comprendono osservandosi e si cercano allontanandosi. Come Pietro e Sara, che in tutta la prima parte del romanzo non fanno altro che giocare a scacchi: lei è a letto, lui in cucina; lui sotto le coperte, lei sul portico con la vista sul garage e sulla siepe che conduce al bosco; lui va in garage, lei è dietro una finestra a perlustrare ancora quel bosco che la attrae e la respinge allo stesso tempo. Come Sara e Gemma, che nel momento in cui tornano a parlarsi, sono le protagonisti della scena madre di un qualche cult western d’altri tempi. È una scena di colpa, di vergogna, di imbarazzo piccolo che è la crosta di un dolore più grande. E le due donne lì da sole in quel dialogo sono molto cinematografiche e molto molto americane. “Cerchi rogne, sorella?”, ci aspetteremmo di sentirle sibilare mentre allunga la mano ad afferrare la rivoltella sotto il bancone. Invece sono due donne sole, hanno dimenticato il suono delle rispettive voci e lasciano che siano i gesti a raccontarle. Come Angela e Amelia, sorelle del ragazzo, alla ricerca di una compiutezza che riescono a raggiungere solo quando si immergono nelle acque del lago della Spiaggia.

“La luna come la punta di un dito rivolto verso il mondo”, scrive Elena Varvello. E quel mondo è il chiaroscuro della valle e delle vite che in essa vengono vissute.

La struttura del romanzo è perfetta, circolare, il prologo e l’epilogo sono i due anelli di congiunzione di tutta la trama, ciò che non è stato compreso all’inizio sarà rivelato alla fine. La suddivisione nei vari capitoli dedicati ai protagonisti di questa storia ci permette di dipanare pian piano la matassa. Tassello dopo tassello riusciamo a ricostruire l’intera vicenda. Nei capitoli della madre, del padre e delle sorelle restano in sospeso una serie di eventi che, però, il capitolo finale, quello dedicato al ragazzo sono risolti. Non è il tempo che conduce il romanzo: è il dolore, quello che non si sopisce, non si distrae, che si concentra e si propaga in tutti quelli che fanno parte della sua vita e in quelli che neppure lo conoscono, è un ragazzo infelice ma non è il solo, infelici sono tutti. È senza nome, non sappiamo neanche quali siano le iniziali che lui raschia con il cacciavite nell’intonaco dell’autorimessa, a un palmo da terra. Tutti hanno un nome o un soprannome. Si parte da lui o meglio dal suo vuoto: un ragazzo come tanti, con una felpa col cappuccio che appare dal verde del bosco. Solo un ragazzo con la sua paura, il sangue che scorre veloce nelle vene, i muscoli snelli, le mani imbrattate di spray, tagliate da un cacciavite. Eppure si sente subito, dalla prima riga che questa è una storia di legami familiari che sembrano sgretolarsi, fare i conti con un trauma che ammanta di nero e di verde scuro, appunto, tutti i protagonisti della narrazione. Il ragazzo e la sua felpa non si possono togliere di dosso, il suo malessere e la sua solitudine. Sono andata veloce a leggere la storia degli altri, l’amore parallelo di suo padre, il campeggio delle sorelle, il ragazzino livido al pronto soccorso dove lavorava la madre: mi era rimasto incollato il malessere del ragazzo, correvo perché volevo sapere a che punto fosse la sua disperazione.

“È come se mi avessero tirato fuori tutto il fiato. Non c’è più niente dentro. Tu invece sembri come prima”.

Il bosco è un luogo fisico (nel bosco entrano i ragazzi del prologo, nel bosco si rifugia “un ragazzo”) ma è anche l’archetipo dell’oscuro della vita, dell’incompreso, del nascosto, del mistero, della perdizione, della solitudine, della follia. Ogni personaggio entra e si perde nel suo bosco. Poi ne esce ritrovando “il sole splendere nella radura erbosa”. E anche noi lettori attraversiamo il nostro bosco: passiamo attraverso le angosce, il mistero, la follia e la solitudine e alla fine, nel bosco, ritroviamo la tenerezza.

Il prologo contiene, in maniera circolare, già tutti gli elementi del romanzo: il bosco, la capanna , l’adolescenza, i ragazzi senza nome, il fuoco, un cadavere di animale, la storia di un bambino perduto, il mistero, la violenza, le sigarette, figli e genitori, buio e luce. Sono tutte storie di dolore con la luce nella radura, in fondo al sentiero. La lingua di questo dolore è fatta di frasi brevi, dialoghi asciutti, descrizioni secche come sferzate precise di poesia. In ogni storia si vede il cielo.

“Nel cielo di febbraio, una moneta azzurra splendeva sopra gli alberi”, “cielo di ferro”, “cielo d’alluminio”, “il cielo sembrava un soffitto appena ridipinto”. “Dopo il tramonto il buio aveva avvolto l’automobile come una federa bagnata”, “lingue di vento leccarono le foglie”, “tagli d’azzurro nel cielo biancastro”, “il cielo, un tavolo blu scuro su cui qualcuno aveva lanciato dadi luminosi”.

Sei impazzita?
– Che cosa dovrei essere?”

In questo dialogo tra Pietro e Sara è racchiuso tutto. Ciò che è, ciò che è stato, ma anche ciò che non é stato e che non potrà più essere. È un libro: intricato di voci, di pensieri, di flashback e ritorni. Una foresta incantata, che avviluppa il lettore finché non se ne esce fuori, liberi sì, ma sporchi di fango. La scrittura è tagliente e abile di inversioni temporali e con quella capacità di farci vedere oltre e poi ricacciarci indietro.

L’autrice ha preso una famiglia e l’ha frammentata: un reticolo di prospettive che apparentemente sembrano non combaciare e che invece via via che la lettura procede e incalza, prendono una forma unica, anche se obliqua. Il protagonista sulla porta, sull’uscio, col cacciavite in mano, le parole scarne con le sorelle maggiori, la madre che cerca di rompere il muro della sua indecifrabilità e il padre che tenta di essere un punto fermo per lui e la famiglia, salvo, poi, vacillare nel tentativo di reagire a quanto accadrà.

La crescita e le sue asperità, l’abisso che inghiotte certe fasi della vita condannando i soggetti più fragili, quelli più complessi che sono al centro della narrazione ma anche tenuti sott’acqua, emergendo potenti, con una scrittura lucida e nevralgica, in alcuni punti. E per crescita non si intende solo quella del ragazzo, ma anche quella dei rapporti. Come quello di Amelia e di Angela, dei genitori, Sara e Pietro. E come nei racconti crudeli di Flanery O’Connor non si vince sempre, ci si scortica la vita, ma la si accetta tutta, col suo mistero.

È solo un ragazzo l’antagonista del romanzo. È l’obiettivo da raggiungere, è il trofeo alla fine della caccia al tesoro. Si appuntano gli indizi rilevanti lungo il tragitto della lettura, si fanno congetture, che cosa avrà fatto mai? Cosa è accaduto a questa famiglia?

“Credi davvero di sapere tutto?”

Non importa che sia un mistero o segreto, ma ciò ciascuno – di noi, dei personaggi – crede di sapere degli altri. Emblematico in questo è il portico della casa. Nel romanzo prima o poi tutta la famiglia ci si siede sotto, anche il nostro ragazzo. Luogo battuto dall’autrice, è l’ultima protezione, da lì si passa per entrare e uscire dalle storie di ognuno. Oltre il portico c’è un garage che non si vuole guardare, c’è il bosco del ragazzo e c’è il buio di un mondo senza di lui. Ci sono gli accampamenti fraterni, il fiume benevolo dei ricordi. Al di qua del portico, invece, le luci si accendono e si spengono, ci sono film fin troppo immersivi, sonni profondi. Per Pietro non c’è modo di oltrepassare quel confine.

“Io resto qui. Non me ne vado.”

Come il portico e il Tempo, anche la Natura si ferma e si piega ai personaggi. Per Sara il ragazzo-sole è una “moneta azzurra” che risplende sopra pesanti nuvole nere, fa l’aria “tutta metallica”: da lei l’ambiente risuona di lui e per lui. Il viso del ragazzo risplende e così tanto da allungare la sua ombra di madre negli anni. Sara sopravvive in questa oscurità, finché, da fantasma a fantasma, comprende che nonostante la neve e sebbene il vento corra “là fuori, come un torrente in piena”, pronto a fare della sua casa un cumulo di macerie, intorno a lei comincia ad albeggiare.

Come brandelli di frasi lasciate in aria dall’inizio alla fine del romanzo, ci sono dei segreti piccoli e grandi a seconda dello sguardo del personaggio che vengono in parte svelati. Briciole di una portata principale.

“Facciamo tutti cose orribili anche se non vogliamo.”

Chiamare qualcuno per nome significa accettarne l’identità, ma in questo romanzo lui è invisibile agli occhi di tutti se non quando lancia disperati segnali per farsi vedere ma che nessuno comprende. È solo un ragazzo e non conosciamo il suo nome. Non lo vede nemmeno sua madre che non si accorge del freddo che lui sente, un freddo che lo costringe a tenere la felpa anche in estate, che lo isola e lo fa involvere. L’unico modo per farsi vedere è nascondersi sotto il cappuccio e i suoi cattivi pensieri. Lui, che sente di non appartenere alla vita di nessun altro, che la vita dentro lui si sta spegnendo lasciandolo al freddo, fa un tentativo disperato di sentirsi parte di qualcosa. Purtroppo nell’unico modo sbagliato. E quando nella sua testa anche la baracca nel bosco scompare inghiottita dai rovi, capisce che per lui non c’è posto in nessun luogo e decide di sparire per sempre. L’unica persona da cui voleva essere realmente visto era Sara, ma lei era attaccata al ricordo e all’immagine di quel figlio perfetto, calmo e sorridente, ottimo studente e sembra non dar peso agli atteggiamenti del figlio pur riconoscendoli, quasi fossero normali perché è solo un ragazzo.

“Nessuno è nella testa di nessuno.”

L’estate rappresenta il pieno della vita, la sua luce, il suo calore. È estate nel prologo, è estate quando si parla del ragazzo e fa caldo, anche se lui sente quel freddo incombente della morte dell’anima che ormai gli impedisce di riscaldarsi. È estate anche quando le due sorelle si accampano cercando di risolvere i loro problemi di quando erano piccole. È inverno quando il punto di vista è quello di Sara ormai giunta alla fine della vita. È autunno quando Pietro inizia la sua storia con Vittoria. Si sentiva ormai sfiorito, nella decadenza dei suoi anni ma lei lo riporta in vita, lo aiuta a passare anche l’inverno della sua esistenza fino a quando i due si lasciano, in primavera. Una primavera che vede Pietro più consapevole della sua vita, quella del figlio, quella di sua moglie.

Le scene sono ambientate nel buio quando il personaggio della scena sta facendo i conti con una parte di sé, perché quell’oscurità è la parte di noi che tendiamo a nascondere. La luce arriva quando ci si svela. Il ragazzo toglie il cappuccio e la luce illumina il suo volto. Lui mette il cappuccio quando si cela al mondo. Il sole rischiara la pace ritrovata tra le sorelle e l’ultima volta insieme di Pietro e Vittoria. La luce svela e abbatte il muro buio che avevano dentro concedendo a ognuno di perdonarsi almeno un po’. Come l’amore, il dolore e la morte.

Questa storia di travaglio adolescenziale mette in scena il passaggio più delicato di ogni essere umano, quello in cui ha inizio la ricerca della propria identità. Si può impiegare una vita intera a cercarla. Si può fuggire per evitare di trovarla e, quando la fuga si trasforma in un disagio insostenibile, si può scegliere la morte. Questo è quanto accade al protagonista senza nome e la vicenda si trasforma in un dramma che segna una famiglia e un’intera comunità. Nei momenti di passaggio e di crescita le situazioni e le persone giocano un ruolo importante. Per il ragazzo le condizioni accettare sé stesso non sono le migliori: due genitori che si allontanano e vivono come due estranei, una madre che smette di lavorare per vivere in simbiosi con lui, due sorelle che conducono vita a sé, senza mai interessarsi davvero a nessun componente familiare, a cominciare da lui.

Molto apprezzato lo stile pulito, essenziale ed elegante, il modo di lasciare indizi ovunque con un’accurata scelta delle parole, senza inutili e fastidiosi ermetismi, per cui la lettura è scorrevole e fluida. Le metafore sono originali e hanno un risvolto di concretezza: “Le voci erano pugni”; “…le borse sotto gli occhi, pieghe di carne come collari flosci”.

I dialoghi sono scarni, in alcuni momenti anche crudi, in altri frettolosi e sfuggenti e vanno bene così, perché rendono evidente la difficoltà di comunicare, di gestire ed esternare le emozioni. La voce narrante conduce il lettore nel mondo interiore di tutti i personaggi rivelando anche i pensieri, che sono illuminanti, come i luoghi in cui avvengono i fatti. I luoghi esprimono sentimenti e assumono la consistenza delle emozioni. L’ambientazione è perfetta per mettere in scena un’indifferenza esistenziale diffusa, non circoscritta alla ristretta cerchia di Cave. Una frase detta da Vittoria a Pietro rende bene l’idea: “siamo invisibili, nessuno se ne accorge”. Anche loro. La solitudine è ovunque in quel piccolo paese umido.

Ognuno cerca il proprio modo per sopravvivere ai sensi di colpa, ai rimpianti, ai rimorsi: c’è chi perdona, chi evade, chi riesce a riconciliarsi, chi si lascia morire. Ma la verità, tutta la verità non viene a galla. Potrebbe essere rimasta nascosta nella parte in cui il bosco era più fitto, in mezzo a “cespugli spinosi, robusti come cavi, che graffiavano le gambe”? Forse.

“Non avere paura sono io.”

In ciascuno di noi si nasconde una capanna segreta, un posto dell’anima in cui portiamo le nostre paure, quelle che ci bloccano e che vorremmo uccidere. È il posto che proviamo a mostrare a qualcuno (come tenta di fare il ragazzo con la figlia della miglior amica di sua madre), perché la paura più grande venga riconosciuta e quindi vinta. Per il protagonista, magari sarà la ragazza senza nome a farlo, se darà seguito a quel proposito di ritornare lì per ricostruirla. Ma non lo sapremo mai.

“Solo un ragazzo” è un romanzo di solitudini, incomprensioni, mancanze, che si muovono in un paesaggio straniante. Un romanzo sconfinato, in cui tutti percorrono strade e sentieri al buio, o quasi, nel tentativo di ritrovare se stessi, ma col rischio di perdersi. Un romanzo per certi versi inafferrabile, così come lo è il senso della vita, di una fragilità che è umana, in cui nessuno è esente da errori nel tentativo maldestro di dare e ricevere amore.

Perdonare tutti gli altri ma non se stessi. Passare la vita a nascondersi senza riuscire a fuggirsi. Affondare in un letto le proprie giornate per cercare quello che prima non siamo stati capaci di vedere.

È un libro pieno di buio con brevi momenti di luce. Leggendolo si avverte freddo fin dentro le ossa e si ha bisogno di un riparo. Ogni storia non è mai come potrebbe sembrare innescando una tensione altissima in ogni pagina. I momenti di confronto tra i vari protagonisti sono i più interessanti perché mostrano esattamente le gabbie di pensiero su cui basiamo le nostre opinioni su gli altri e su noi stessi. Le domande e i dubbi si moltiplicano durante la lettura. La storia può essere riscritta di continuo. La verità rivista in ogni momento. Dicono che esista sempre una possibilità quando scegliamo di darcela. È legittimo chiedersi però se sia sempre possibile scegliere sulla base delle nostre verità.