Ho comprato Che tu sia per me il coltello quasi in stato di trance, e forse non avevo nemmeno finito di leggerla, la recensione folgorante di Paolo Mauri su La Repubblica del 27 marzo scorso (1999, ndr). Si aggiunga il magnetismo del titolo, da attribuirsi però a Kafka, il quale scrisse questa frase in una lettera a Milena. Lei forse rispose anche, ma chi può dirlo oggi se con tutta probabilità quella lettera è andata perduta. A posteriori penso sia la corrispondenza tra loro due che avrei voluto leggere con la foga che invece mi ha indotta a divorare le prime pagine del romanzo di Grossman, perché non mi sembra che l’autore sia riuscito pienamente a incarnare il linguaggio come Mauri così splendidamente carnale assicura.
Il romanzo presenta le seguenti particolarità: sfrutta una forma convenzionale e quasi antiquata (quella epistolare) per catturarvi la preda più ambita della modernità: la mente nel suo farsi. O meglio, intenta a svestirsi di ciò che non le pertiene – costruzione o imposizione d’altri – e in più fortemente tentata di scrollarsi di dosso le sedimentazioni del suo passato, della sua storia. Azzardando di più: la mente che si guarda nascere dall’inconsapevolezza e bearsi nella luce. Tale è generalmente il compito della poesia, che di nient’altro si nutre e si cura, ma il romanzo del Novecento la corteggia volentieri, dubbioso com’è riguardo l’effettiva consistenza del mondo tangibile attorno.
Perché Yair e Myriam, un uomo e una donna di mezza età, che si sono incontrati per caso nella fuggevolezza di un istante, decidono per iniziativa del primo – ma con l’immediato consenso della seconda – di scriversi lettere torrenziali? Intanto proprio perché sono due perfetti sconosciuti e quell’estraneità è la materia prima, consustanziale, del loro desiderio: scoprirsi del tutto, senza reticenze e vergogne, richiede forse la protezione dallo sguardo diretto dell’altro. La lettera è il mezzo privilegiato per il dosaggio della distanza, perché – grazie allo specchio della pagina bianca, dove già nel momento stesso della scrittura e non quando la lettera verrà recapitata, incombono gli occhi e la carne del destinatario – permette al mittente di tradurre in parole ciò che altrimenti resterebbe per sempre sepolto. Dunque l’altro è innanzitutto meravigliosa assenza piena che ascolta.
E qui cominciano una serie di guai che il romanzo sembra non riuscire a risolvere. Perché nella prima lunga parte, rappresentata dalle lettere del solo Yair, che però cita e allude a quelle che Myriam gli invia in risposta, il protagonista parte in quarta, astraendo se stesso e la sua corrispondente dalla realtà: «E cosa c’entriamo noi con la realtà? Che spazio sarebbe disposta a lasciarci?». Yair ha qui l’intuizione forte, illuminante: che il reale e nemmeno la vita custodiscano la nostra verità più profonda. C’è un buco nel cielo o nel ventre della terra ed è da lì che deve cominciare la ricerca.
«Yair non credo che tu sia la persona in grado di guarirmi dalle ferite interiori ma forse in questa fase della mia vita, non ho tanto bisogno di un medico quanto di una persona che ha una ferita simile alla mia»
Purtroppo però il libro non regge a questo difficile compito, forse proprio per il contrasto tra la forma ampia e il contenuto tutto concentrato nella raccolta della parola magmatica, prima della colata dei significati. Perché il romanzo in sé e per sé – anche quello ormai fine-novecentesco – ha fame di realtà e la poesia non lo sazia del tutto. Così l’autore perde man mano il suo intento d’essenza. Perché Yair invece di dare corpo all’immaginario finisce per immaginare il reale che circonda Myriam, che è Myriam, quasi togliendole corpo due volte: la prima quando pone il veto al loro incontro fuori dalle lettere; la seconda quando comunque non rinuncia a descrivere quell’incontro non avvenuto in una lettera. E pure, per quanto queste parti sembrino ardite e accese fino allo spasimo, c’è qualcosa che non mi convince, che non mi dà la sensazione di essere a contatto con un linguaggio che sgorga davvero dalla sorgente.
E Myriam? Certo le sue lettere in risposta a quelle di Yair hanno grande fascino, se non altro perché nel libro non ci sono, e si sa che l’ospite che manca al banchetto è sempre il più importante, quello da cui dipendono i destini di tutti. Poche frasi e brani stralciati dalle epistole di Myriam sono presenti solo come corpo delle lettere di Yair che ad esse fanno riferimento, dunque non esistono in sé e per sé, ma come scintille che hanno innescato un qualche mutamento in lui. Myriam parla unicamente attraverso le pagine del suo diario. Il fatto interessante è che questo spezza la comunicazione binaria e introduce un terzo elemento: non Myriam che parla solo a Yair come lui con lei, ma Myriam alle prese con la propria vita. Nella quale entra molto altro-da Yair. Primo fra tutti il figlio, per giunta con seri problemi mentali, che il marito ha avuto con un’altra donna. Myriam descrive la fatica e l’amore che riversa nel rapporto con il bambino. È evidente che per quanto queste pagine siano appassionanti, ancora una volta il baricentro del romanzo è spostato di molto o forse talmente allargato da oscurare l’insopprimibile precisione dell’obiettivo che la narrazione si era proposta.
Nella terza e ultima parte del libro, l’intento di Grossman è invece quello di giungere a una fusione delle due voci, e di confonderle in un’unica sinfonia dove sia impossibile distinguerle l’una dall’altra, ma nel fare questo il romanzo scende a patti con la realtà, e solo di quella finisce per occuparsi.
In soccorso alle perplessità suscitate dalla lettura, mi pare accorra la splendida voce di Iosif Brodskij, il quale in un saggio su Thomas Hardy contenuto in Dolore e ragione (Adelphi 1998) sprofonda in un appiombo mozzafiato e cattura per noi l’orizzonte che la poesia generalmente squarcia lasciandoci sgomenti, definendolo il territorio dell’inanimato. In esso l’io del poeta si piega fino a divenire scriba, umile accolito del linguaggio, che in quel momento è intenzionato a svelare la propria materia di verità e quelle «funzioni non umane» che al di fuori delle parole non hanno altra via d’accesso per raggiungerci qui, sulla terra.
Grazie a Brodskij, ora è lampante: Grossman e i suoi personaggi con lui sono partiti con l’intento di catturare questo inanimato che ci plasma più dell’aria che respiriamo, ma ne hanno avuto terrore, e una volta chiuso il libro puoi vederli ancora lì, fermi prima della soglia che fin dalle prime righe parevano voler varcare con un balzo.
Monica Pavani
In libreria
David Grossman
Che tu sia per me il coltello
Mondadori, 2017
Collana: Oscar 451
330 p., brossura
€ 13,50
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