Ci sono libri di cui non è facile parlare: lasciano un’impronta netta nel cuore e nella memoria ed è difficile discernere la loro storia con la tua storia personale, ciò che effettivamente raccontano con ciò che ci vedi tu. Addio fantasmi, il romanzo di Nadia Terranova che ha sfiorato lo Strega, è così: ti lascia intrappolato tra le maglie di una narrazione tanto vera da diventare dolorosa, coinvolgente al punto da sbatterti qua e là come la burrasca d’un mare capriccioso e indecifrabile quanto lo stretto di Messina, spettatore, protagonista ma anche grande assente.
“La nostra era la felicità dei pezzi di vetro smerigliati che i bambini trovano sulla spiaggia, una felicità rada, luminosa e inoffensiva.”
Un tale coinvolgimento emotivo impone una certa riflessione sulla trama del romanzo e sui suoi elementi principali: Ida, che vive a Roma ed è impegnata in una tenera relazione senza sesso col marito e nel suo lavoro di scrittrice di finte storie vere per la radio, viene richiamata a Messina, la sua città natale, dalla madre che ha deciso di vendere la casa di famiglia e vuole una mano a selezionare gli oggetti da buttare e quelli da tenere. Ritornata in quella casa, Ida viene fagocitata dai ricordi del passato e del padre, Gaetano Laquidara, scomparso improvvisamente una mattina. Il romanzo, diviso in tre parti dai nomi evocativi – Il nome, il corpo e la voce – si snoda tra ricordi, sogni e ossessioni che man mano rivelano l’importanza del punto di vista altro e la fallacia della memoria, che talvolta è più uno strumento di tortura che un mezzo per tenere cari i ricordi di ciò che è stato.
“La memoria è un atto creativo: sceglie, costruisce, decide, esclude; il romanzo della memoria è il gioco più puro che abbiamo.”
Condivido con Nadia Terranova origini e amor patrio e, come per molti concittadini – tra cui anche Ida, protagonista del romanzo – la città dello stretto, croce e delizia di tutti coloro che si trasferiscono altrove ma non smettono mai di sentirsi e dirsi messinesi, rappresenta un luogo mitico, inafferrabile, così puntuale e preciso nel mondo dorato dei pensieri e dei ricordi quanto volatile e impreciso nelle sue emanazioni narrative, sulla carta stampata e nella realtà.
La Terranova, che racconta Messina continuamente nella sua narrativa e anche in numerosi articoli, lo sa bene e riesce a intrecciare i fili emotivi della sua narrazione con un racconto fatto di pennellate sensoriali che esaltano elementi mai scontati, notissimi a chi qui è nato e cresciuto e altrettanto esotici per chi qui, invece, non ha mai messo piede. L’ora blu sulla passeggiata a mare, la costante umidità contrapposta alla recidiva mancanza d’acqua nelle tubature, le vie con nomi leggendari popolate di palazzi in stile liberty su cui fioriscono moderne strutture in plastica, alluminio e plexiglass sono le tessere di un mosaico affascinante, emotivo, ricco di particolari seppur appena accennato. Un carnevale di dettagli che da soli ricostruiscono ossessivamente la memoria di un luogo sempre mutevole eppure costantemente uguale a se stesso.
“Gli oggetti non sono affidabili, i ricordi non esistono, esistono solo le ossessioni. Le usiamo per tenere la crepa aperta e ci raccontiamo che la memoria è importante, che noi soltanto ne siamo i guardiani. Teniamo la ferita larga perché ci stiano dentro i nostri mali, i nostri timori, stiamo attenti che sia profonda abbastanza da contenere il nostro dolore, guai a lasciarlo vagare. Esistono solo le ossessioni, e intanto il tempo le ha rese piú vere di noi.”
Ida conosce bene le ossessioni e il ruolo che esse hanno nella costruzione della memoria.
Quando la madre le telefona per comunicarle che ha intenzione di vendere la casa di famiglia e le chiede di tornare per selezionare le cose da gettare e quelle da conservare tra gli oggetti rimasti nella sua cameretta, lei viene presa dall’angoscia di confrontarsi col peso di questa memoria e della sua ossessione per la scomparsa del padre avvenuta più di vent’anni prima, quando lei era una ragazzina appena tredicenne.
Gli elementi principali del romanzo a questo punto sono già tutti in campo:
- La memoria che impregna la casa di famiglia con il suo mobilio, gli oggetti, le suppellettili, il passato di Ida e la città stessa;
- La madre e il rapporto burrascoso che la protagonista vive con lei e con il suo ruolo, e che forse le impedisce di diventare madre a sua volta;
- Il padre e il suo fantasma che infesta le tubature, il sottotetto, le mura della casa di famiglia, i sogni e gli incubi di Ida e la sua vita a Messina.
“Ognuno di noi ha una casa soltanto nella vita.”
Le case di famiglia giocano sempre un ruolo centrale nella memoria: sono quel luogo dell’anima in cui si è trascinato il tempo della nostra infanzia, tempio di ricordi sfumati o troppo vividi, talvolta dolorosi, veri artefici di ciò che siamo e del nostro modo di percepirci al mondo.
Nella casa di Ida, strapiena di oggetti che conservano e ripropongono ossessivamente la sua memoria e quella di avi appena accennati, si è consumata una tragedia a metà, un lutto che non può contare su un corpo da piangere e che metta un punto a un dolore senza riposo, specchio di un dolore forse ancora più terribile. Gaetano Laquidara soffriva di una depressione sorda e un giorno, dopo mesi di apatia trascorsi senza mai alzarsi dal letto, con delle cuffie ostinatamente piazzate sulle orecchie e collegate a una radio spenta, si alza, si lava i denti e va via lasciando uno sbaffo di dentifricio nel lavandino, ultima impronta di un’esistenza che da troppo tempo somiglia solo a un gigantesco vuoto.
È una casa pesante, opprimente, ricolma di oggetti che funzionano solo a metà o non funzionano affatto e di cui la madre non può o non vuole liberarsi: lo sgabello all’ingresso, la pendola senza il meccanismo, i termosifoni guasti sono gli attori su un palcoscenico di vuoti e disagi, teatro dell’incomunicabilità tra i membri di una famiglia che appare mutilata anche quando poteva contare sulla completezza del suo nucleo. In quella casa Gaetano Laquidara forse non è mai stato felice, oppresso dalla sciatteria della moglie e dalla sua incapacità di lasciar andare gli oggetti, i ricordi e tutto ciò che si frappone tra una semplicità ricercata e mai soddisfatta e l’opulenza di un passato che pretende di rimanere lì, tra le mura ammalorate dall’umido e la vita dei suoi abitanti.
“La morte è un punto fermo, mentre la scomparsa è la mancanza di un punto, di un qualsiasi segno d’interpunzione alla fine delle parole. Chi scompare ridisegna il tempo, e un circolo di ossessioni avvolge chi sopravvive.”
La casa di famiglia, già pregna dei ricordi degli avi, è infestata dal fantasma liquido del padre, che ammorba le tubature e i termosifoni, crepa il soffitto da riparare, tormenta il sonno di Ida con sogni di morte e di mare.
Ida ne è fuggita, ha trovato riparo a Roma tra le braccia di un marito che ama di un amore assoluto ma mutilato nelle sue manifestazioni più gioiose – il sesso, la maternità, la voglia di programmare il futuro – ma non può rifiutarsi di accorrere alla chiamata della madre.
“Una madre è qualcosa da cui non esiste riparo.”
La madre di Ida è una donna cresciuta intorno alla sua ferita senza curarsi troppo di lasciarla cicatrizzare; è una donna forte, testarda, che finge di andare ostinatamente avanti senza curarsi di ciò che le rimane intorno e che le parla di un passato pesante che lei non si sofferma a cercare di decifrare. Eppure, come Ida, vive sommersa da quel passato. Lavora in un museo e trascina la sua esistenza in un mausoleo d’oggetti che non sa decidersi a gettare, al punto da richiamare la figlia da Roma per delegarle questo compito. Ida vive con lei un conflitto costruito sui silenzi, sull’ostinazione del non raccontarsi, del non scoprirsi mai. Piuttosto che parlare con la figlia della loro tragedia comune, la signora Laquidara la trascina in giro per la città, la costringe a una normalità forzata, la spinge a osservare la felicità degli altri che accade costantemente in faccia alla loro infelicità evidente ma mai elaborata.
Ida le rimprovera una superficialità, una sciatteria che forse altro non sono che un estremo, stentato, inutile tentativo di sfuggire persino a se stessa. E, benché non se ne accorga, lei fa esattamente lo stesso: fugge da un dolore che torna ad essere tutta la sua vita appena rientra nella sua città natale.
“Gli ultimi mesi che mio padre aveva vissuto con noi erano materia lavica e fangosa, un rumore atono che avvolgeva tutte le cose. Avevo tredici anni e non sapevo quanto si è piccole a tredici anni, quanto si crede di esser grandi; le fiabe cadute alle spalle non ti avvisano, non ti consegnano strumenti in eredità: quali sono le avvisaglie che un regno sta per finire?”
Il ritorno a Messina diventa così un totalizzante ritorno a ciò che è stato: Ida dorme nella sua camera di bambina in mezzo a vecchie bambole, copertine che conservano ancora il calore del suo corpo di neonata, penne colorate protagoniste della corrispondenza adolescenziale con l’amica Sara. Immersa in questa opulenza di memorie talvolta in contraddizione tra di loro, Ida traccia una mappa del passato carica di domande, si confronta con tutte le assenze che la riguardano e la feriscono, mattoni per la sua costruzione di donna che, per vivere, racconta finte storie vere che parlano della sua, di storia, fragile e mutilata.
Eppure, attraverso questa precisa mappa di vuoti e di assenze, trova finalmente il coraggio di confrontarsi con gli enigmi che la tormentano, ritrova il contatto con le altre persone, scopre se stessa attraverso gli occhi degli altri, riesce a scovare il fantasma del padre tra il mare, i suoi sogni e i termosifoni, ritrova luoghi della sua geografia mitica che scopre teatro del dolore altrui. Ed è proprio la consapevolezza del dolore degli altri, la certezza che tutti abbiamo perso qualcuno a farla sentire meno sola, a regalarle la forza di scendere a patti e fare infine pace col fantasma del padre, le mura della casa di famiglia e i silenzi carichi di rimprovero della madre.
“La mia intera vita dimostrava com’è facile amare un assente.”
La scrittura di Nadia Terranova, precisa come una coltellata ben assestata, entra nelle pieghe dell’animo e ne scuote le viscere, delinea i contorni di un’assenza più viva della vita stessa. L’assenza di un corpo da piangere e di una voce dimenticata che sono l’assenza di ogni certezza. Un’assenza che quindi si fa fisica, permeante come l’acqua, leitmotiv che si ripete per tutto il romanzo e che, dall’umidità della casa ai termosifoni guasti, dai topi sotto il lavello alla pioggia di una mattina di liceo, porta dritta fino al mare.
Il ruolo del mare nella narrazione è simile a quello del padre: sempre presente ma mai protagonista, rimane lì a farsi ammirare senza mai venire colto e rimane appena sfiorato. Scrosciante compagno delle lunghe passeggiate mattutine della madre, probabile rifugio finale del padre – che amava nuotare – e casa del suo fantasma, testimone dell’estremo controllo del corpo di un’Ida ancora ragazzina e della volatilità della sua amicizia con Sara, dimora di mostri marini leggendari e di leggeri ricordi da bambini, lo stretto di Messina rimane per tutto il tempo uno spettatore imperscrutabile, uno svago anelato e mai raggiunto, custode di tanti segreti che, alla fine, diventa il depositario naturale della scatolina rossa che contiene la voce e l’odore di Gaetano Laquidara. Perché lo Stretto è un confine che separa e unisce due terre, ma anche ciò che siamo di qua e di là da quel mare, le nostre due facce di persone mai del tutto risolte.
“A questo pensavo nell’ultimo tratto di strada, tornando a casa, mentre dal finestrino cercavo lo stesso mare della mia infanzia. Io, se volevo vivere, quel mare dovevo attraversarlo e non fermarmi: il mio posto non era Scilla né Cariddi, e forse non esisteva in nessuna carta geografica, di sicuro non era una questione di chilometri. […] Io ero fatta, in ogni atomo, dell’aria della casa di Messina, e per questo motivo avrei dovuto lasciarla. Poi le cose mi avrebbero seguito come i cani, la miseria e il fato, ma una volta al sicuro le avrei addomesticate, rese innocue, lontano dalla casa sarei stata nuda e lieve, libera.”
Ambra Stancampiano
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