Gli eroi e i miti ci aiutano a crescere. A sognare e fare i conti con i nostri limiti.

C’è chi reputa un mito un loro parente, magari uno zio o una nonna, chi un cantante, un artista, uno scrittore, uno sportivo. Uno non esclude l’altro.

Nel caso di Francesco Gavatorta il mito si è manifestato sotto forma di calciatore e, nello specifico, di Alessandro Del Piero.

Del Piero, come Paolo Maldini e Francesco Totti, è uno dei tre campioni della penultima generazione a non aver cambiato squadra: Juventus il primo, Milan e Roma gli altri due. In realtà Del Piero ha finito la carriera in Australia, ma è stata un’appendice più formativo-turistica che altro.

Gavatorta sceglie di raccontare il numero 10 bianconero attraverso dieci momenti della sua vita calcistica. Dieci capitoli contrassegnati da una data.

La parte per il tutto, quindi. Stando alla teoria dell’iceberg di Hemingway, l’autore sceglie di mostrare la punta della carriera di Del Piero per mettere in evidenza la parte nascosta.

I capitoli colgono Pinturicchio nel bel mezzo di alcuni episodi decisivi. Di solito partite in cui ha espresso un lato peculiare del suo essere calciatore e uomo.

La descrizione che ne viene fuori è molto particolareggiata e, in certi passaggi, leggere il nome di calciatori di un paio di decenni fa mette in moto una sorta di nostalgica macchina del tempo. Una piacevole macchina del tempo.

Allo stesso tempo ripensando alle gesta calcistiche e alle vicende umane di Del Piero si resta con qualche domanda senza risposta. Perché un campione come lui, in certi passaggi della carriera, ha dovuto sempre dimostrare qualcosa? Perché nonostante l’indiscutibilità del talento, per certi periodi, ha dovuto affrontare critiche, esclusioni, panchine, più di altri calciatori meno talentuosi?

C’è stato un grave infortunio, vero, ma c’è stato modo di dimostrare di essere tornato grande. C’è nel racconto di Gavatorta un filo rosso, non si capisce se voluto, o se figlio di Del Piero stesso, che fa trapelare questa sospensione, che ci lascia ancora in dubbio e non ci permette, anni dopo il suo ritiro, di capire perché è stato giudicato, a volte, con questa severità.

Del resto gli è sempre restato addosso il soprannome di Pinturicchio, un appellativo che Agnelli, che gliel’ha affibbiato, e altri hanno usato per indicare un pittore meno dotato di certi contemporanei.

Eppure basterebbe guardare con attenzione la Cappella Baglioni di Spello e l’affresco che Pinturicchio ha realizzato lì nel 1501 per ricredersi. Questa è l’opera di un grande artista.

Ecco, il libro di Gavatorta ci offre l’occasione di riconsiderare la carriera di Del Piero e di osservarla meglio così da comprenderne il valore con maggiore chiarezza.

Marco Ravasio

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