Un uomo non si metterebbe mai a scrivere un libro sulla situazione particolare di essere maschio.
Simone De Beauvoir, Il secondo sesso
Se il termine “particolare” della frase posta in esergo è rivendicato nel suo significato di “individuale”, allora il personaggio Piccolo ne L’animale che mi porto dentro ne esce sconfitto, perché essere sé stesso gli è impossibile, anche e soprattutto quando è un perdente, intendo. Un padre violento come il suo per forza di cose genera un figlio violento, che sfoga la sua frustrazione su chiunque gliene offra l’occasione: sugli amici, sui nemici, sui figli (femmina compresa), sulle donne, tutte le donne anche quelle che hanno scelto di condividere una parte o tutta della loro vita con lui. E diventa, ancora per forza di cose, ma questa volta sotto la pressione sempre presente del gruppo dei maschi, un uomo rispettoso, suo malgrado, di un codice non scritto ma condiviso dalla maggioranza degli uomini, volenti o nolenti.
Vorrebbe essere diverso dallo stereotipo del maschio mediterraneo, perché no?, un debole senza dover dimostrare niente a nessuno. Ma non può, vorrebbe ma non riesce, perché proprio quando la sensibilità dentro di lui prende il sopravvento in più occasioni nella sua vita, la bestia che si porta dentro fa capolino e diventa la sua controfigura. A suo merito, di Piccolo autore e personaggio, va la volontà di affrontare senza veli la sua virilità e la sua femminilità, che convivono forse in un precario equilibrio ma non tale da ostacolare le sue scelte di vita. Il premio che gli viene riconosciuto come scrittore lo eleva a personaggio e i vantaggi che ne derivano vengono riassunti dalla moglie in un solo termine molto eloquente: “stocazzo”, singolare di sticazzi, quasi personificazione di questi ultimi in un solo e unico esemplare, lui stesso, Francesco Piccolo.
Nella letteratura italiana conosco un precedente in Io e lui di Moravia, che non ho letto perché ho rivolto il mio interesse ad altri libri come “Io e lei”, più vicini a me. La lettura del libro di Piccolo, invece, è stata istruttiva per conoscere meglio l’altro sesso, ma l’autore, pur diventando un libro aperto per sé e per il lettore, tende a nascondersi dietro la sua condanna ad essere sempre e comunque virile e non sembra rinunciare ai vantaggi che ne conseguono.
E perché dovrebbe?
Non dobbiamo dimenticare che l’opera non è un diario intimo che nessuno leggerà, ma scritta per essere pubblicata e che vuole essere letta e comprata, rivelando solo in parte e aggiungendo corpi estranei, come ovvio. Perché ho comprato il libro di Piccolo? Perché scrive in modo accattivante e si arriva velocemente all’ultima pagina a volte ridendo, a volte sorridendo e sempre soffermandoci a riflettere. Forse Piccolo crede di poter essere diverso dopo aver confessato il suo peccato di essere maschio? Un vincente vuol essere vincente per sempre, anche se la vittoria del premio non gli ha regalato la soddisfazione più grande: il riconoscimento atteso dal padre oramai malato di Alzheimer. Crede, essendo un narcisista premiato di potersi paragonare ai grandi scrittori americani?
Non lo so, gli preme invece citare un articolo che si trova in rete dal titolo Great American Losers di Elaine Blair molto interessante e che illustra e analizza, citando David Foster Wallace e indirettamente il francese Houellebecq, le differenze tra due generazioni di grandi scrittori maschi americani: da una parte Roth (molto amato da Piccolo), Mailer e Updike (i Grandi Maschi Narcisisti) contrapposti alla giovane generazione, i cosiddetti Perdenti, che a differenza dei mostri del passato danno spazio e visibilità al lato meno bestiale e più sentimentale dei loro personaggi letterari, stipulando un vero e proprio contratto/captatio benevolentiae con il pubblico dei lettori che là in America, come nel resto del mondo, è rappresentato per la maggior parte da donne, pardon, femmine.
E Piccolo come ne esce da questo confronto?
Premettendo che conosco alcune opere di Roth ma non quelle dei giovani scrittori americani perdenti, se non attraverso le citazioni riportate dall’articolo della Blair, direi che Piccolo tenta di far quadrare il cerchio: opta per bestialità e sensibilità insieme riconoscendone la convivenza ancora presente in lui e nei maschi, anche in quelli che negano di avere un lato bestiale. Dal libro non risulta che l’autore/personaggio si sia mai confrontato a parole su “la bestia che mi porto dentro” con altri maschi o femmine che siano, ha voluto invece raccogliere e dare forma ai suoi frammenti amorosi.
Come donna, non posso non notare che la bestia è lo spirito gregario che caratterizza ancora, purtroppo, in prevalenza il sesso maschile ma che per emulazione, forse alla ricerca di una qualche parità, si estende a chiunque e che definirei vero e proprio bullismo: Piccolo ammette di essere stato un bulletto, poi un bullo e non può fare a meno di esserlo ancora. Chi si dispiace è la famiglia o gli amici che devono subire le sue minacce bestiali nei suoi accessi d’ira incontenibile e irrefrenabile. Nonostante ciò Piccolo si definisce “intellettuale sentimentale meridionale”, che, tradotto sta per “intellettuale sentimentale, e, bestiale per lignaggio”.
Piccolo ha il merito di mescolare cultura alta e cultura bassa, riconoscendo a entrambe il loro valore nella sua formazione, quindi, citando Sandokan di Salgari, il film Malizia di Samperi, la rivista Lando li affronta come si fa con qualsiasi opera che percepiamo rivolta direttamente a noi. Nelle sue analisi inserisce anche L’amica geniale della Ferrante riportando l’episodio del tradimento del marito di Elena, Nino, con la cameriera vecchia e brutta, con cui consuma un rapporto sessuale di tipo bestiale e mi viene da pensare che chi ha scritto L’amica geniale possa essere un uomo perché solo un uomo poteva attribuire a Nino un tale immaginario.
E ritornando alla questione degli scrittori americani narcisisti vs perdenti, tutto sommato, attribuire la saga a un’autrice femminile come la fittizia Elena Ferrante, potrebbe essere una scelta operata ad hoc con ben presente il target a cui si rivolge, ribaltando quanto in passato le autrici dovevano od erano obbligate a fare per essere sicure di avere lettori, fino, cioè, ad inventarsi un alter ego maschile di facciata.
Ritornando velocemente al romanzo di Piccolo, anche se mi piacerebbe raccontarvi di più, egli si mette a nudo, sì, ma senza mea culpa, anzi, si autoassolve dopo aver vuotato il sacco, autorizzandosi ad essere come è stato forgiato dalla comunità dei maschi e da cui sa che non ci si può liberare facilmente, anche se si è raggiunta la consapevolezza del vantaggio/svantaggio di appartenervi. E una nota di merito ancora va all’autore per la franchezza del linguaggio che senza giri di parole narra in modo esplicito e diretto le sue esperienze sentimental-sessuali e, inoltre, attraverso la sua pubblica analisi interiore lo ringraziamo per averci messo in guardia perché, attenzione donne, il mondo è ancora in mano ai maschi.
Laura Ivani
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