Non spezzavo un pettine, spezzavo una trave, spezzavo chi mi spezzava, me stessa, dato che spezzarmi bisognava. Un urlo, un gesto, tutto tornò nel silenzio e nella calma.

Dolores Prato, Giù la piazza non c’è nessuno

La storia di Quel luogo a me proibito si deposita in quei dopo, dentro, sotto, in fondo, sempre più in fondo all’anima dell’io narrante, io narrato e di Elisa Ruotolo, la scrittrice. Attraverso tre blocchi narrativi condensati in modo assolutamente poetico e vibrante, Elisa Ruotolo ci mette sotto gli occhi le scene significative, solo quelle. I momenti chiave, quelli in cui si nasce e si muore, e che, in qualche modo, nonostante le parole, restano comunque stretti come buchi di serratura.

“Tutto è cominciato prima di me”. A voler dire che qualcosa ci aspetta già lì, sulla soglia, quando nasciamo, sotto la prima carezza e dentro al primo sguardo, pronto a determinarci e a dividerci. Così inizia l’ultimo romanzo di Elisa Ruotolo, con questa frase perfetta ed universale. Un punto di partenza che in realtà è la conclusione di una riflessione lunga come un interminabile approdo, un appiglio stretto sotto le unghie. Bastano poche pagine, e la voce narrante ha un bisogno urgente di smascherarsi, di mostrarsi per quello che è: un essere che spia la vita intorno a sé mentre ne spegne ogni battito dentro. La protagonista resta ferma a origliare la vita che cresce anche malamente negli altri e che in lei resta ferma, legata, inibita. Perché?

C’è un film dell’illustratore giapponese Miyazaki, Il castello errante di Howl, tratto a sua volta da un romanzo. La protagonista Sophie cuce cappelli demodé in un angolo sul davanzale che dà sulla finestra, che dà sulla vita, sulla violenza della guerra, sull’amore e sulle ragazze che vivono la femminilità in modo più chiassoso. La ragazza spia con avidità dal suo luogo proibito, che è quello dell’insognazione. Ma la vita arriva comunque, e la rapisce via in un volo seducente tra le braccia di Howl, un mago bellissimo. E una volta che ti mischi con la vita non puoi più sottrarti. Così una stregoneria la trasforma in quello che in fondo la ragazza è sempre stata nell’animo: una vecchia, molto vecchia. Una di quelle vecchine centenarie, rugose come una grande quercia, ingobbita e mansueta. Attraverso la storia, che è una storia di scoperta dell’amore ma soprattutto di scoperta di se stessi, e del coraggio di cui Sophie è capace ( che forse poi è la vera giovinezza, e quindi la vera bellezza, almeno quella più appagante), in un meraviglioso viaggio a ritroso, in cui in fondo si è vecchi sin dall’inizio, Sophie va riacquistando le forze, l’energia e la vitalità. Il corpo si raddrizza, si rimpolpa e i capelli bianchi si colorano ma solo appena. Quando la ragazza ritrova se stessa quei capelli resteranno una patina trasparente perché sono la prova di un passaggio, di una crescita. Perché quella vecchiaia che nascondeva dentro ora Sophie la può esibire senza vergognarsene. La può portare anche fuori. Il castello è il luogo proibito di Howl, il mago bellissimo di cui dicevo. È ovunque e in nessun luogo, è una porta che si apre sui sogni e sugli incubi, sui luoghi della memoria, su molteplici città dove rifugiarsi, sui rifugi che finiscono per coincidere con quelli di Sophie. Fino a quando il castello crolla su se stesso, e il luogo proibito finalmente è quello che doveva essere: ovvero il luogo dove disfarsi di qualcosa e quindi da disfare.

Perché la narratrice di Quel luogo a me proibito spia la vita attorno come Sophie? Perché è buona, di quella bontà che sconfina nell’innocenza, e in una totale assenza di malizia. Anche. Perché è timida fino ad essere bloccata. Bloccata da cosa? Dalla paura. Soprattutto. Ma c’è qualcos’altro. Lei, la voce narrante, resta ad osservare anche per un sottile piacere a tratti sadico: restare dalla parte del bene mentre gli altri sbagliano, salvo sbagliare comunque e cioè vivere ma di nascosto. Una specie di efferatezza della normalità. Quando finalmente da adulta, vincendo la paura di perdersi, la narratrice entra nella stazione e poi raggiunge la vicina città di Napoli, si rende conto che è stato il suo sguardo, sono state le sue emozioni a sporcare luoghi e persone di per sé indifferenti. In realtà luoghi come la stazione di un paese di provincia, o la città, Napoli o qualsiasi altra, per chi la vive dalla provincia, sono luoghi ambivalenti, di passaggio del bene e del male. Sono posti imbrattati, in cui si rifugiano il peccato e l’infelicità. Tutto questo male non sta solo nei nostri occhi. Sta anche lì, fuori, assieme ad altro, alla luce, a quello che non fa male, o è assolutamente trascurabile. Gli occhi della protagonista sono però attirati dall’ombra. La amplificano, la popolano, traendone un sottile piacere, perché quella voce che sta prima, che è cominciata prima di lei e del suo racconto, l’ha tenuta lontana da lì, deformando quel fuori ad ogni monito e ad ogni proibizione.

Quando finalmente la narratrice mette piede nella famosa stazione e poi arriva a Napoli in realtà si rende conto che quello non era il luogo proibito, e che quei luoghi, la stazione, il treno, la città assieme al tempo dell’adolescenza e della giovinezza in cui si era sentita attirata da quegli spazi preclusi, non può recuperarli, frequentandoli da adulta. Li ha perduti per sempre. E in qualche modo nel corso del romanzo capisce che i luoghi che invece non ha perso e che non sono indifferenti a lei, sono proprio quelli in cui l’hanno portata le proibizioni.

Il luogo proibito del titolo sono in realtà diversi luoghi. Il luogo dal quale la scrittrice si è abituata a pensare che tutto il resto fosse inaccessibile, una specie di recinto protettivo ma anche una gabbia. È lo spazio dove il tempo è immobile, tanto immobile da sembrare di aver lasciato la vita intatta, dove non c’è superficie per il mutamento, ma dove il tempo si è perduto in blocco e si è morti comunque. Il luogo dove la scrittrice non vuole mischiarsi al dolore, eppure luogo della commistione, dove le ossa di una nonna paterna simbolo di tutta la femminilità sopraffatta fino all’anonimato, sono anche quelle della narratrice, in un colombario comune. Dove un sentimento si converte nel suo opposto, la bontà finisce e comincia la spietatezza.

È il luogo della segregazione e dell’addomesticamento, in cui l’anatomia si fa destino. La casa in cui, come una litania distratta e insidiosa, ritornano tutti gli insegnamenti della madre e con lei di tante madri passate e presenti. Non correre, non litigare, non ribellarti, non mostrarti, fai la brava ragazza, la ragazza perbene, non dare alla gente motivo di parlare e sparlare di te, “troppa vita fa male, prendila in piccole dosi, se riesci prendine il meno possibile: è una roba che inquieta e tu non sapresti reggerla”. Ruotolo riassume tutto il peso e il nocciolo di quella femminilità tramandata di madre in figlia sotto lo sguardo castratore del padre in una mezza pagina mirabile, lasciata lì per noi con la precisione di una gesto sbadato.

È il luogo a cui non si ha accesso perché tutto è già successo prima di lei, la storia è cominciata prima di lei. Eppure l’unico luogo in cui la voce narrante può vivere e in cui si muove abilmente. È il luogo dei genitori, quello interdetto della loro intimità, eppure condiviso fin nei gemiti soffocati, visto che la bambina dormiva nella stessa stanza. Il luogo dell’intimità animale eppure luogo della virginità, quella spietata e infertile dove l’io narrante trova rifugio dal disamore di una coppia genitoriale troppo presa da se stessa, che ha solo generato. È il luogo di una famiglia che divora ogni spazio di vita, che funziona per osmosi senza via di scampo, che succhia la giovinezza dei figli in un meccanismo cieco che genera fatica e ne è vinta. Ma è anche il luogo in cui la narratrice si salva dalla disumanità della famiglia. È il luogo dove l’ha messa violentemente il padre, lo stesso uomo che con una brutalità assoluta ha confinato il cane sul tetto, legato a una catena sotto una lamiera improvvisata. Ma è anche il luogo della madre, come principio opposto, che però è imploso.

Nella seconda parte del romanzo diventerà il luogo di Andrea, l’uomo di cui la narratrice si innamora, senza ritegni, come una ragazzina. Andrea fa una vita quasi animale nella sua essenzialità e voracità, randagia. Il luogo di Andrea e il luogo proibito, che sta fuori, anche se la voce narrante vuole portarlo dentro di lei, nella stanza interna che abita lei. “Mi domandavo chi avrebbe voluto vivere o abitare me”. Qui, finalmente, il luogo proibito diventa il luogo del desiderio, come l’aggettivo proibito ci induceva a pensare fin dall’inizio. Ma solo per poco, prima di sfociare di nuovo nel terreno opposto della rimozione e degli atti compensatori.

È il luogo arcaico, di un arcaico anche eccessivo da sembrare quasi inverosimile ma è anche il luogo dove questo mondo deflagra quando vediamo la narratrice sotto il peso di una luce esecrabile, in una casa fatiscente dove segue Andrea, su un lenzuolo dove si fa protagonista di una pratica sessuale estrema. È l’ora del piacere ma di un piacere che passa fuori del corpo.

Abbiamo quasi la stessa età, quarantenni, proveniamo dalla stessa regione, ma soprattutto da quelle zone periferiche, limitrofe a Napoli dove il progresso avanza disordinatamente forse appena più disordinatamente e rumorosamente che altrove. Soprattutto abbiamo in comune alcune delle parole che Elisa Ruotolo racconta, perché in questo romanzo le parole non sono solo le unità e gli spazi del narrare ma sono anche oggetti del racconto, si mettono tra le espressioni, si aggiustano in bocca, si danno e si sottraggono, si derubano, si assaporano, sono cuscini su cui si dorme, ti assediano, non sono mai abbastanza. Testimoni che si passano e si tramandano.

Una parola è sicuramente vergogna. Parola che poi si sgrana in onore (e disonore), pudore, testa bassa e tutti quei brani di stoffa che hanno cucito l’abito della donna. Quell’abito l’ho visto portare alle mie nonne. Mia madre lo indossava ancora, assieme al taglio di quei capelli lunghi che ho potuto vedere solo in una polaroid sbiadita, e alla gonna bon ton appena sopra il ginocchio. Le donne della generazione della scrittrice l’hanno scucito in modi molteplici con grazia e senza grazia. Eppure in qualche modo, almeno io me lo sento addosso come un polsino da cui spunta l’orlo. Elena Ferrante ha raccontato quanto la madre, anche lei sarta, mettesse e togliesse alla propria femminilità mentre cuciva. Di come lei stessa bambina, si andasse formando come donna osservandola cucire. Ipnotizzata da quel gesto sgarbato perché era come un cerchio da cui teneva lontane le figlie, amaro perché dentro c’erano anche l’invidia per la signora che commissionava l’abito e l’avrebbe indossato, annoiato perché era un mestiere a cui erano state costrette, ed economico perché tutto il resto, la restante quotidianità incombeva. La Ferrante la guardava ipnotizzata perché sotto tutta quella sofferenza intravedeva anche l’ora della sua vera bellezza, ovvero di una libertà anche se stretta, compromessa e affamata. Ruotolo in questo romanzo ridisegna millimetro su millimetro quel cartamodello, rinomina gli insegnamenti che sua madre gli impartiva mentre cuciva, “Non perderci tempo e testa appresso ai maschi, o la vita non sarà più roba tua”. Ricuce l’abito e se lo rimette addosso con un gesto così infinitesimale da sembrare che in realtà non se lo sia mai tolto. Lo indossa e poi lo deflora sotto una luce di un candore violento, con questa frase: “il battesimo della carne, la mattanza del candore”. Qui, nella casa dove la porterà Andrea, la narratrice è capace, con un coraggio estremo, di dare piacere e godimento anche alla catena di desideri imbavagliati.

Come per Lena, la narratrice de L’amica geniale, anche la bambina Ruotolo tocca la vita attraverso le mani di una sua coetanea, Nicla, che è il suo opposto, una bambina precoce, una donna già fatta, ostinata, e crudele. Nicla e Ruotolo sono anche una miniatura di Lina e Lenù. Ma mentre Lina nel corso del romanzo di Ferrante, va piano piano scomparendo fino a diventare un alter ego forse mai esistito. Qui Nicla scompare all’inizio, quando abbandona la scuola, sciogliendosi nell’evanescenza di un fantasma associato al piacere e al dolore. Ma pezzo a pezzo ritorna, si materializza di nuovo fuori della scuola per le lezioni serali. Torna per offrire una consolazione sterile e crudele quella che in fondo l’io narrato aveva cercato da bambina nella madre.

Un’altra parola che riconosco è quella che gira e rigira intorno alla madre. La cosa che avevo dentro, scrive Elisa Ruotolo, veniva da lei. Sta parlando della fame di letture, quelle su cui si è consumata gli occhi. Ma ovviamente “da lei” viene molto altro. La madre è una presenza centrale eppure continuamente scansata. In realtà spiata nella vestaglia in cui trascina la sua depressione senza che ce ne rendiamo conto fino a quando, nelle ultime pagine, l’io narrante ritorna sulla scena primaria, ricordando quella notte in cui l’ha spiata. I bambini spiano continuamente le loro madri. Le bambine sicuramente più a lungo e insistentemente, per difendere la loro bellezza e giovinezza da una minaccia o per scoprirle colpevoli di ciò da cui ci sentiamo minacciati. Elisa Ruotolo, perché qui non posso che dare il nome della scrittrice all’io narrato, l’ha sorpresa discinta e bella, troppo bella. E quell’audacia della donna nello specchiarsi le fa provare vergogna e quindi la ferisce, fino all’odio. Di nuovo qui non posso non ricordare Elena Ferrante. Sua madre (la sarta di cui parla in Frantumaglia) e Amalia ne L’amore molesto invece mostrano la loro femminilità, anche se di nascosto o in modi doppi. Anche qui il desiderio e la femminilità sono associati alla parte più animale. La bestia che portiamo tutti dentro, uomini e donne. E a un sentimento di allarme, sofferenza e di mortificazione dei tratti femminili nella figlia oramai ragazza. Tanto che ne L’amore molesto, Delia si presenta all’inizio della sua discesa agli inferi come una figura rigida e poco femminile. Però Delia in qualche modo scioglie l’enigma o almeno la scrittrice percorre la strada che porta giù nello scantinato. Qui, in Quel luogo a me proibito, la figura materna appare solo nello spazio di una scheggia, di un sogno, di una preghiera troppo breve, mamma dimmi di lasciarmi andare, di una preghiera che non può essere esaudita. E la discesa della scrittrice nel rapporto con la madre sbatte su una parola e un rimpianto: “invece bisognava solo amarla, quella donna, che al mattino era tornata nostra madre, e con lei amare anche l’animale che le dormiva dentro”.

Le parole formano degli interstizi tra i luoghi. Questi interstizi sono, almeno per me, il vero posto intimo e proibito che dà il titolo al romanzo: interstizi, membrane sublimi di fragilità, quelle che possediamo tutti noi, quelle dell’anima che può stare solo all’altezza del corpo. E allora mi sembra di afferrare meglio il senso dell’aggettivo proibito. Proibito è il luogo che ognuno di noi si porta dentro, quella parte di vita altrui che nessuno può conoscere e basta. Il luogo della storia personale in cui possiamo riappropriarci di quello che è inconscio, del linguaggio, dei significati, e dove ci facciamo artefici delle nostre castrazioni e ricongiungimenti. Per Elisa Ruotolo questo luogo è la scrittura che è anche un abbozzo, “un rigo qualunque. Che non chiude e non conclude. Che non dà pace, né fine.”

Silvia Acierno

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