(Intro)

Questa mattina vedo – immagino – il lungo corridoio di un’università: adesso siamo a Denver, in pieno Colorado, in piene Rocky Mountain. È un edificio austero, probabilmente antico. Altri edifici e alberi, da una finestra in fondo. Un sole tiepido, che non riscalda ancora, che illumina le cose eppure non abbaglia. Dev’essere mattina anche laggiù.

Immagino una porta, accanto alla finestra. Vicino a quella porta c’è una sedia. Seduto sulla sedia, un uomo elegante, più o meno quarant’anni: capelli scuri, giacca e cravatta, la piega perfetta dei calzoni, la montatura nera, severa degli occhiali. È un professore di letteratura. Un professore e insieme uno scrittore. Ha pubblicato il suo terzo romanzo.

Se ne sta lì, come se niente fosse, seduto sulla sedia.

Aspetta già da un po’, guardandosi intorno. Continua ad aspettare. Aspetta che qualcuno, un suo collega, una collega, uno degli studenti, attraversando il corridoio si fermi lì davanti, per stringergli la mano – “In bocca al lupo, John, per il tuo nuovo libro”, “Lo sto leggendo, John”, “Auguri, professore”.

Continua ad aspettare, ancora per un attimo. Le lenti spesse velano gli occhi azzurri, grandi. Il tempo passa, e nessuno si ferma. Ci sono cenni di saluto, certo, e gesti frettolosi. “Buongiorno, John, come ti va?” “Bella giornata, professore.” “Devo scappare, scusa. A dopo.”

E così l’uomo – immagino – sospira e poi si alza, sistema la cravatta, si dà un’occhiata intorno, l’ultima, s’infila in quella porta – un’aula oppure un ufficio – e scompare alla vista.

Ha esattamente quarantatré anni, il giorno in cui accade quello che ho immaginato – ricordo di aver letto di un episodio simile, ma non ricordo dove, non mi ricordo quando. È il suo terzo romanzo, vi dicevo. Ed è il ‘65, il mese di aprile. È primavera, a Denver, Colorado (la casa di Kent Haruf, ricordate?). Il sole è ancora tiepido. Altri edifici e alberi, fuori dalla finestra, illuminati appena. Vediamo il corridoio, adesso, e gente che cammina avanti e indietro, e quella sedia vuota.

Un altro autore, l’anno prima, ha pubblicato il proprio romanzo – per il medesimo editore, Viking Press – intitolato Herzog. L’autore di Herzog si chiama Saul Bellow.

Le storie che hanno raccontato, lui e Bellow, sembrano assomigliarsi: due professori in entrambi i romanzi, due mogli fredde, due figlie per cui entrambi stravedono, due amanti – e loro studentesse – e due “nemici” claudicanti.

Sembrano assomigliarsi, sì. Ma il libro di Saul Bellow è diventato subito un bestseller: copie che vanno come il pane. Il libro di quell’uomo, invece – scomparso dentro un’aula oppure in un ufficio – sta vendendo pochissimo. Quasi nessuno se n’è accorto. Alcune buone recensioni ma un’accoglienza tiepida, come il sole di aprile.

L’immagine di lui, seduto ad aspettare, è la metafora di ciò che sta accadendo a quel, intitolato Stoner (di quello che succede a certi autori, lasciatemelo dire).

Comunque, Herzog comincia così:

Se sono matto, per me va benissimo, pensò Moses Herzog. C’era della gente che pensava che fosse toccato, e per qualche tempo persino lui l’aveva dubitato. Ma adesso, benché continuasse a comportarsi in maniera un po’ stramba, si sentiva pieno di fiducia, allegro, lucido e forte. Gli pareva d’essere stregato, e scriveva lettere alla gente più impensata… Lì, nascosto in mezzo alla campagna, scriveva a più non posso, freneticamente… e finì per scrivere pure ai morti, prima ai suoi morti e poi ai morti famosi.

Mentre il romanzo dell’uomo ora svanito comincia in questo modo:

William Stoner si iscrisse all’Università del Missouri nel 1910, all’età di diciannove anni. Otto anni dopo, al culmine della prima guerra mondiale, gli fu conferito il dottorato in Filosofia e ottenne un incarico presso la stessa università, dove restò a insegnar fino alla sua morte, nel 1956. Non superò mai il grado di ricercatore, e pochi studenti, dopo aver frequentato i suoi corsi, serbarono di lui un ricordo nitido.

Proprio due mondi, non credete? Lo si capisce subito.

Uno va come il pane, l’altro si muove a stento. Sono i protagonisti a fare differenza, a entusiasmare o meno, ad attrarre i lettori oppure no?

Herzog è foolish, feeling, suffering, e scrive le sue lettere, per tutto il romanzo, endlessly e fanatically – ha pubblicato un libro sul Romanticismo, guarda caso, e ne sta scrivendo un altro. Stoner, come su un altro mondo, appunto (venuto al mondo in una fattoria sperduta nel Missouri) è merely a sound, qualcuno di cui ci si dimentica. Un suono flebile, sottile, che si perde nel vento. È poco più che un’ombra.

Qualcuno di cui pochi conservano memoria.

Il sole si sta alzando, sulla città di Denver, e tira – immagino anche questo – un venticello fresco.

L’uomo elegante, piccolo di statura, compare di nuovo in corridoio: una cartella di pelle sotto un braccio, un paio di libri sotto l’altro. Una cravatta nera, una giacca sportiva, una camicia bianca. Chiude la porta alle sue spalle, percorre il corridoio. Dall’espressione – lo vedo chiaramente – pare che stia pensando.

“Non mi pare un libro dalle grandi potenzialità di vendita”, gli ha detto la sua agente, Marie Rodell, un paio di anni prima, dopo aver letto il manoscritto (a questo sta pensando, lungo quel corridoio?). Era il ’63.

“Diverse altre persone ora hanno letto il manoscritto”, ha aggiunto, “e concordiamo tutti che è un libro a cui prestare il massimo rispetto, ma ha un personaggio così incolore che sarebbe improbabile venderlo in edizione cartonata e quasi impossibile venderlo in edizione cartonata”.

Lui – John – con gli occhi azzurri velati dalle lenti, la montatura nera, severa degli occhiali, sempre elegante, le ha risposto così:

Ho il sospetto che tu abbia ragione riguardo le potenzialità commerciali del libro, ma credo che a questo proposito il mio romanzo possa riservarci sorprese. Certo non mi illudo che diventi un bestseller o qualcosa di simile, ma se verrà presentato come si deve (c’è sempre questo alibi) – cioè se l’editore non lo proporrà solo come l’ennesimo “romanzo accademico”, potrebbe vendere bene. L’unica cosa di cui sono certo è che si tratti di un bel romanzo: col tempo potrebbe persino essere considerato un romanzo molto bello.

E infatti il libro è stato pubblicato, no?

Eppure Marie aveva ragione, forse. Avevano ragione, tutti quanti, si sta chiedendo adesso. È un personaggio così tanto incolore, il suo?

Quell’anno è un anno importante. In Cina comincia la rivoluzione culturale. Muoiono Churchill e poi, subito dopo, Malcom X (gennaio e febbraio). La guerra in Vietnam (l’orrore è ancora lungo) e la marcia di Selma.

Ma quel romanzo, Stoner, che sta vendendo poco – non verrà neppure ristampato – racconta una storia privatissima, la storia di un uomo nato a Booneville, nel Missouri, in una fattoria.

Un contadino che si fa professore, un uomo quieto, parecchio silenzioso. Niente di foolish, feeling, suffering, niente di romantico, niente di appassionato, o almeno così pare. La storia di un uomo dal nome di pietra. Un suono flebile, raccolto. Solo un sussurro, una vita qualunque.

L’uomo elegante – John, cresciuto in Texas, figlio di un custode di un ufficio postale – saluta un suo collega, un gruppo di studenti. Aggiusta la cartella sotto il braccio. È ancora amareggiato, dopo la lunga attesa.

Sta ritornando a casa o sta andando a lezione, una delle due cose – chi lo sa? Cammina lentamente, perciò riusciamo a seguirlo, nell’edificio austero dell’università.

Ma poi, all’improvviso, qualcuno lo chiama: “Professor Williams? Scusi?”, una voce qualunque alle sue spalle – probabilmente noi, sarebbe bello – e allora lui si volta e lo vediamo in faccia. Ci guarda, per un attimo, dalla vertigine di più di quarant’anni trascorsi da quel giorno, da quella primavera, un tempo così lungo, socchiude gli occhi e poi risponde: “Sì?”.

Elena Varvello

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