Era gentile, John. Gentile ed elegante.

Nel campus dell’università di Denver, ai piedi delle Montagne Rocciose, te lo vedevi lì che camminava, in giacca e cravatta, il nodo Windsor curatissimo, oppure con un foulard a pois, un po’ più eccentrico, dopo la recensione pessima del New York Times al suo secondo libro – Butcher’s Crossing, pubblicato nel ‘60 – liquidato come un “orribile romanzo western”.

“Ehi? Sono comunque uno scrittore”, pareva che dicesse con quel foulard a pois, “riuscite a vedermi?”.

La brillantina nei capelli, e un ciuffo sulla fronte. La sigaretta dentro un bocchino in legno.

Era gentile ed elegante. Ed era divertente, in piedi dentro un’aula insieme ai suoi studenti. Ma soprattutto questo: sapeva quello che diceva, John, e lo capivi subito, sentendolo parlare.

Sapeva esattamente quello che diceva.

Ora (aprile del ’65), mentre gli andiamo dietro nei corridoi austeri dell’università, si volta per un attimo – ci siamo lasciati così, due settimane fa, vi ricordate? – e ci guarda negli occhi, con quei suoi occhi azzurri, grandi, sotto le lenti degli occhiali. Quelle sue mani piccole – grandissime – che hanno composto Stoner, appena pubblicato.

“Sì?”, dice, perché abbiamo pronunciato il suo nome, chiamandolo. La luce si riflette sulle sue lenti spesse e sui capelli scuri. “State cercando me?”

I. Prima

Non si chiamava Stoner, da principio. S’intitolava A flaw of light (flaw: difetto, pecca, imperfezione). E poi, più avanti, A matter of love.

Inverno del ’63 e primi mesi del ‘64: molti editori avevano già letto e restituito il manoscritto, con un sonoro no. No, grazie, grazie tante. Parecchio deprimente, pensavano, e parecchio incolore. Come potremmo venderlo? Chi mai vorrebbe leggere una storia del genere?

Durante un party in facoltà, qualcuno aveva chiesto a qualcun altro, mentre indicava John: “E quello lì chi è?”, e si era sentito rispondere: “Uno scrittore western”.

Non c’era nessun premio appeso nel suo ufficio, un ufficetto angusto, nessuna attestazione di riconoscimento.

“È inutile che io scriva romanzi”, aveva detto lui, un giorno, mentre spegneva un’altra sigaretta, provato dai rifiuti. Non c’è niente da fare. Non è destino, forse.

Ma quella primavera (giugno ’64), Colliers M. Smith, un collaboratore dell’editore Viking Press, trovò in casa editrice, al numero 625 di Madison Avenue, New York, il manoscritto intitolato A matter of love.

Non fece nulla di diverso da quello che si supponeva avrebbe fatto: incominciare a leggere. Perciò si mise a leggere, semplicemente questo, facendo il suo lavoro, e facendolo bene. E quell’estate (luglio del ’64) decise di acquistarlo.

Il libro uscì in aprile, l’anno dopo, col titolo che oggi conosciamo (e che, l’avrete capito, amo follemente). Stoner. Tutto sembrava andare per il meglio.

“State cercando me?”, direbbe l’uomo, John, guardandoci con quei suoi occhi azzurri, nel campus dell’università.
“Esatto, signor Williams, la stavamo cercando.”
“Davvero?”, e gli occhi sbatterebbero un istante, probabilmente increduli, stupiti, come volesse dire: “Sul serio? E perché mai?”.

II. Dopo

Le cose non andarono davvero per il meglio. Alcune recensioni tiepide. Copie vendute: poche. Era un romanzo incolore, no? Una vita qualunque, quella del suo protagonista, William Stoner, un personaggio scialbo, del tutto irrilevante. La vita di un modesto professore di letteratura, nel Missouri: e chi vorrebbe leggere la storia di un uomo così? Piena di fallimenti, con poche luci deboli. Oddio, per carità.

(È la domanda stessa – chi vorrebbe leggere una storia così? – ad essere sbagliata, a presuppore un pregiudizio. Di quale pregiudizio sto parlando? Be’, che la letteratura non debba mai posare il proprio sguardo su ciò che erroneamente parecchi ancora definiscono le “vite comuni”; che non sia il luogo della profondità ma di un’eccezionalità tutta superficiale, fatta soltanto di superfici scintillanti, alla ricerca dell’eccentrico, del narrativamente eccezionale, dell’immediatamente roboante, come se ciascuna vita non fosse di per sé del tutto eccezionale; che la letteratura non sia fatta innanzi tutto di linguaggio e insieme, intimamente, di una profondità di sguardo che trova irripetibile ciascuna esistenza, in quanto portatrice del mistero di quella condizione che è la vita.

Nessuna vita è mai comune, o mai dovrebbe esserlo, agli occhi di un autore o di un’autrice che sappiano davvero cos’è scrivere, e cos’è raccontare.)

Le cose non andavano bene, dicevamo. Ma quasi un anno dopo – evviva – uscì la recensione di Irving Howe, sulla rivista The New Republic.

Quella recensione pareva voler ribaltare il pregiudizio, la sensazione erronea della mediocrità di Stoner, di una vita incolore. Erano parole che avrebbero dovuto rimettere in questione tutto quanto:

Data la quantità di narrativa pubblicata ogni anno in questo paese, sembra inevitabile che la maggior parte dei romanzi debba essere ignorata e che nel mucchio ci siano anche opere eccellenti. Stoner, un libro che ha ricevuto scarsissima attenzione alla sua uscita, qualche mese fa, credo che sia una di queste… Williams scrive con disciplina e forza: è devoto alla frase come forma e indifferente al richiamo delle immagini.

Fu proprio il giorno dopo – sono riuscita a rintracciare l’episodio – che l’uomo, John, arrivò presto all’università, e si sedette, elegantissimo, accanto alla cassetta delle poste dei docenti, fumando e bevendo caffè.

Si sedette in attesa.

Rimase lì seduto ad aspettare un segno, un gesto di stima, una parola di condivisione – ne aveva bisogno – mentre i colleghi andavano e venivano (molti di loro, lui lo sapeva, erano abbonati a The New Republic: dovevano aver letto quella recensione).

La maggior parte non si fermò neppure: nessuno disse niente. Così, alla fine, lui si alzò ed entrò nel suo ufficio.

(Mi chiedo spesso come si sia sentito, che cosa abbia provato, quando si chiuse alle spalle la porta dell’ufficio, e permettetemi di dire che capisco e che me ne dispiaccio e che vorrei rassicurarlo: “Vedrai che un giorno cambierà”).

La recensione non servì: il libro continuò a vendere pochissimo, e presto uscì fuori catalogo. Lui, John, arrivò a vincere (ex-aequo: la prima volta nella storia del premio) il National Book Award con il romanzo successivo, Augustus.

Era il ’73. Ma poi tornò nell’ombra.

Non smise di insegnare (amava il suo lavoro e gli studenti). Sempre elegante e colto e divertente. Non smise soprattutto di chiedersi il perché. Perché, agli occhi del mondo, era riuscito appena a stare a galla, senza nuotare mai davvero né andare lontano? Perché?

E poi morì, nel marzo del ’94.

Però, però…

III. Ancora

Quello che accadde dopo, negli anni che seguirono, è un punto di speranza. È una compensazione. È il segno della forza inesauribile della letteratura, quella vera.

La vita di Stoner non affondò del tutto, e quel romanzo – così enigmatico, perfetto e verticale – riemerse di frequente (un articolo qui, un altro lì, un consiglio di lettura).

Passò di bocca in bocca, senza troppi clamori, a tratti scomparendo, a tratti riemergendo, fino al 2006, quando venne ripubblicato nella collana Classics della New York Review of Books, e tutto il resto è storia (almeno qui, in Europa, dove ha trovato decine di migliaia di lettori, mentre gli americani sembrano in parte ancora scettici, ancora diffidenti).

Nel romanzo, aveva detto un giorno John a Marie Rodell, la sua agente, parlando di Stoner, succede molto di più di quanto appaia in superficie, e la sua tecnica è molto più rivoluzionaria di quanto sembri.

È la profondità, vorremmo dire all’uomo con quei grandissimi occhi azzurri, all’università di Denver, Colorado, ai piedi delle Montagne Rocciose.

È la profondità, professor Williams, John. È la profondità a essere rivoluzionaria. È sempre stato così.

Ed è la vita stessa a esserlo, quando la guardi a fondo, dovunque lei accada, in ogni forma, anche la più sperduta, la più apparentemente indistinguibile. Ma può volerci tempo, John, ci possono volere molti anni prima che lo si riconosca, e ci dispiace molto.

Ci dispiace sul serio.

“Da dove venite?”, ci chiederebbe lui, guardando i nostri abiti e le scarpe, i nostri tagli di capelli, i nostri cellulari.
“Veniamo da lontano.”
“Lontano dove?”
“Sarebbe lungo raccontarle. Ma siamo qui per lei.”
“Sul serio?”
“Abbiamo letto il suo romanzo, e volevamo ringraziarla.”
“Tu guarda. Dite davvero? L’avete letto?”
“Sì.”
“Ok, va bene. Allora grazie a voi.”

Lo seguiremmo fuori, nella luce morente del tardo pomeriggio, a Denver, Colorado, nel 1965. Continueremmo a chiacchierare (credo che ne sarebbe contento, gentile ed elegante come sempre), allontanandoci dal campus e dallo sguardo degli altri, e diventando via via sempre più piccoli, ancora più piccoli, ancora un po’ di più, puntini su uno sfondo, tutti quanti, e insieme irripetibili, grandissimi, per poi svanire all’orizzonte, senza svanire mai del tutto.

PS:
Scrivo dell’esperienza umana per poterla capire, attenendomi perciò a una forma di onestà. (Parole di John, da un’intervista del 1964. Parole da scolpire, punto e basta. Non scriverei neppure una riga se non fosse così. Scrivere, altrimenti, non avrebbe senso.)

Elena Varvello

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