«Siamo il regno ininterrotto del lentisco, / delle onde che ruscellano i graniti antichi, / della rosa canina, / del vento, dell’immensità del mare. / Siamo una terra antica di lunghi silenzi, / di orizzonti ampi e puri, di piante fosche, / di montagne bruciate dal sole e dalla vendetta. / Noi siamo sardi».
Un amore vero, quello che scorreva tra Grazia Deledda e la sua Sardegna. Una vita da poliglotta tra la sua lingua (il sardo) e l’italiano che aveva tanto studiato da autodidatta.

Sì, perché se l’istruzione oggi è estesa in egual misura a maschi e femmine in Italia, a quel tempo era concepita solo fino all’istruzione elementare. Il suo amore e la sua determinazione l’hanno portata a divenire la seconda donna a vincere il Premio Nobel per la letteratura (la prima e unica donna italiana a vincerlo). Nel suo discorso pronunciato durante la premiazione dichiarò: «quando cominciai a scrivere, a tredici anni, fui contrariata dai miei. Il filosofo ammonisce: se tuo figlio scrive versi, correggilo e mandalo per la strada dei monti; se lo trovi nella poesia la seconda volta, puniscilo ancora; se va per la terza volta, lascialo in pace perché è poeta». La scrittrice sarda fu candidata per molti anni al Nobel, la prima volta nel 1913. Il suo stile di scrittura è stato fortemente dibattuto, accomunato da prima allo stile descrittivista ottocentesco, poi a metà tra decadentismo e verismo.

La questione relativa al presunto verismo di Grazia Deledda trova una conferma nel momento in cui descrive la Sardegna non miticizzata ma realistica, i personaggi hanno coscienza di sé e si barcamenano nell’impresa di sfuggire alle loro posizioni sociali, per poi finirne vinti. Se nei romanzi veristi i protagonisti cercano di ribellarsi per soverchiare il sistema, in Deledda lo scardinamento della subordinazione si traduce in ribellioni passionali irrealizzabili. I costrutti sociali limitano e alimentano la trasgressione. La guerra è alle porte ma l’autrice sceglie di lasciare fuori dai suoi scritti i dettagli del suo periodo storico, convinta che la vera guerra resti quella interiore fra anime travagliate in difesa del diritto dell’amore o della conservazione di uno status sociale.

Deledda nasce a Nuoro il 27 settembre del 1871 da una famiglia borghese.
Al centro di tutta la sua produzione artistica troviamo la Sardegna, la sua terra. La narrativa della Deledda si basa su forti vicende d’amore, di dolore e di morte sulle quali aleggia il senso del peccato, della colpa, e la coscienza di una inevitabile fatalità. L’autrice era incompresa dai suoi conterranei, perché narrava di una Sardegna retrograda, che non rendeva giustizia a quel luogo, e che alimentava credenze erronee e stereotipate.

Un esempio di ciò è il romanzo Marianna Sirca, del 1915: «Marianna, dà retta a chi ti vuol bene: obbedisci. E Marianna aveva obbedito. Aveva obbedito sempre, fin da quando bambina era stata messa come un uccellino in gabbia nella casa dello zio, a spandere la gioia e la luce della sua fanciullezza attorno al melanconico sacerdote, in cambio della possibile eredità di lui». Marianna eredita il patrimonio dello zio prete e fa ritorno ai suoi possedimenti a Nuoro, dove era cresciuta. Ritrova il padre, il cugino Sebastiano, da sempre innamorato di lei, e Simone Sole, ora divenuto brigante ma che una volta era stato servo nella sua casa. Marianna e Simone si innamorano e programmano di sposarsi, ma questa unione, nonostante il loro sentimento puro, stenta a realizzarsi.

Lei esorta lui a costituirsi, scontare la pena per i suoi reati e una volta finito tutto iniziare la loro vita assieme. Lui, che da principio dice di condividere questo propenso, parte e non fa più ritorno, legato a un conflitto interiore. La volontà di sposarsi non regge il confronto con quella di godere della sua libertà, e il dislivello sociale non lo rende sereno. A questo punto entra in gioco l’amico, Costantino Moro, che spaventato all’idea di perdere il compagno corre a riferire i turbamenti di Simone a Marianna. La relazione è rotta, Marianna dà del vile a Simone, e perfino il cugino Sebastiano minaccia di ucciderlo se mai si fosse fatto trovare in compagnia di Marianna. Quella stessa notte Simone si reca da lei ancora innamorato ma furioso. Litigano e, in preda alla collera, Simone «cominciò ad ansare; si rimise il fucile ad armacollo e ricordò ch’era partito dalla grotta col tizzone in mano coll’intenzione di incendiare la tanca di Marianna e la casa di lei e di massacrare il bestiame e uccidere i servi, i parenti di lei, e anche lei, se lei non ritirava la parola. Vedeva tutto rosso; l’acqua che lo inzuppava si mischiava al suo sudore e diventava calda; e gli pareva di essere tutto intriso di sangue, del sangue sgorgato dalla ferita terribile che Marianna con quella sola parola gli aveva scavato nel cuore. Ma lo sguardo di lei lo frenava. Ella non cessava di guardarlo, silenziosa, con la testa reclinata un po’ a destra».

Così Simone se ne va via. Sebastiano fedele alla parola data si scontra e uccide Simone. Alla scoperta di ciò Marianna si dispera: «– Che farò, adesso? – pensava. Non avrebbe più amato, non avrebbe più atteso. Ma non era un senso di disperazione, il suo, era anzi un senso di speranza e di riposo: Simone sfuggiva oramai a tutti i pericoli. Ella non avrebbe più sentito il passo di lui sulla terra; ma era lui, adesso, che doveva sentire il passo di lei sulla terra, ed aspettarla al limite dove comincia la libertà vera». Con un Simone in fin di vita avverrà un matrimonio a suggello del loro sincero amore. Successivamente, Marianna anni dopo sposerà un uomo benestante, i cui occhi le ricordavano quelli del suo Simone Sole.

Marianna Sirca, è il primo dei romanzi di quella che viene considerata una vera e propria trilogia che comprende L’incendio dell’oliveto e si conclude con La madre. Con queste opere Deledda scioglie quello che per lei è un dilemma esistenziale, dando grande spazio alla figura femminile. La donna è la difenditrice della ragione, dell’ordine sociale, della morale e dell’etica.

In La madre troviamo un figlio prete dedito alla perdizione e una madre angosciata e insistente perché il figlio ritrovi la retta via. Dopo essere morta di dolore per quei gesti irrecuperabili, il figlio ritorna sui suoi passi e vive nel rimorso di aver ucciso sua madre.

In L’incendio nell’oliveto viene narrata la storia della famiglia Marini e in particolare di Agostina: nonna, colonna portante e regina della casa dove vive con i nipoti. Il romanzo, scritto in lingua italiana ma con la presenza di alcuni termini in dialetto sardo, si compone di 14 capitoli, durante i quali vengono vagliati molti dei temi cari all’autrice: la famiglia, lo status sociale, e l’amore in varie generazioni a confronto, da quello giovane e sincero a quello maturo e malizioso.

L’autrice muore a Roma nel 1936 spenta lentamente da un cancro al seno. Una delle sue ultime opere raccontava proprio di una scrittrice affetta dal cancro. Grazia Deledda resta l’unica donna italiana ad aver vinto il premio Nobel per la letteratura nel 1926. Voglio lasciarvi con una frase potentissima dell’autrice di Amori moderni (1907):

«Le più grandi cose si dicono in silenzio. Guarda la luna.»

Silvia Carani

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