Alice McDermott, ricordate?

La ragazza di fronte alla cattedra del professor Briand, nei primi anni ’70, in un’aula silenziosa della New York State University a Oswego, nello stato di New York. La ragazza con quel glimpse, quel lampo di futuro, quello scorcio sugli anni che verranno che le parole del professor Briand – I got bad news for you, kid: you are a writer, and you’re never going to shake it – le hanno aperto davanti agli occhi, in un giorno all’apparenza qualunque.

Il lago Ontario – al confine tra Stati Uniti e Canada, uno dei cinque grandi laghi in Nord America – se ne sta là, indifferente, una distesa d’acqua oltre i vetri delle grandi finestre dell’aula.

Gli altri studenti stanno pensando ai fatti loro. Quello è un istante della vita di Alice di cui nessuno si accorge. Accade, tutto qui, poi lei ringrazia il professor Briand, varca la soglia di quell’aula e la perdiamo di vista.

Compare nuovamente nei primi anni ’80. Vive a New York, adesso, con il ragazzo che ha sposato da poco. Due sposi novelli, giovani e pieni di speranze.

Dopo gli studi a Oswego, Alice si è trasferita in New Hampshire, dove ha ottenuto, nel ‘78, il suo Master of Arts. Poi si è sposata, appunto, e adesso la vediamo lì: New York. Manhattan, per la precisione, in un alloggio per studenti – il giovane marito studia ancora.

Hanno ricevuto un po’ di soldi, regali per il matrimonio. Decidono di usarli in questo modo: Alice avrà sei mesi per provare a scrivere davvero – perché you are a writer – prima che il gruzzolo finisca e lei sia costretta a trovarsi un lavoro. Bisogna approfittarne. Perciò vediamo Alice lì a Manhattan, seduta alla sua scrivania, intenta a scrivere il suo primo romanzo, senza sapere dove la scrittura la porterà, senza sapere che ne sarà di lei.

È che bisogna approfittarne.

Poi c’è una sera, in quei primissimi anni ’80 – ne avevo una decina, allora, ed ero una bambina timida, parecchio silenziosa – in cui Alice e il marito incontrano a cena uno scrittore, un professore di circa cinquant’anni col quale lei ha studiato all’università, quand’era in New Hampshire. Quello scrittore si chiama Mark Smith: ha pubblicato un libro, nel ‘73, dal titolo The death of the detective, che è stato nominato per il National Book Award.

Alice ha scritto un centinaio di pagine, quando tutti e tre si siedono a tavola in un ristorante – chissà quale – e di quelle pagine fa cenno a Mark.

“Be’, devi trovare un agente”, le dice lui.

“No, no, per carità. Non so dove sto andando, che cosa ne sarà”.

“C’è una persona”, prosegue Mark allora, in quel ristorante di Manhattan. “Si chiama Harriet, ed è una grande agente. Le scriverò una lettera, d’accordo? Ma poi tu dovrai contattarla.”

È un altro glimpse, un altro istante nella vita di quella ragazza, una novella sposa, cresciuta a Long Island in una famiglia irlandese, molto cattolica, molto patriarcale. Quel glimpse si chiama Harriet Wasserman.

Flash forward: Alice sta camminando in centro, con le sue cento pagine premute contro il petto. È intimidita, quasi paralizzata. In ogni modo arriva all’agenzia di Harriet. Ora è davanti alla porta del suo ufficio: dovrebbe bussare, entrare e presentarsi. Invece fa scivolare le pagine sotto la porta chiusa, e poi, subito dopo, scappa via – quanto capisco questa cosa: ricordo di essermi nascosta dietro un cespuglio, la sera di una festa organizzata da uno dei miei editori, di avere valutato la possibilità di andarmene, tant’ero imbarazzata; la storia del cespuglio è una delle mie storie preferite.

Probabilmente, nei giorni seguenti, Alice dice a sé stessa che non ne saprà nulla, non se ne farà niente. Ha solo cento pagine, che cavolo. Magari ripensa al professor Briand, almeno per un attimo, ripensa alla notizia che Briand ha dato, un giorno ormai lontano.

Ma poi squilla il telefono – mattina o pomeriggio, chi lo sa? – e all’altro capo la giovane Alice sente la voce di Harriet.

“Ascolta”, le sta chiedendo Harriet, “preferisci lavorare con una donna o un uomo? Voglio dire, un editor maschio oppure una femmina?”.

Silenzio incredulo, dentro l’appartamento per studenti.

“Andrà bene chiunque”, dice alla fine Alice.

Andrà bene chiunque.

Nel giro di una settimana, Harriet ha già venduto quelle cento pagine a Jonathan Galassi, editor alla Random House – ma anche poeta, poi traduttore di Eugenio Montale, di Giacomo Leopardi, poi romanziere.

Un magnifico editor, una vera fortuna.

E così Alice ottiene un anticipo, e con i soldi, un altro gruzzoletto, può continuare a scrivere per altri sei mesi, nel suo appartamento per studenti, là a Manhattan.

Quel primo libro, il primo di una lunga serie di romanzi – per la nostra gioia – si intitolerà The bigamist’s daughter e verrà pubblicato nel 1982.

Quello che Alice scoprirà solo più tardi – ed era qui che volevo arrivare – è il contenuto della lettera inviata da professor Mark Smith a Harriet Wasserman, l’agente:

You’re going to kiss my feet in Macy’s window for the young writer I’m about to send you.

In Macy’s window, cioè nella vetrina di Macy’s, in Herald Square, uno dei più grandi negozi del mondo. È un’espressione newyorkese, significa più o meno: mi bacerai un piede dove tutti potranno vederti.

Mi fa sorridere, quest’espressione, certo.

E poi mi fa pensare a quanta generosità possa passare, a volte, tra gli esseri umani, a quanto siano belle queste storie, a quanto mi confortino, in questo strano mondo in cui quasi nessuno fa più niente per niente, in cui quasi nessuno fa ciò che deve fare soltanto per la ragione che è giusto sia così, bisogna farlo e basta, senza aspettarsi nulla, senza alcun tornaconto.

La storia di Alice McDermott è piena di glimpse – istanti luminosi – a partire da quello più remoto nel campus dell’università di Oswego, lassù sul lago Ontario.

Ma oggi ho come l’impressione che la misura della grandezza di una scrittrice come lei – meravigliosa e autentica, una delle più grandi – sia quella corsa in centro, scappando da un ufficio, mentre avvampava di imbarazzo. Sia quel suo dire: “No, per carità, non so dove sto andando”, in un ristorantino di Manhattan. Mai sgomitare, mai. Non pretendere nulla. Fare semplicemente il proprio lavoro, punto e basta. E crederci davvero. Credere davvero.

Elena Varvello

Oswego, New York