La storia della letteratura annovera scrittori di formazione scientifica o tecnica –in Italia, Svevo, Gadda, Primo Levi e di recente alcuni altri.  Nessuna meraviglia quindi che Franck Bouysse sia un insegnante francese di biologia, autore di romanzi notevoli, l’ultimo dei quali Nato da nessuna donna, lo conferma anche narratore. Che la scrittura non sia esclusiva prerogativa di letterati e letterate, riempie il cuore di speranza, fa pensare alla cultura come substrato vitale, ramificato e radicato nella lingua viva; alla intelligenza narrativa, come patrimonio naturale comune e reale possibilità di sviluppo dell’umanità. Se un biologo scrive buoni romanzi, nulla è perduto. Positivismo e tecnocrazia insomma fanno meno paura.

Il racconto si svolge nella campagna francese di inizio Novecento, ha come antagonista proprio uno scienziato, un alienista, come si chiamavano allora i medici che curavano i matti o alienati, un uomo capace di tutto pur di mandare avanti la sua clinica e dimostrare le sue teorie. Nella rete della scienza a ogni costo finisce la protagonista, Rose, una insignificante ragazzina povera che diventerà donna in manicomio. Di lei non si saprà più nulla, secondo i piani del medico e di chi lo paga per tenere Rose segregata nella clinica, ma l’uomo di scienza e il ricco e violento signore che lo finanzia non sanno che Rose ha un’arma segreta: sa scrivere. E Rose scrive per non morire e non impazzire di dolore. La scrittura e la parola sono taumaturgiche e salvifiche per la protagonista; funzionali per la storia, il cui esordio è l’entrata in scena di misteriosi quaderni. La mano di Rose che scrive e impara parole per nominare il mondo ci riporta alla concretezza della scrittura, alle parole carne e sangue, carta e inchiostro, al rumore ruvido del lapis nel buio della solitudine.

Rose scrive e racconta, scopriamo la sua storia dai quaderni, ma non è l’unica narratrice. Conosciamo la voce di Rose attraverso quella di un uomo giusto, un prete di campagna a cui in confessionale vengono affidati i quaderni di una donna, morta nel manicomio.  All’inizio le parole hanno il suono maschile del curato, poi lentamente quello di una donna adulta, nei flashback la voce è di Rose ragazzina che narra la sua vita di dolore e violenza. Le due voci, maschile e femminile, sono inseparabili. Se è vero che quando si legge si ascolta, questo libro è l’ascolto di due voci che contemporaneamente raccontano. L’essenza del maschile e del femminile -e quindi dell’umano- è mescolata e intrecciata ad arte in quella che sarebbe solo una storiaccia di paese se non fosse venata d’amore. Dell’amore grande e umano verso gli altri esseri umani che palpita nel sangue dei personaggi e dell’amore erotico tra uomo e donna. Una forza sovversiva che sempre scombina i piani dell’odio e del male.

Il romanzo di Bouysse ha una trama da romanzo perfetto, il cui meccanismo ha un rumore appena percettibile e non troppo ingombrante.  È ben congegnato, pieno di indizi, disseminati in una misteriosa ragnatela, come spilli puntati su una mappa invisibile. Un intreccio formidabile e complesso che tende trappole ingannevoli, quando si crede di essere vicini alla verità. In questo inganno cade il buon curato che, mettendosi sulle tracce di Rose, prende numerosi abbagli. Soltanto Rose conosce la verità e non smetterà mai di crederci, tessendo fili di amore.

La vicenda di Rose potrebbe essere ambientata dovunque e in ogni tempo, perché il male fatto alle donne è purtroppo universale.  Il patriarcato maschilista che agisce violenza sul femminile con la complicità di donne, a causa di quella che Jean Bourdieu definisce violenza simbolica, non è al tramonto e ha ancora artigli ben affilati. Rose ci insegna a resistere e a non smettere di sperare.

Maria Antonietta Nigro

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