Ricostruzione nell’attimo del respiro della dissacrante epidermica di un osservatore abbastanza bravo a camminare o del dolore dell’acqua nella decoerenza di una storia

Prologo in forma di epilogo, o viceversa

di Simone Battig

È quell’uomo.
Posso immaginare che per voi non sia una gran cosa, la fotografia di un uomo seduto su una panchina, nel bel mezzo di un giardino tristemente curato, come solo i giardini degli ospedali, delle case di cura o di edifici che contengono dolore in genere e in quantità sanno essere. Ma l’uomo che vedete in un angolo del soggiorno, abbandonato quasi sullo schienale di una panchina in ferro rosso, con le gambe allargate, le mani strette tra loro a reggersi e lasciate andare verso una bassa preghiera che l’uomo non si sognerebbe mai di intonare, è il vostro uomo. È anche il mio, a dire il vero, dal momento che senza di lui non potrei raccontare questa storia, scrivere queste righe che mi ha chiesto di scrivere, per serbare un ricordo lungo una vita. Quell’uomo, il nostro uomo, altri non è che Eugenio De Menio, in un momento della sua vita. Nella foto aveva da poco compiuto cinquantaquattro anni ed era appena rinato. Non so cosa intendesse dire esattamente Eugenio quando pochi minuti prima aveva pronunciato quella frase. Lui non l’ha mai saputo spiegare o io, nonostante tutto, ancora non ho saputo intendere.
Di certo, mentre scattavo quella fotografia, Eugenio sapeva, come mi disse subito dopo, che quello sarebbe stato il suo ultimo incontro con Mario.
Io ed Eugenio abbiamo trascorso gran parte degli ultimi tre anni della sua vita a rievocare gli eventi. Eventi che avevamo in parte anche vissuto, è vero, ma che io non conoscevo nei particolari come posso dire di conoscerli ora. E se sono qui a scrivere non è solo per rispettare una promessa ma, molto più egoisticamente, per riempire, spero, dei vuoti. Per qualcosa che finora mi è sfuggito, qualcosa che mi è sempre sembrato di intuire vagamente ma che ancora oggi non riesco a comprendere.
In ogni modo non è semplice trovare quel che si nasconde dietro un desiderio, forse scoprire che è soltanto un’uscita dal mondo, il desiderare ciò che il mondo nasconde.
Tutto ciò che Eugenio ha ricordato è ciò che ha vissuto. Tutto ciò che Eugenio ha ricordato è ciò che qualcuno gli ha raccontato di aver vissuto. Tutto ciò che Eugenio ha ricordato è sempre e solo il racconto che qualcuno ha già raccontato.
Verso la fine, a Eugenio, piaceva dire cose del genere, parlando di sé in terza persona, ridendo della vita come se fosse già una cosa lontana da lui. Ma aveva ragione a dire quelle cose, perché una storia, per quanto ci sia sembrato di viverla integralmente, ha una realtà che trascende la nostra persona e arriva in noi solo a momenti, da strade lontane che improvvisamente convergono sulla nostra pelle.
Ci sono storie che vanno lasciate dove si trovano. Altre che scappano come giraffe o dormono sotto il pelo dell’acqua, vicino agli scogli più cari. Altre volano, come proiettili o gabbiani, o sono solo scie.
Io non saprei dire di quale tipo sia questa storia, forse solo Eugenio potrebbe. Lui è il testimone.
A pensarci, ora che ho cominciato a scrivere, una buona volta e per sempre, tutto il mio mondo mi appare come una scatola nel buio dentro cui possiamo ascoltare la storia che un uomo ha raccolto per ogni uomo e ora rende vicini noi, per sempre. Ora che Eugenio non c’è più, ora che, da quello che sento, la sua, è una storia che, anche se finisce qui, comincia come tutte. Con una nascita.

VOLUME PRIMO
GLI ANNI

I
La nascita

Mario Bianchi nacque dove non batteva mai il sole.
E non poteva essere diversamente, nascendo Mario nel reparto di ostetricia al piano seminterrato della clinica “Madonna Santissima” di Trevolto, il giorno undici settembre duemilauno, esattamente alle 14:48.
In quel primo pomeriggio, nel seminterrato della “Madonna Santissima”, clinica privata di proprietà di un carissimo amico del padre di Vincenzo, i genitori, Eliana e Vincenzo, avevano la certezza di veder nascere un maschio perché nel corso dell’ultima ecografia si era visto tutto di Mario: stava a gambe larghe e sembrava quasi nuotare sul dorso, con stile a rana capovolta. Si era potuto ben vedere che era un maschio.
Vincenzo aveva già il nome pronto, Vincenzo aveva il nome pronto da sempre, anche quando aveva incontrato Eliana e l’aveva baciata, lì, a mezz’aria sopra la scrivania dell’ufficio dell’INPS dove Eliana lavorava e ora veniva baciata, durante la pausa pranzo, dall’uomo che sarebbe diventato suo marito. Infatti Vincenzo, che è uno che non tiene dentro niente, aveva subito detto a Eliana: «Nostro figlio sarà bellissimo. Sarà un maschio e lo chiameremo Mario. Sai, io porto il nome di mio nonno, nella mia famiglia è tradizione che i maschi portino il nome del nonno, da generazioni ogni Bianchi maschio si chiama Vincenzo o Mario. Non è fantastica questa cosa?», ed Eliana non aveva opposto resistenza a quella storia dei nomi dei padri e dei nonni, perché amava Vincenzo e il suo bambino, che era l’amore suo e di Vincenzo fatto carne, e allora se la vita li aveva fatti incontrare e amare, questo bambino che sarebbe nato, aveva pensato fin dal primo momento Eliana, non avrebbe potuto che chiamarsi Mario.
Ma, in verità, non era stato tutto così semplice per arrivare a vedere la testa di Mario, dopo quasi venti ore di travaglio, spuntare tra le gambe di Eliana.
Eliana e Vincenzo, dopo quei primi fugaci incontri alla scrivania di lei, con Vincenzo che inventava nuove scuse per tornare nonostante avesse finito di percepire il suo assegno di disoccupazione, avevano continuato a vedersi. Andavano spesso al cinema a vedere film francesi, in particolare di Leconte e di Ozon, e Vincenzo ogni volta diceva «Ci è piaciuto, amore?» ed Eliana rispondeva felice «Sì, molto!».
Facevano progetti Eliana e Vincenzo perché, si dicevano, erano del Capricorno e dell’Ariete e quindi erano costruttivi anche se faticavano a mettersi in moto e, per fortuna, si dicevano ancora, avevano come ascendenti Pesci e Acquario. Pesci e Acquario dovevano andare d’accordo per forza, no? Perché se fosse stato per Capricorno e Ariete, sai che testate? E così si sorridevano fino alle tre di notte sul viale di casa di Eliana.
Quel pomeriggio, poco prima che Vincenzo cominciasse a scorgere la faccia sofferente di Mario tra le gambe di Eliana, lei spingeva e vedeva passare veloci i sei anni già trascorsi assieme a Vincenzo. E a Vincenzo ogni spinta e ogni smorfia appendevano nella testa un momento diverso della sua vita con Eliana, come se quei momenti gli bussassero sulla spalla e lo costringessero a voltarsi indietro. Ma Vincenzo non voleva voltarsi, voleva vedere suo figlio nascere.
Aveva persino la videocamera puntata sulla scena, ma si era accorto solo due giorni dopo di non aver registrato nulla. L’aveva solo tenuta accesa, facendo qualche zoom avanti e indietro, lì, confuso, da dove il medico gli aveva detto di stare, buono e tranquillo.
Vincenzo era sempre stato un tipo tranquillo se è per quello, ma la faccia di tuo figlio, la prima volta che ti appare, è una cosa che non ti permette di stare tranquillo. Vincenzo, come tutti, aveva cominciato ad agitarsi. La faccia del figlio, dentro l’obiettivo della videocamera, gli era apparsa di colpo in tutta la ferocia di una nascita e Vincenzo aveva dovuto distogliere lo sguardo.
Il fatto è che i medici, il ginecologo e l’ostetrica, a volte anche un’infermiera, avevano appena smesso di saltare sopra la pancia di Eliana, avevano appena interrotto di spingere a due mani e un po’ con le ginocchia sopra la pancia di Eliana, e Vincenzo se n’era reso conto solo in quel momento, vedendo sgusciare la testa di Mario fuori da Eliana come del dentifricio da un tubetto di dentifricio. E allora a Vincenzo aveva preso a ballare tutta la stanza, negli occhi e sotto i piedi. La videocamera aveva cominciato a puntare il soffitto e a roteare finché si era accasciato strisciando con la schiena lungo il muro, cercando aria che all’improvviso era diventata sfuggente.
Il ginecologo, quello che aveva appena finito di saltare sulla pancia di Eliana, aveva preso tra le mani la testa e le spalle di Mario, che ora nasceva sul serio, ma con la vista periferica era riuscito anche a scorgere Vincenzo mentre si accasciava. Del resto, era un dottore. Allora aveva urlato qualcosa all’infermiera mentre Eliana aveva appena finito di urlare, spingere e sbuffare.
Anche Eliana era già quasi tornata in sé rispetto agli ultimi minuti del travaglio, cosicché aveva potuto vedere Vincenzo adagiarsi sul pavimento, come fosse un personaggio di pezza, soccorso da un’infermiera mentre un ennesimo infermiere era piombato saltabeccante e inutile nella stanza.
Cercando Vincenzo con lo sguardo, Eliana, sullo schermo della televisione muta, aveva sfiorato un’immagine che sembrava fissa. La televisione in sala parto, seppure senza audio, l’aveva voluta il primario, perché pensava fosse una buona idea divagare le partorienti che, se volevano distrarsi dalle contrazioni, potevano guardare qualcosa di familiare sullo schermo. Del resto era un primario, certo, ma di sesso maschile, e poco sapeva della reale possibilità di divagarsi dalle contrazioni.
Mentre Vincenzo veniva portato fuori che appena riusciva a reggersi sulle gambe, lievemente rianimato, con la videocamera appesa al collo che gli ondeggiava sul petto e non riuscendo ancora a mettere a fuoco la situazione e nemmeno il luogo, Eliana sentiva Mario uscire da lei e lo vedeva sollevato nell’aria piangere, piangere, piangere così forte che le sembrava che i muri vibrassero di agitazione, pronti a scappare via, lontano. Ma lei sapeva solo sorridere in quel momento, sorrideva come se quel figlio appena nato non avesse avuto più bisogno di lei, per qualche attimo almeno, prima di riprendere a crescerlo, per sempre.
Il dottore guardò Mario mettendolo a testa in giù e disse: «Ciao Mario» e ancora qualcuno stava armeggiando con placenta, cordone ombelicale, sangue e sudore.
Quasi come un ballerino di flamenco ubriaco, Vincenzo era rientrato nella stanza appena in tempo per vedere Mario essere adagiato sul petto di Eliana. Respirava bene ora Vincenzo, ed era così felice che rimaneva pietrificato e brillo a guardare Eliana e Mario, così sfiniti e meravigliosi. Subito qualcuno gli fece tagliare il cordone ombelicale e lui eseguì meccanicamente l’operazione tremando un po’, baciando poi Eliana sulle labbra. Ma ancora l’ostetrica lo trascinava già verso un grande lavabo pieno d’acqua. L’ostetrica disse «Venga, venga» a Vincenzo, e sussurrò «Il tuo primo bagnetto» a Mario, dopo averlo preso in braccio piuttosto bruscamente.
Ha la testa a pera, aveva pensato Vincenzo andando improvvisamente lucido come non mai verso il lavabo. Proprio tanto a pera quella testa, continuava a pensare. Si era messo a guardare un po’ sospettoso il figlio e continuava a pensare che era veramente troppo a pera quella testa. Stava quasi per chiedere informazioni con aria preoccupata all’ostetrica quando lei aveva schiaffato di getto Mario nell’acqua, immergendovelo completamente. Allora Vincenzo aveva avuto l’impressione di sentire un rumore soffice risuonare nell’aria prima di vedere Mario riemergere dall’acqua con una testolina perfetta e tonda, piccola piccola come Vincenzo se l’era sempre immaginata. E tonda. Una testa perfettamente tonda.
Vincenzo non sapeva che dire, ma ora era più contento. Gli stavano asciugando il figlio, curavano delicatamente il suo ombelico, e infine lo avvolsero in un panno caldo e glielo misero in braccio perché lo portasse alla madre. E Vincenzo, come se avesse avuto in mano un elefante di zucchero filato, aveva mosso i suoi passi verso Eliana arrivando cautamente a metterle in grembo quel bambino ora così sereno, stringendosi a loro. Per sempre.
Sullo schermo del televisore c’era ancora quella immagine che sembrava fissa ed Eliana aveva cominciato a scrutare il dottore, l’ostetrica e gli infermieri che guardavano straniti verso lo schermo. Si vedeva, solo ora anche lei se ne stava accorgendo, una colonna di fumo nero salire da dietro un grattacielo immenso.
Eliana aveva richiamato Vincenzo dal suo faticoso idillio, l’aveva distolto dal figlio e, sfinita, gli stava dicendo «Guarda…» indicando con il mento la televisione. E mentre Vincenzo guardava e subito nella sua mente passava il nome di una città dove non era mai stato ma che sentiva di conoscere da sempre, proprio in quel momento, assieme a un urletto acutissimo dato da una voce femminile nella stanza, proprio in un istante preciso e interminabile Eliana e Vincenzo con il loro bambino appena nato vedevano piombare nello schermo un aereo quasi irreale. Ed era come se quell’aereo irreale, mentre virava nel cielo ed entrava incomprensibilmente dentro un grattacielo, piombasse anche nella stanza dove tutti guardavano immobili quello schermo, che in un momento si apriva e divorava lo spazio. Di fumo nero e silenzio.
Di fumo nero e silenzio, avrebbero detto per anni Eliana e Vincenzo ricordando quel giorno.
E per quanti anni avrebbero ripetuto le stesse cose? Avrebbe detto un giorno Mario crescendo.

II
A Trevolto le cose andarono così

Trevolto era un paese ai piedi delle montagne. Non così vicino e nemmeno così lontano. Si stendeva su quell’ultimo pezzo di pianoro diradando le sue case in prossimità della sagoma scura dei monti. Aveva assunto negli anni una pianta a triangolo scaleno, cercando di far sgusciare le nuove case dal cono d’ombra dei monti, senza riuscirvi.
Le ultime case costruite infatti, imponenti e seriali, giacevano sulla punta immaginaria di quel triangolo e sottostavano, per fatalità e disponibilità del piano regolatore comunale, all’ombra pressoché totale, dominate anche da Villa Ombrosa, storica residenza di collina della famiglia Tontini.
L’ultimo erede Tontini aveva venduto i terreni di sua proprietà al Comune per la costruzione di queste nuove case in cooperativa: abbinate, trifamiliari, quadrifamiliari, piccole unità condominiali. Tutte case destinate, tramite offici politici a prezzi ribassati, a nuovi benestanti e figli arricchitisi durante l’ultimo decennio e ora, all’inizio del millennio, proprietari di disciplinate casette da cento metri quadrati e di giardinetti interiori.
La facezia dei giardinetti interiori era nata nei bar assolati di Trevolto durante quello strano boom edilizio, traendo spunto dalla mancata realizzazione di aree verdi nel nuovo quartiere ombroso. Era accaduto che i geometri del Comune se n’erano, semplicemente, dimenticati, troppo presi dal mettere giù più metri cubi possibili di cemento armato. E i trevoltini, nei bar assolati, non avevano mancato di commentare sarcastici che, evidentemente, «quei che gha fatto i schei», in quanto interiormente soddisfatti dei loro soldi, non avevano bisogno del giardinetto fuori di casa. Loro, era chiaro, «el giardinetto jo gha direttamente nel buso del cueo», così potevano portarselo in giro tentando di fargli prendere il sole che mancava al quartiere.
Un tentativo tardivo di piantare un po’ di verde fu fatto a quartiere già completato, ma nei pochissimi spazi rimasti non si riuscì a far attecchire nemmeno la gramigna, forse per la totale mancanza di sole, e si finì così per preferire un’ordinata e sistematica cementificazione, a detta del sindaco, durante la cerimonia di inaugurazione del quartiere, preferibile in quanto «Specchio di un progetto volto al rinnovamento urbanistico, al decoro e alla pulizia dei quartieri cittadini giacché, come converrete, è un dato di fatto che le piante sporcano, minacciando tra l’altro l’integrità delle vie di accesso asfaltate con lo sviluppo delle loro radici».
Il quartiere inaugurato si doveva chiamare “Alba”, non si sa bene perché, ma dopo la diffusione della storia dei proprietari di giardinetti interiori tutti presero a chiamarlo “Il Nuovo Ulteriori”, per assonanza con la facezia dei giardinetti interiori e soprattutto per i numerosi comunicati stampa del Comune sull’imbarazzante situazione rivelatasi in corso d’opera, comunicati che terminavano tutti, invariabilmente, con la sagace chiusa: «Ulteriori comunicazioni atte alla risoluzione della problematica inerente le aree verdi del sorgente quartiere di Alba saranno tempestivamente fornite alla cittadinanza interessata».
Qualcuno poi aveva cominciato a malignare, a proposito del Nuovo Ulteriori, sostenendo che quei terreni venuti dalle proprietà dell’esimio cav. Tontini non potevano che creare situazioni equivoche e imbarazzanti.
Il cav. Franco Massimo Tontini, ultimo erede della prestigiosa famiglia
trevoltina, si era spento a cinquantasei anni in circostanze assai avverse e particolari. La cittadinanza aveva fornito la seguente spiegazione della sua morte.
Dopo una vita di agi e vizi giovanili molto dispendiosi, una perdita precoce e irreparabile in età universitaria come quella della madre, una maturità passata nella totale dipendenza economica e morale nei confronti dell’autorità paterna, il cav. Franco Massimo Tontini, alla morte del padre durante un viaggio di affari, alla tenera età di cinquant’anni si era ritrovato solo e incapace di gestire il considerevole patrimonio familiare. In breve tempo dilapidato quanto poteva dilapidare in investimenti fallimentari e abbandonata totalmente la sua vita agiata per mancanza di fondi, si era visto costretto a svendere precipitosamente i terreni soggiacenti alla Villa. E, a quanto sembra, questa vendita era bastata appena ad assicurargli una dignitosa vecchiaia.
Ma il cav. Tontini, a pochi mesi da quella vendita, ritiratosi quasi completamente tra le mura di Villa Ombrosa oppresso da solitudine e angoscia, pare avesse deciso di togliersi la vita. Le versioni sui fatti di quella triste sera di novembre sono, nei particolari, molteplici, ma la più accreditata e diffusa a Trevolto parla di un cav. Franco Massimo Tontini intento a impiccarsi, verso l’ora di cena, al ramo più basso del maestoso cedro del parco di Villa Ombrosa. Dopo essersi lanciato da una scala con una robusta corda stretta attorno al collo, il Cavaliere, quasi incredulo, era però piombato a terra come un fulmine, travolto in parte anche dal ramo spezzatosi del cedro. Sembra risultare, dall’autopsia che fu eseguita, che il cav. Tontini fosse comunque sopravvissuto alla caduta, spezzandosi solamente entrambe le gambe. A quel punto, così si diceva a Trevolto, il Cavaliere, rianimato, scosso e improvvisamente per nulla intenzionato a morire, aveva cominciato a trascinarsi verso la porta di casa, con tutta probabilità pensando di raggiungere un telefono per chiamare aiuto. Per sua sfortuna, nella fredda e scura sera novembrina il cav. Tontini, strisciando concitato e dolorante, sicuramente non del tutto lucido, era finito giù per il piccolo fossato artificiale che divideva il giardino e il patio dal grande parco di piante secolari che cingeva d’attorno la Villa. Nella rovinosa caduta aveva quindi sbattuto violentemente la fronte e il labbro superiore, cominciando a grondare sangue. In tale situazione disperata il Cavaliere non aveva desistito e, con un coraggio degno dei suoi illustri antenati, aveva proseguito a strisciare verso l’agognata meta, pulendosi di tanto in tanto con le mani il sangue che sgorgava copioso dalla bocca e tergendosi con le maniche la fronte altrettanto imbrattata di sangue che cominciava a rigargli anche gli occhi.
Infine il Cavaliere era riuscito a raggiungere la porta di casa, o almeno così concordarono le ricostruzioni di tutte le autorità, dei giornali e dei paesani, ma era stato proprio quello il momento in cui, ormai attaccato alla maniglia, il cav. Franco Massimo Tontini era stato colto da inspiegabili spasmi, atroci quanto definitivi. Più volte, rilevò la polizia…

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